16.11.10

alcolismo un viaggo senza ritorno e un modo sbagliato d'aprire le porte della percezione

Dedico il post  d'oggi  ad  alcuni miei amici  che  sono divntati alcoolizzati  e che ogni settimana  si cuociono  con esso  .






 
Dopo alcune  esperienze  e tentativi  d'aprire le porte della percezione  oltre che ad evadere dalla realtà , con  mezzi   artificiali  ed  estranei    ho iniziato  coontemporaneamente  alla lettura  e  alo studio)( per  scuola  \ università e piacere personale  ) di letteratura maledetta  \ decadente    ad  interessarmi   di stupefacenti  , droghe   leggere  e  alcool . Da  mi chiedo   e mi sono  sempre chiesto per quali motivi la  cannabis e altre erbe alluccinogeni  o roba  chimica  fossero  nella maggior  parte proibite , mentre l'acool ed altri psicofarmici  fossero probiti   e considerati illegali    .
Chiedendo ed informandomi, ma soprattutto con la mia  breve esperienza fortunatamente  interrotta  dalla cefalea   e dal reflusso esofageo ,  sono giunto ad una conclusione certa , che  ubriacarsi  non serve  a  dimenticare  ed  ad evadere , ma da  solo risultati effimeri  e  di poco conto  .Parlando con gli amici  che il fine settimana  si distruggono   con esso ho appreso : che l'alcol si differenzia dalle droghe illegali per il fatto che nutre oltre che ubriacare. Questo è vero, ma il rovescio della medaglia è che l'alcol oltre che a "sballare"\ far evadere crea dei btrutti effetti   alla  propria  salute e psiche , peggiorando la situazione con un viaggio senza  ritorno  . Infatti  leggo su  un articolo   di www.abcsalute.it  : << L’alcolismo è una malattia di per sé. Parliamo di una vera e propria dipendenza da alcol. Non di un vizio come erroneamente si pensa. Sintomo cardine dell’alcolismo il craving, un’appetizione patologica che si manifesta con il desiderio intenso e incontrollabile che spinge il soggetto a bere e dunque mitiga il malessere psicofisico. Da chiarire però: l’alcolismo come malattia non va confuso con il più noto fenomeno giovanile dell’abuso da alcol e della conseguente intossicazione acuta, racchiusi in fenomeni da intendersi più di costume, di moda, attualmente molto diffusi e non certo catalogabili come già atteggiamenti di dipendenza.    Ma allora come individuare le manifestazioni cliniche specifiche dell’alcolismo come malattia ?   Per poter parlare di dipendenza alcolica è utile seguire i criteri preposti dal Manuale Diagnostico Statistico (DSM IV) dell’APA (American Pychiatric Association) che permette di fare una diagnosi in presenza di almeno tre di queste caratteristiche, ossia di un impellente bisogno di dosi sempre più elevate per raggiungere l’effetto desiderato con inevitabile aumento della tolleranza o di assuefazione; comparsa della sindrome di astinenza da alcol, meglio dire di un malessere fisico o anche psichico se la 

persona non beve; impossibilità di controllarsi; desiderio persistente della sostanza e di conseguenza impossibilità di ridurne l’uso; continua ricerca dell’alcol fino ad arrivare al punto che il soggetto colpito dall’alcolismo passa gran parte del suo tempo alla ricerca del bere o per riprendersi dall’effetto dell’intossicazione da alcol.Ma non è neppure da sottovalutare anche un altro elemento che l’alcolismo comporta, l’interruzione in genere delle attività lavorative, di quelle di svago, di tutti i contatti sociali, tutte conseguenze negative di cui, i soggetti colpiti spesso sono consapevoli. >>

Inoltre essi mi dicono ( lo pensavo anch'io )  che l'alcol  è parte della nostra cultura.Certo  è vero è impossibile negarlo in quanto  lo è stato fin dall'antichhità   .                  Ma quale cultura è quella  dell'alcolismo  ?  quella  dell'autodistruzione   e   della distruizione    psicologica di chi ti sta  affianco  nei casi piàù gravi  ?
L'alcool  fra  tutte le sostanze psicotrope  è quella che arreca più danni al fisico e alla mente e è parlare anzi meglio    elogiare la  cultura dell'alcol è come parlare di cultura del suicidio e dell'autodistruzione
Infatti  coe  dice  il mio  compagno didi viaggio di Fb P.G.C  ( chiaccherata  che mi  a  togliermi definitivamente    alcuni luoghi comuni e pregiudizi  sul mondo dell'alcool e  degli ex alcolisti )  : << SAREI FELICISSIMO SE FOSSE CURABILE. POTREI FINALMENTE RIASSAGGIARE UN BICCHIERE DOPO 24 ANNI CHE NON TOCCO UN GOCCIO D'ALCOL. E TANTI AMICI ANCHE CON 15 ANNI DI SOBRIETà DOPO AVER ASSAGIATO IL PRIMO SONO RICADUTI E MORTI.PURTROPPO PER L'ORO.MA MI HANNO INDICATO LA VIA GIUSTA. NON BERE X L'ALCOLISTA ,L'ALCOL è VELENO.>>

Riporto sotto i danni che  un uso prolungato o  un abuso del'alcool pò fare Dalla  cache  di www.freecannabis.ch/alcol-dipendenza-alcolismo.htm ecco in sentesi i danni dell'alcool  ed  del suo abuso   per chi volesse saperne  di più come la correlazione fra  alcool  e cancro  vedere   url  fine post


PROBLEMI RELAZIONALI
Sono le difficoltà che si creano nei rapporti interpersonali, soprattutto in famiglia. L'alcol è una delle cause più rilevanti nelle crisi familiari, nella violenza domestica e in quella sui bambini. Nella famiglia in cui si vivono problemi legati all'alcol, parlarsi e dialogare diventa sempre più difficile, si comunica con rabbia, con accuse reciproche, oppure avviene un blocco nella comunicazione. I rapporti e i ruoli cambiano e si invertono all'interno della famiglia, le colpe cadono sul familiare accusato di bere che si sente così escluso e svalutato, le responsabilità non vengono più condivise. Un grande disagio e una grande sofferenza investono tutti i componenti del nucleo familiare.
PROBLEMI SOCIALI
L'alcol comporta danni nella sfera lavorativa e in molti altri campi della vita di una comunità. Causa una spesa sociale considerevole in termini di perdita di produttività e costi per la salute; il peso economico è stato stimato in circa il 5-6% del Prodotto Interno Lordo Si stima che 1/5 degli incidenti stradali siano causati dal consumo di alcol e che esso costituisca un fattore importante negli infortuni sui luoghi di lavoro: esso causa inoltre, assenteismo e riduzione delle prestazioni professionali. E' inoltre responsabile di una parte consistente di problemi di ordine pubblico inclusi crimini, omicidi e atti violenti.

PROBLEMI FISICI
L'uso di alcol è causa di una parte consistente delle malattie e della mortalità e porta all'utilizzo di una quota significativa di servizi sanitari. E' stimato che il 6% dei decessi di persone con età inferiore ai 75 anni e il 20% delle ammissioni per patologie acute negli ospedali sono imputabili al consumo di alcolici . Le malattie alcolcorrelate sono tutte legate agli effetti tossici della sostanza nel tempo. Questa non è dannosa solo per il fegato ma i suoi effetti negativi possono manifestarsi, in modi diversi, in tutti gli organi del nostro corpo.
  
 >>

Ora  molti di voi   mi diranno  ma  cosa  ne  sai di alcool e  d'alcolismo   se  non l'hia visssuto ? o molti  sbuffufando   si stancheranno  di sentire sempre le stesse cose   ma ,  come dice   questo mio amico P.G.C  a cui mi sono rivolto per conoscere affondo  tale problema ,  << NON STANCARTI DI SENTIRE SEMPRE LA STESSA STORIA. MA RACCONTA LA TUA E AIUTERAI TANTI SOFFERENTI CHE NON HANNO CONOSCIUTO [  O FANNO  FINTA  O  NON VOGLIONI  CONOSCERE  ]le  varie associazioni   come   A.A >> .P.G.C è  "  un esperto in materia   " in quanto  dopo aver  buttato  per  24  anni  la sua  vita   nell'alcool   è rinato  dopo un lungo travaglio interiore : <<    Io ero uno di loro e oggi,con orgoglio,posso dire che da quasi quattro anni vivo in sobrietà e non sono mai stato meglio >>  tramite programmi di cura     ha   per  poter  aiutare  gli altri   che  hanno attraversato ed  attraversano  ma ne  vogliono uscire  dalla piaga  dell'alcoolismo   fondato  un gruppo ( che trovatre  anche  qui su fb )  liberiamoci dala schiavitù dell'alcool .
Concordo con  quanto    dicono molti ex  alcolsti  BISOGNA INFORMARE TUTTA L'OPPINIONE PUBBLICA CHE L'ALCOLISMO è UNA MALATTIA E NON UN VIZIO.IL VIZIOSO SI NASCONDE PER VERGOGNA E MUORE, IL MALATO SI Fà CURARE E VIVE SOBRIO. CHI NON HA QUALCUNO CHE POTREBBE ESSERE AIUTATO .  Se Dall'alcolismo non si guarisce , questa  è l'idea che mi sono fatto leggendo per  nformardmi   priam di  scrivere  questo post    la pagina degli alcolisti anommi  (   riporto sotto alcuni link ) , la  pagina prima  sopracitata e lòa chiaccherata  con il suo fondatore  . IL  sistema   che   ti permette  di  smettere di  bere e di  guarire   dala malattia  come dice  questa  interessantissima discussione  avvenuta   su  ansewers di yahoo  definitivamente  non esiste . L'unico  sistema che porta   a smettere e alla fine  di dire  basta  alle tentazioni   è quello  di   vivere sobriamente . Sono migliaia di gruppi in tutto il mondo e sono gratis che  aiutano a farlo .
Visto che La maggior parte delle persone giudicano l'alcolista una vergogna da scansare.E quando capita a casa ,lo nascondono per vergogna.o non ne parlano volentieri  e  quando è troppo mal preso cercano invano di farlo rinchiudere in qualche Comunità rimanendo  nella maggior partre deic asi   nascosto a tutti, pensando sia giusto così. Ma  Secondo me così non si trattano neanche le bestie , quindi  è bene   a mio avviso accetttare  ed  accettarsi ( anche  se  è dura  e non è facile ed  doloroso  ne  so  qualcosa  io che sono pornodipendente anche  se  in realtà il termine  dipendente  è  errato e si dovrebe parlare  di  compulsione    e soffro di fame  nervosa \ compulsiva    quasia livello  bulimico .  Ciascuno ha  la  sua croce   , perchè : <>   cit  cinematografica   ) e  si  riesce  a lasciare perdere   gli stupidi e  i cretini  , ma  soptrattutto si facilitano i rapporti umanie  d lavoro  qual'ora  uno\a   vuole rifarsi una vita  e togliersi quel "  tatuaggio \ marchio "   e poter  riacquistare la propria dignità e il proprio orgoglio  interiore .

       
    
    approfondmenti

15.11.10

dimenchamo e piccole cose non le grandi stragi di brescia e fiumicino 1973

repubblica online

IL CASO

Il processo di Brescia
che l'Italia dimentica

Dal 9 novembre i giudici della corte d'assise sono ritirati in camera di consiglio per deliberare sulla strage del 1974. Per quegli otto morti oggi si giudicano solo imputati per concorso in strage. Tanti sono stati i depistaggi

di BENEDETTA TOBAGI
Mentre un governo crolla a pezzi, intere province s'inondano con danni inauditi, i media seguono con morbosa attenzione i torbidi sviluppi dell'omicidio di una quindicenne, la polizia prende a manganellate un sit in non violento che solidarizza con alcuni operai immigrati che protestano per i loro diritti, in una città di provincia, nella quiete ovattata di una stanza d'albergo piena di computer e tazze di caffè, otto persone stanno studiando da giorni centinaia di migliaia di pagine di documenti in formato digitale, per decidere di un delitto di 36 anni fa. Sembra l'inizio di un episodio della popolare serie investigativa Cold Case, ma sta succedendo davvero. Brescia, le donne e gli uomini della corte d'assise del tribunale locale, due togati e sei giurati popolari, dopo due anni di dibattimento, 150 udienze e migliaia di testimoni, il 9 novembre si sono ritirati in camera di consiglio per decidere le sorti di cinque imputati per concorso in una strage che ha ucciso 8 persone e ne ha ferite 102, il 28 maggio 1974. Tra gli imputati, un generale dei Carabinieri, Francesco Delfino. Un ex deputato, senatore e segretario dell'Msi, Pino Rauti. Due figure chiave dell'organizzazione eversiva neofascista Ordine Nuovo (costola del centro studi fondato da Rauti nel 1956), il medico Carlo Maria Maggi e l'orientalista, poi imprenditore, naturalizzato giapponese (il suo nome oggi è Roy Hagen) Delfo Zorzi: condannati e poi assolti per la strage di piazza Fontana.
RADIO RADICALE: TUTTE LE REGISTRAZIONI DEL PROCESSO 
Un ex militante missino legato agli ordinovisti, informatore del SID dal 1973 al 1977 col pittoresco nome in codice "Tritone", Maurizio Tramonte. I carabinieri, le spie, la politica, l'eversione neofascista, i depistaggi, tutto vero, tutto pubblico, agli atti del processo: meglio della serie tv Romanzo Criminale (le stazioni sono invase di cartelloni pubblicitari dei nuovi episodi), eppure nessuno ci bada. Fuori dalla provincia di Brescia quasi nessuno ha parlato di questo processo, il terzo celebrato (dopo 5 istruttorie e 8 gradi di giudizio precedenti) per dare un nome ai responsabili e ai mandanti di uno dei più orrendi eccidi della "strategia della tensione": la bomba, collocata in un cestino dei rifiuti in piazza della Loggia, da sempre cuore della vita della ricca cittadina lombarda, esplose alle 10:12 del mattino nel mezzo di una pacifica manifestazione antifascista, organizzata per esprimere rifiuto e condanna della violenza eversiva dopo una sequela di episodi violenti di marca neofascista che da settimane turbavano la sicurezza della cittadinanza e della democrazia.Fatto unico, esiste una registrazione dell'esplosione della bomba: avvenne nel mezzo del discorso del sindacalista Franco Castrezzati. Andate ad ascoltarlo (www.28maggio74. brescia. it/index. php?pagina=73): supera la fantasia di qualunque sceneggiatore. Abbiamo la voce orrenda di quella bomba, ma poco altro: i periti si sono dati ancora una volta battaglia sui pochissimi reperti disponibili per determinare la natura dell'esplosivo impiegato, perché la piazza, e con essa i resti dell'esplosione, fu improvvidamente (o scientemente?) lavata a poche ore di distanza dalla strage, su ordine della locale Questura. Si disse: per non turbare la serenità dei cittadini con la vista dei resti di un massacro. Ma ciò che rischiava di turbare la quiete delle coscienze era il sangue in terra o piuttosto la possibilità che - se non si fossero distrutte le prove e dirottate le indagini - emergesse la verità, penale e politica, sull'ennesima strage? Proprio il generale dei Carabinieri Delfino, che condusse le prime indagini,  è imputato in attesa di giudizio, oggi, per concorso in strage.
Lontano dagli occhi, lontano al cuore e dalla mente: via il sangue dal selciato, via le cronache di un processo scomodo e perturbante dall'attenzione di un paese, che avrebbe invece tanto bisogno anche della verità su Brescia per ricostruire un rapporto di fiducia tra gli italiani e le istituzioni. Perché i molti volti dell'eterno Principe italiano, come l'ha chiamato il giudice Scarpinato, certi meccanismi (servizi segreti che proteggono i criminali anziché i cittadini in nome di "interessi superiori" o inconfessabili finalità politiche; servitori dello Stato infedeli) siano conosciuti, compresi e prima o poi, finalmente, disinnescati.
Attendiamo il dispositivo della sentenza. E ancor più, le motivazioni, che  -  anche in caso di assoluzioni  -  aggiungeranno importanti tasselli alla conoscenza storica dello stragismo neofascista. Ma ricordiamo alcune cose che prescindono dal contenuto della sentenza. Per quegli otto morti, oggi si giudicano solo imputati per concorso in strage. I depistaggi sono stati tali e tanti che, dopo 36 anni, non si può neanche cercare di sapere chi mise la bomba nel cestino quella mattina. L'autenticità e attendibilità delle centinaia di note informative riconducibili a "Tritone" è stata confermata. Se fossero state disponibili anche agli inquirenti dei precedenti processi, forse avrebbero permesso di identificarle, le mani che deposero la bomba. Nel processo, si sono delineate le responsabilità politiche e morali di uomini dell'Arma e del Sid. Servizi di sicurezza, si chiamano: ma sicurezza di chi? se non collaborarono coi magistrati nemmeno davanti a otto bare di cittadini innocenti uccisi nella pubblica piazza? In aula, c'era sempre Manlio Milani, in rappresentanza dei famigliari delle vittime. Dall'altra parte, nella gabbia, solo Tramonte (detenuto per altri reati).
Tra gli imputati, nemmeno coloro che hanno ricoperto incarichi pubblici di alto livello e cariche rappresentative, come Delfino e Rauti, hanno ritenuto di mettere mai piede nell'aula dove, faticosamente, si celebrava il rito democratico del processo. Non sono venuti a raccontare la propria verità, a guardare negli occhi le parti civili. In compenso, queste avevano accanto una squadra di avvocati, molti dei quali andavano tutt'al più alle elementari al momento della strage. Hanno affrontato un processo-monstre ammessi al gratuito patrocinio, raccogliendo idealmente il testimone delle persone che erano in piazza della Loggia quella mattina, perché credevano che la democrazia va difesa ogni giorno, con gesti insieme simbolici e concreti. 
 
(15 novembre 2010)


Unione sarda del 15\11\2010 

Fiumicino, la strage dimenticata

Mario Muggianu fu ostaggio dei fedayyn per 48 ore

Lunedì 15 novembre 2010
   
di GIUSEPPE DEIANA
Mario Muggianu oggi
Un inferno senza colpevoli. Trentadue morti dimenticati per “interessi superiori”, quelli di un patto non scritto che tentò di rendere l'Italia neutrale nel panorama degli intrighi terroristici internazionali degli anni Settanta e che forse si porta sulla coscienza anche le vittime della strage di Bologna. Solo una piccola iscrizione ricorda un momento cruciale della storia italiana più recente: poche parole in memoria del militare della Guardia di finanza Antonio Zara, ucciso a sangue freddo sulla pista di Fiumicino il 17 dicembre del 1973. Dimenticati, invece, i trenta passeggeri del volo Pan Am, uccisi dalle bombe al fosforo lanciate da cinque fedayyn e Domenico Ippoliti, tecnico addetto al controllo aereo, trucidato dopo una snervante roulette russa sulla pista di Atene, 24 ore più tardi delle altre vittime.
IL LIBRO Ma c'è anche chi quelle drammatiche 48 ore oggi le ricorda, così come chi ha deciso di dedicare tempo e inchiostro alla ricerca della verità. Salvatore Lordi, giornalista di Rds, e Annalisa Giuseppetti, free lance esperta di terrorismo e sicurezza, hanno pensato di riesumare quel momento dimenticato (“ Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre nero ”, edito dalla Rubettino, sarà presentato a Roma giovedì, alla libreria Enoarcano, in via delle Paste, 106), quelle drammatiche ore che inchiodarono l'Italia a radio e tv, raccogliendo le testimonianze di chi quei momenti li visse in prima persona e oggi li racconta non senza porsi interrogativi. Primo fra tutti: perché quella strage non ha un colpevole?
IL PROTAGONISTA Mario Muggianu, alle 13,45 del 17 dicembre 1973 stava per concludere il suo turno, 8-14, ai varchi della dogana di Fiumicino. Una giornata normale, anche se particolarmente affollata, per quella giovane guardia di Polizia, allora poco più che diciannovenne, partita da Dorgali neanche due anni prima (gennaio 1972) per intraprendere la carriera tra gli agenti di pubblica sicurezza. In paese lo conoscevano tutti, aveva fatto il muratore per qualche anno, secondo di tre figli, per poi emigrare. Destinazione Trieste, corso per agenti, e poi Roma, alla polizia di frontiera. Quella mattina di dicembre, un pulmino uscì dalla caserma della Magliana per raggiungere Fiumicino e dare il cambio turno, alle 8 in punto, ai colleghi che smontavano dalla notte. 



Muggianu all'epoca dei fatti

IL PROCESSO Contemporaneamente, nell'aula del Tribunale di Roma, si apriva il processo a tre appartenenti di Settembre nero, gruppo terroristico palestinese, detenuti nel carcere di Viterbo, arrestati nel gennaio del 1973, in occasione della visita in Vaticano di Golda Meir, primo ministro israeliano. A Ostia, forse su segnalazione del Mossad, vennero fermati cinque palestinesi, trovati in possesso di alcuni missili Strela di fabbricazione sovietica, che dovevano servire per tirare giù l'aereo, sui cieli di Roma, sul quale viaggiava la donna che allora ricopriva l'incarico di premier d'Israele. Due furono scarcerati, mentre tre andarono a processo, concluso con una condanna nel febbraio 1974, prima del pagamento di una cauzione da venti milioni a testa da parte dei servizi segreti e la sparizione in Libia dei terroristi appena un mese dopo.
L'ATTENTATO Proprio mentre Mario Muggianu e i suoi colleghi iniziavano il turno di guardia a Fiumicino, un commando di fedayyn si imbarcava dall'aeroporto madrileno di Barajas, in Spagna, alla volta di Roma. Nelle loro valigie, un vero arsenale. Facile far entrare le armi nelle stive dell'aereo: «In Spagna non si facevano controlli», racconta Mario Muggianu, 57 anni, residente a Cagliari, sposato con due figli, pensionato con l'hobby della campagna. I terroristi, sbarcati a Fiumicino, si confusero tra la folla, una volta recuperati i bagagli, per poi avvicinarsi ai varchi. «Ricordo che quella mattina c'era una folla immensa, tantissima gente, forse perché si avvicinavano le vacanze natalizie, c'erano quattro porte aperte e per ognuna due di noi che prestavano servizio». Tutto scorreva liscio nella mattinata di Mario Muggianu. Ebbe anche il tempo, intorno alle 12,45, di pensare a quei 75 minuti che lo dividevano dal pranzo. Ma fu un pensiero rapido, così come fulminea fu l'azione dei terroristi, «almeno cinque»: arrivati vicino ai poliziotti, aprirono le valigie, puntarono le armi contro gli agenti e iniziarono a sparare in aria e verso le vetrate, lanciando bombe a mano Srcm a basso potenziale. «Non ci furono feriti tra i civili, in quella fase, ma un mio collega che era in coda alla fila, Ciro Strino, tentò di estrarre la pistola: venne colpito da una raffica di mitra e un colpo gli trafisse il polmone».
GLI AEREI Il commando, carico di adrenalina, scese giù verso la pista, tentò di salire su un primo aereo, poi si diresse su altri due in pista. Due terroristi si infilarono su un Boeing della Pan Am già in procinto di decollare e lanciarono due bombe al fosforo: fu una strage. Alla fine i morti furono trenta. Il resto del commando, con gli agenti presi in ostaggio, arrivò invece su un aereo della Lufthansa. Un finanziere in servizio sulla pista, Antonio Zara, da dietro un carrello per il trasporto dei bagagli cercò di mirare sui terroristi, ma la sua pistola si inceppò. Venne catturato: gli ripiegarono il cappotto sulle braccia, a metà schiena, immobilizzandolo e portandolo con loro. «Gli serviva un morto, in quella fase, e Zara fu il prescelto», ricorda Muggianu. Mentre salivano sulla scaletta, a Zara fu fatto cenno di tornare indietro. Pochi passi e venne falciato da una raffica di mitra. «Avevano gli Stern, bombe a mano e pistole». Al comandante, un pilota olandese, venne intimato di partire, dopo un rapido controllo dell'aereo, con la collaborazione di Domenico Ippoliti, anche lui preso in ostaggio. Il grosso velivolo decollò con i portelloni ancora aperti.
IL VIAGGIO «Non sapevano dove andare. La mia impressione è che non avessero alcuna meta anche se forse il loro scopo era quello di piombare a Ginevra e far atterrare il terrore sulla conferenza di pace che si apriva in quei giorni in Svizzera». Il volo sorvolò Nicosia (Cipro), poi fece rotta su Atene, dove si aprì una drammatica trattativa con le autorità greche. Fu qui che i terroristi inaugurarono la strategia della roulette russa. «Ero ammanettato con uno stewart, ci portavano a due a due sulle scalette dell'aereo e poi sparavano a pochi metri dalla nostra testa. Poi ci riportavano indietro. Ci contammo, per vedere se c'eravamo tutti. Ippoliti non tornò». Colpito a morte sulla scaletta dell'aereo e gettato in pista. «Comunicavamo con il pilota attraverso una hostess particolarmente sveglia: ci disse che l'aereo, mentre ripartiva, era passato sopra il povero corpo di Ippoliti».
MEDIO ORIENTE Ripreso il volo, la nuova destinazione fu Damasco, ma il governo libanese mostrò di non gradire gli ospiti. «Misero i camion militari lungo la pista per non farci atterrare», ricorda l'ex agente di Polizia, «solo la bravura del pilota ci salvò: riuscì a fermare l'aereo fuori dalla pista, sulla sabbia del deserto. Fecero arrivare un'ambulanza per curare uno dei terroristi, ferito alla testa», ma anche qui la solidarietà araba non funzionò nei confronti dei terroristi. «Nessuno li volle riconoscere, nonostante i tentativi di accreditarsi con le autorità, e forse per questo decisero di arrivare in Kuwait, dove evidentemente riuscirono a ottenere garanzie per un salvacondotto o qualcosa di simile». Nella città sul Golfo Persico, dopo oltre due giorni di voli tra Europa e Medio Oriente, trattative, morti e minacce, i terroristi si arresero. E lo fecero in modo inaspettato. «Decisero di abbandonare le armi senza quasi una trattativa. Misero pistole e mitra da una parte e mi chiesero di perquisirli. Vollero le nostre divise. Scesi tra i primi. La polizia kuwaitiana ci prese in consegna e ci fu anche un po' di maretta, perché mi trovarono addosso le manette che uno dei terroristi mi aveva restituito».
IL RITORNO Muggianu fu il primo a parlare con il presidente del Consiglio Mariano Rumor. Il messaggio fu chiaro: tutto è finito bene, ora bocche cucite e attenzione a parlare con i giornalisti. Stesso discorso venne fatto all'arrivo in Italia dalle autorità (tra cui anche il capo della Polizia, sardo di Talana, Efisio Zanda Loi) che salirono sull'aereo prima dello sbarco a Fiumicino. I terroristi furono presi in carico dalla polizia del Kuwait, che rispose picche alla richiesta di estradizione avanzata qualche mese più tardi dal Governo italiano. «Seppi che due morirono durante un tentativo di evasione dal carcere, gli altri in azioni terroristiche in Giordania», dice con rassegnazione Mario Muggianu, «al nostro rientro, fummo rinchiusi nell'accademia di Polizia di Roma, in via Guido Reni, il magistrato ci chiese alcune relazioni. Non vedevamo l'ora di riabbracciare i nostri cari: tra l'altro, la mia famiglia visse brutti momenti, visto che un quotidiano sardo ( La Nuova Sardegna , ndr) scrisse in prima pagina che il morto di Atene ero io e non Ippoliti. Fortunatamente la notizia venne smentita di lì a poco da un ufficiale mandato a casa, a Dorgali, dalla Questura di Nuoro. Non ci permisero di partecipare ai funerali delle vittime. E ci fu impedito di incontrare i familiari, di andare a trovare la madre di Zara. Eppure su tutta la vicenda non fummo mai interrogati e solo dopo diversi giorni riuscii a rientrare nell'Isola».
IL PROCESSO Mario Muggianu, subito dopo, venne trasferito a Cagliari, in Questura, e non riprese servizio a Roma, dove rientrò solo per prendere parte ai processi. «Ci fu un procedimento civile, uno penale, uno amministrativo e uno della magistratura militare», racconta, «solo quello civile si concluse e lo seppi dal giornale. Degli altri non si seppe più nulla». «Questo è il mio cruccio, che mi porto appresso da trenta e passa anni. Non ci sono colpevoli: perché la Giustizia non ha fatto il suo corso? I terroristi vennero liberati e l'Italia non calcò certo la mano. Forse ci furono quelli che si chiamano “interessi superiori”», è la triste conclusione di Mario Muggianu. «Ho metabolizzato quell'esperienza, mi è servita in seguito per affrontare tante situazioni difficili. A Fiumicino piovevano proiettili e io non lo posso dimenticare». La Giustizia, invece, lo ha rimosso. Perché?
IL PATTO Forse perché in quel periodo, a Il Cairo, in Egitto, un incontro diplomatico pose le basi della strategia Moro, allora ministro degli Esteri: un patto di non belligeranza con i terroristi palestinesi. «Voi non fate attentati contro l'Italia e gli italiani, e noi vi lasciamo fare gli affari vostri sul territorio italiano, controllati a vista dai servizi segreti».

Una strategia che ha funzionato per anni, ma che potrebbe essere costata la vita a tanti innocenti, per esempio gli 85 morti della strage di Bologna. Francesco Cossiga, in un'intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera , disse che quella strage fu un incidente causato da “amici” palestinesi che “manovravano” in Italia. Se c'è una verità che lega Fiumicino a Bologna, è ancora tutta da scrivere.

14.11.10

Il pony guida la ragazza non vedente.




Mona Ramouni è una studentessa musulmana di 28 anni che vive nel Michigan, Stati Uniti. Non vedente dalla nascita, la ragazza fino ad oggi non ha potuto usufruire dell'aiuto di un cane guida perché la religione dei genitori proibisce loro di far entrare un cane - considerato un animale sporco - in casa.


Grazie a un articolo trovato su internet Mona scopre però il mondo dei pony guida, cavalli dalle piccole dimensioni che accompagnano i non vedenti.
Così da alcune settimane la ragazza va a scuola e torna a casa autonomamente, come si vede in queste immagini, accompagnata da un pony di nome Cali.

13.11.10

la vera amicizia è fatta di soorprese e di timidezza \paure -- sfogo

N.b
Per i motivi della iniqua  e malfatta   legge  suilla privacy apppicabile    e con grandi sanzioni per le fesserie \ cose di piccolo conto   e non punibile  o con pene ridicole    per  le  grandi volazioni    ,  e per la mia esperienza  avuta  con essa , il  nome della persona   è di fantasia   cosi pure  i  fatti veri   sono stati leggermente  modificati \  romanzati -  per evitare   problemi d sorta  con tale legge e per rispetto  verso , anche se non c'è niente di vergognoso  ed intimo  .

Finalmente  Antonella  mi ha restituito  la  mia  digitale  . Ma c'è  una  sorpresa, che mi ha  lasciato sbigottito  e meravigliato  per  un brevissimo attimo  ,  non era   il mio modello  cioè la 

DMC F-3


Ma  un altro tipo DMC F-10 , sempre  con lo stesso numero di mega pixel   .


DMC F-10



Appena fatta  la scoperta anzichè telefonargli  oltre   a meravigliarmi, ho iniziato ( era da tempo che non lo facevo )   ad elucubrare  e  chiedermi :  che  caspita  sarà successo  o l'ha rotta ,  come poi è avvenuto e  non ha  trovato  nè il modello uguale  nè  il coraggio di dirmelo  subito con un sms  o una telefonata, ho  telefonato ad Antonella che mi aveva lasciato la  digitale in negozio   dentro la stessa scatola   del modello precedente, credendo che ci fosse un errore . Ma non c'era  un errore , me lo aveva scritto in  un biglietto che ho  trovato dopo la telefonata,  evidentemente nella fretta    di riavere la mia digitale  e fare  foto  \  video   visto  che  in questi giorni c'era la sagra delle  castagne e vio novello e non solo, oltre  un concerto d'amici .
Mi sarei dovuto incacchiare  ma : la macchina  digitale  da lei  sostituita   è migliore  di quella precedente    in quando  ha   nuove   caratteristiche tecniche  come  il lo zoom  sul macro  .Ora essendo  in confidenza in quanto facciamo  insieme  capita   , turni  o banchetti  per la bottega del commercio equo e solidale   , di cui siamo  entrambi da  5\7 anni volontari, ho lasciato perdere, e  ho messo  da parte  ogni critica e ogni rimprovero  per non avere  avuto il coraggio di  dirmelo subito , e lo  ringraziata  senza  fargli domande   sul perché  e  come  l'ha rotta  o  se    gli  ho chiesto o me l'ha detto lei non me  l'ho ricordo  talmente  è passato  in secondo piano  visto  la  sorpresa  .Appena fatta  la scoperta anziché telefonargli  oltre   a meravigliarmi, ho iniziato ( era da tempo che non lo facevo )   ad elucubrare  e  chiedermi :  che  caspita  sarà successo  o l'ha rotta ,  come poi è avvenuto e  non ha  trovato  nè il modello uguale  nè  il coraggio di dirmelo  subito con un sms  o una telefonata, ho  telefonato ad Antonella che mi aveva lasciato la  digitale in negozio   dentro la stessa scatola   del modello precedente, credendo che ci fosse un errore . Ma non c'era  un errore , me lo aveva scritto in  un biglietto che ho  trovato dopo la telefonata,  evidentemente nella fretta    di riavere la mia digitale  e fare  foto  \  video   visto  che  in questi giorni c'era la sagra delle  castagne e vio novello e non solo, oltre  un concerto d'amici .
Mi sarei dovuto incacchiare  ma : la macchina  digitale  da lei  sostituita   è migliore  di quella precedente    in quando  ha   nuove   caratteristiche tecniche  come  il lo zoom  sul macro  .Ora essendo  in confidenza in quanto facciamo  insieme  capita   , turni  o banchetti  per la bottega del commercio equo e solidale   , di cui siamo  entrambi da  5\7 anni volontari, ho lasciato perdere, e  ho messo  da parte  ogni critica e ogni rimprovero  per non avere  avuto il coraggio di  dirmelo subito , e lo  ringraziata  senza  fargli domande   sul perché  e  come  l'ha rotta  o  se    gli  ho chiesto o me l'ha detto lei non me  l'ho ricordo  talmente  è passato  in secondo piano  visto  la  sorpresa  .
Ecco finalmente   le prime foto  fatte con il nuovo  modello    (  le  altre  le trovate  prossimamente  sul mio flicker ), idem per  i video  di cui due già online gli altri prossoimamente  uno dei quali riportato in qualche post precedente   )  fatte  con la mia  nuova  compagna  di viaggio solitaria   visto che gli amici di  greffa  non sempre  sono  presenti o vaghi (  lavoro , genitori , fmiglie ,  cazzi loro , paura  se   hai litigato con uno compagnia  di svincolarsi dal ricatto che esso fà  o me  o lui  ) .Lo so che è triste  dirlo , ma  in base  alla ma dolorosa  esperienza  fatta , gli unici amici compagni di viaggio che non tradiscono   e ti dicono la verità   quando gli  tratti male   sono  gli oggetti   che ti porti dietro   per hobby o per  lavoro  .
Ecco quali 
Un borsello multi contenitore e multi oggetti  nei tuoi viaggi  lunghi e corti o nelle semplici  camminate \ passeggiate  semplici  sia  per  per mettere in atto mens   sana in corpore sano  o problemi di salute     distrazioni \   pensieri alternativi allo sfogo  sul  cibo (  vedere  mio post  passeggiata  autunnale) visto   che  per problemi di salute le  escursioni   su rocce  o  terreni troppo scoscesi e le mulattiere    che facevo un tempo con il gruppo escursionistico sono  peri mie problemi   diventate troppo proibitive   passeggiate

Ma  puoi tenerci anche  gli altri compagni di viaggio  ed  oggetti   che usi  quotidianamente  o quasi   il baite , le chiavi di casa  , carta  d'identità  e libretto universitario.,portafoglio , portamonete   ,.  Ed alcuni compagni di viaggio  come : la digitale con custodia e batteria di riserva  , la moleschina (   foto sotto al centro )




che non ti tradisce  o bidona come spesso fanno le persone  oltre a custodire le tue  verità  ., il cellulare   con cui scatti foto  o e le metti su facebook o  in rete   o ci scrivi  sms  e  tuo stato da mettere  online  ed una chiavetta  Usb da  8 giga in cui  puoi metterci come nelle molescina   tutti i tuoi pensieri    o  elucubrazioni mentali 


 
   e averle sempre  a porta  di mano  ,  e utilizzarle  anche  in pc   che non  sono i tuoi   o darle  eventualmente  alle persone care .


olo quaswi

storie di chi potrebbe essere curato , ma la cura viene boicottata , con la CCSVi

In attesa   delle  risposte  alle domande\intervista  a  uno dei relatori   la mia compagna di viaggio  Stefania  Calledda  ( gfià intervista  qui   su questo blog   per la sua attività  di scrittrice )  per  buttare giù un post   che  non sia  la  semplice  segnalazione    del convegno  sulla CCSVI   trovate  a fine  post   dei link in merito*
che si terrà a tempio pausania   a fine mese   (  sopra in alto  )  Riporto la storia   di  http://leucosia.blog.kataweb.it/info/.                                                                                         La sua  storia  come dimostra sia questo articolo  e  l'altro che riporto interamentre  sotto   tratto  dal blog  donnepensanti  è fatta  di sofferenza  ma  anche di speranza  di  una malata  di Scla  che nonostante le sofferenze  di tale  malattia   non ha  voluto   rinunciare  ad essere mamma . Cosa   cosa in paese ipocrita  e sempre  più menolaico e sempre più filo vaticano   come il nostro,  è  diventata sempre più proibitiva  specie per  chi  soffre  di malattie molte dele quali sono ereditarie   e  gli viene  negato il diritto a curarsi con le staminali (  vedere  il blocco  degli studi  sulle staminali che ancora persiste  nonostante i giudici abbiano più volte dichiarato certi articoli incostituzionali ,di una  legge  su cui  il popolo italiano  non si è potuto esprimere  totalmente  al referdum  perchè le  gerarchie eclessiastiche  e   i loro lachè , ovviamente senza generalizzare  perchè ci soo  e  l'esperienza  avuta   durante  la  " ma bataglisa  "  referendaria   " me lo ha  confermato  ,  lo hanno impedito   con una politica  massiccia   e sleale    di boicottaggio della  volonta popolare   )  o con metodi alternativi come  quello  del CCsvi che cercano di scoraggiare .

La storia  è questa


“Diversità come stimolo e valore” – Intervista a Simona Coppola  Silvia Cavalieri   17 settembre 2010 Posted in: Interviste, Narr-azioni, News

L’altra sera, durante un incontro che abbiamo fatto con le altre socie fondatrici per riprendere immediatamente i fili del nostro progetto al ritorno dalle ferie, è stato citato anche L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, uno dei miei romanzi preferiti.
Per me L’arte della gioia è la storia di una donna che sa ascoltare la sua voce più profonda, al di là delle proiezioni imposte dalla società per cui tante volte ci ritroviamo ingabbiate dentro a modi di fare, di vivere, addirittura di essere, preconfezionati, che spesso nemmeno ci accorgiamo che non ci appartengono, una donna che sa lottare per realizzarsi nella sua autenticità più profonda, che sa pagare il prezzo di questa sua volontà indomabile e assaporare la ricchezza di una vita che, soltanto grazie a questo scarto, mai gratuito, delle convenzioni, si è fatta vita piena e degna di questo nome.
La vita di Simona è completamente diversa da quella di Modesta, la protagonista del romanzo, ma in lei ho avvertito la stessa persuasione e la stessa energia, quella consapevolezza assodata che ognuno è pioniere della propria esistenza e che i modelli, quando esistono, hanno un valore puramente orientativo, perché nessuno è un duplicato e chi lo diventa non sta veramente vivendo.
Simona ci ha contattate per raccontarci la sua storia e, in particolare, quella parte della sua storia in cui ha dovuto investire tutta la sua forza e in cui si è sentita più sola, senza punti di riferimento: la sua scelta di diventare madre nonostante sia affetta da sclerosi multipla.

La tua storia, Simona, ci ha colpito proprio per la determinazione che hai dimostrato nel percorrere una strada poco battuta, andando contro i pregiudizi e adoperandoti con tutta la forza di volontà perché il tuo desiderio di diventare madre si avverasse, consapevole che non si trattava di un capriccio, né di una scelta egoista, come qualcuno ha provato a farti credere, ma del modo più autentico per avvicinarti a quello che sei veramente. Quali sono gli ostacoli più grandi che hai incontrato in questo tuo percorso verso la maternità e quali, invece, gli elementi determinanti nel non farti mollare?

    Tra i principali ostacoli metto senz’ombra di dubbio la totale mancanza di empatia da parte del neurologo che a suo tempo mi seguiva; mentre la vicinanza dei miei genitori, soprattutto quella di mia madre – una presenza costante sia fisica che morale – è stato l’apporto fondamentale durante tutta la mia gravidanza.

Nel tuo blog, Leucosia, scrivi che all’inizio, quando sei rimasta incinta, hai cercato in rete esperienze simili alla tua ma non hai trovato praticamente nulla e questo ti ha fatto sentire molto sola. Il tuo blog nasce anche dalla necessità di cominciare a colmare questa lacuna? Di cosa parli soprattutto nei tuoi post? Come immagini il tuo lettore o la tua lettrice-tipo?

    Leucosia in realtà è nato cinque anni fa, quindi molto tempo prima che scoprissi di essere incinta. Ed è un blog a metà strada tra il diario on line ed un taccuino sul quale annotare i fatti quotidiani, legati non solo alla malattia, ma anche alle mie tante passioni come ad esempio l’archeologia e lo scrivere racconti. E siccome nel blog racconto di me, è stato naturale raccontare soprattutto della mia maternità, in modo da viverla anche attraverso le parole, nella speranza che queste raggiungessero più persone possibili, magari donne che con la mia stessa patologia abbiano in futuro intenzione di diventare madri. Ed in fin dei conti, quando scrivo, immagino proprio loro dall’altra parte del monitor…

So che hai un altro progetto mirato alla creazione di una comunità virtuale di mamme malate di sclerosi multipla, un progetto che, scrivi, “ruota per forza di cose intorno a una versione “altra”, non stereotipata della maternità”. Ce ne vuoi parlare?

    Certamente! Si tratta di un gruppo sul social net di Facebook, che conta circa un centinaio di membri, il cui scopo è quello di dare e ricevere consigli sulla maternità in generale ed in particolare su come affrontare e risolvere serenamente i numerosi interrogativi sul decorso della malattia o sui farmaci da assumere, senza dimenticare di curare il lato emotivo del rapporto genitori-figli-famiglia.

Quali sono i consigli che daresti a chi decide di fare una scelta come la tua?

    Innanzitutto farsi seguire passo dopo passo dall’equipe medica, creando un solido dialogo tra ginecologo e neurologo; in secondo luogo, organizzare e gestire gli spazi della vita domestica, tenendo conto della possibilità di avere bisogno in futuro di una mano esterna al nucleo familiare, per superare le possibili ricadute da post partum.

Che cosa soprattutto credi che la gente, di solito, non capisca davanti alla decisione di fare un bambino, pur essendo diversamente abili?

    Spesso, di fronte a donne che, come me, sono portatrici di una disabilità più o meno accentuata, le persone cadono nel pregiudizio, ritenendole simili ad alberi senza frutto , incapaci quindi di metter su famiglia. Invece noi diversamente abili abbiamo gli stessi desideri ed ambizioni delle persone normodotate, per raggiungere i quali dobbiamo scavalcare ostacoli di dimensioni maggiori, a partire dai luoghi comuni che tristemente ci ingabbiano in uno squallido stereotipo.

Parliamo ora più specificamente della tua malattia, la sclerosi multipla, di cui molti sanno poco e niente. Studi recenti, condotti dall’équipe del professor Paolo Zamboni, dell’Università di Ferrara, stanno producendo risultati decisamente rincuoranti per molti malati: stanno sperimentando un’operazione per l’insufficienza venosa cronica cerebro-spinale (CCSVI), una patologia che si è dimostrato essere, in moltissimi casi, strettamente connessa alla SM. Ci puoi raccontare di cosa si tratta e che cosa significhi per te e per i malati di SM questa nuova possibilità?

    Circa dieci anni fa il prof. Zamboni, avendo la moglie colpita da sclerosi multipla, avviò un’intensa attività di ricerca, riscontrando nei pazienti affetti da sm accumuli di ferro anomali nelle vene che conducono il sangue al cervello. Usando un doppler ad ultrasuoni ha poi scoperto che i depositi di ferro che scatenano le tipiche infiammazioni della malattia sono la conseguenza di un restringimento delle vene stesse, malformazioni che non consentono al sangue di fluire normalmente all’interno del cervello. Tale disordine da lui scoperto è stato denominato CCSVI, ovvero Insufficienza Venosa Cronica Cerebrospinale. Subito dopo si è scoperto che alla gravità dei blocchi delle vene in questione corrispondeva la gravità dei sintomi del paziente. I pazienti con una sola vena bloccata di solito hanno forme più lievi della malattia, mentre quelli con due o più vene danneggiate presentano una malattia più grave. Zamboni ha individuato blocchi non soltanto nelle vene del collo che si trovano direttamente sotto il cervello – le vene giugulari – ma anche in una vena centrale di drenaggio, la vena azygos. E semplicemente grazie ad un intervento di angioplastica, dilatando cioè le vene del collo interessate dalle stenosi, è stato possibile riscontrare nei pazienti operati un evidente miglioramento della loro qualità di vita, associata ad una notevole riduzione delle cosiddette poussé, le ricadute della sm, gli attacchi della malattia.

In Italia però non è ancora possibile, per tutti, operarsi. In particolare, è di qualche settimana fa la notizia che, nella tua regione, la Campania, un comitato etico si è opposto alla possibilità di sperimentare questa operazione. Come hai reagito davanti a questa notizia e cosa vorresti dire a chi infrappone questo ulteriore ostacolo tra te e la possibilità di “liberarti” del tuo male?

    Sinceramente sono rimasta molto delusa ed amareggiata dall’ostruzionismo e dallo scetticismo che sinora ha manifestato la classe medica nei confronti della scoperta di Zamboni e a dire il vero, la tentazione di andare all’estero per poter essere operata è molto forte. A coloro che attualmente non consentono a me e a tanti altri malati italiani di accedere alle cure appropriate al nostro male, chiedo soltanto di avere un briciolo di cuore e di correttezza professionale, rammentando loro il giuramento di Ippocrate, e di riconsiderate le loro scelte in merito.

Veniamo a un’altra passione: l’archeologia. Ti sei laureata con una tesi sui percorsi archeologici per diversamente abili e collabori con una rivista di turismo che si chiama Diversamente agibile. Come ti sei avvicinata all’archeologia?

    L’archeologia mi ha appassionata sin da piccola, ed è stata una passione scatenata ed assecondata grazie anche al luogo in cui sono nata – Napoli, città dalle millenarie stratificazioni. E’ stato quindi più che naturale per me intraprendere questo genere di percorso dapprima di studi, e poi lavorativo.

Qual è la situazione, mediamente, in Italia, per i diversamente abili che vogliano visitare monumenti e luoghi d’interesse artistico?

    Sebbene musei ed aree archeologiche si stiano dotando di percorsi ed esposizioni che rispettino gli standard museali universalmente noti ed accettati, siamo ancora abbastanza lontani dal raggiungimento di un adeguato livello di fruibilità consono ad un pubblico disabile nel nostro Paese.

Un’ultima domanda. Come sei venuta a conoscenza del nostro gruppo e in cosa, in particolare, ti riconosci all’interno di questa nostra iniziativa?

    Navigando in rete sono capitata per puro caso sul sito di “Donne Pensanti”, spulciando tra i link del blog di Panzallaria. Leggendo dell’iniziativa intrapresa sull’abuso del corpo femminile nei media italiani ed i vari articoli scritti su personalità autentiche del mondo femminile, ne sono rimasta colpita al punto tale da voler partecipare in maniera tangibile al vostro gruppo, innanzitutto raccontando la mia testimonianza di donna e di madre, contribuendo nella volontà di creare una nuova visione della nostra società, una società in cui l’essere diversi sia per tutti uno stimolo ed un valore.



*
  Grazie per i link al grppo di  facebook  Ccsvi   nella  sclerosi  multipla

 

12.11.10

il figlio di bakunin film ( ma anxche romanzo ) per non dimenticare chi siamo , chcom'eravamo , e dovew andiamo

L'identità come un dono da scambiare

 

 
Unione sarda del 12 novembre 2010
I l primo cartello nei titoli di coda de Il figlio di Bakunìn è dedicato a Sergio Atzeni, il mio amico caro della giovinezza, ritrovato da adulto e troppo presto perduto. Sergio aspirara a essere un cantore che racconta storie, un “custode del tempo”. Un aspetto che ci univa, rispetto alla Sardegna, era l'importanza del salvare la memoria, del raccontro tramandato, il valore della testimonianza, l'epica delle storie, l'idea dell'identità come un dono da scambiare col mondo. Tullio Saba, minatore, cantante, sindacalista, che attraversa il Novecento (dagli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta) è un personaggio inventato ma radicato nella storia di una Sardegna che è riflesso di un mondo, che si modernizza dolorosamente. La storia di Tullio Saba è ricostruita da un mosaico di testimonianze che sfumano nelle opinioni, nelle credenze, con un meccanismo tipico della tradizione orale e della leggenda popolare. Il personaggio di Tullio Saba è però un personaggio moderno con un forte contatto con il nostro tempo proprio per un certo randagismo dell'anima, per una tensione naturale e non ideologica, verso la libertà. E della leggenda della libertà - vale a dire dei modi in cui la libertà è tramandata, sognata, raffigurata da un popolo - il film ne racconta l'essenza contraddittoria. E' una Sardegna poco conosciuta, che avevo il desiderio di raccontare, un passato prossimo importante di una Sardegna “mineraria e industriale” e così rendere giustizia a un mondo raramente raccontato al cinema. Non il ritratto intimista inserito in un paesaggio "esotico" ma un'epopea popolare. Ho cercato di fare un film corale: gli spazi geografici e passaggi storici, personaggi disparati e diversi si riflettono nella figura del protagonista, che ha l'alone tipico dell'eroe popolare. In questo credo, intimamente fedele al progetto del libro, cioè all'idea di far parlare oggi un coro di persone, che ricordano una storia possibile che c'è stata, che non vuol essere dimenticata e che lega tutte queste vite che per un attimo possiedono questo frammento di verità. Ho cercato ne Il figlio di Bakunìn un linguaggio popolare, non concettuale, usando attori di diversa provenienza, professionisti, dialettali, dilettanti fino ai visi di gente che ha vissuto in prima persona fatti simili a quelli narrati nel film. Sono attratto dal cinema popolare, un cinema che contemporaneamente abbracci molte istanze e sia in grado di parlare ed emozionare persone diverse. Così Il figlio di Bakunìn è un film molto stratificato dove qualunque destinatario può trovarci qualcosa: la poesia, l'oralità, la narrazione, l'epica, la Storia con la S maiuscola e le tanti possibili storie.
GIANFRANCO CABIDDU

 

 

 

 

L'epopea sarda tra memoria e mito

“Il figlio di Bakunìn” di Cabiddu, un affresco di 50 anni di storia


Con l'unione sarda   Secondo film di Gianfranco Cabiddu “Il figlio di Bakunìn”
alcune immagini del film e il regista   foto tratta dall'unione sarda del 12\11\2010
   
IL  1997 è l'anno di svolta del cinema sardo. Esce Il figlio di Bakunìn di Gianfranco Cabiddu, film spartiacque, operazione che rivoluziona lo sguardo sull'immaginario isolano, coraggiosa sperimentazione sulla storia e sulla memoria con un occhio proiettato al futuro. Cabiddu dà un colpo di spugna alla produzione a senso unico che aveva marchiato fino a quel momento la Sardegna (filone deleddiano, banditesco, più le varianti agropastorali) e disegna una epopea sarda col respiro di mezzo secolo di Storia, dagli anni Trenta agli anni Ottanta.
PRODUCE TORNATORE Un film spettacolare. Non è un caso che il produttore, qui all'esordio, sia Giuseppe Tornatore che con Cabiddu ha condiviso la gavetta cinematografica. Già premio Oscar con Nuovo Cinema Paradiso , anche Tornatore fu colpito dal libro di Sergio Atzeni, da cui la pellicola è tratta, e assecondò il regista sardo - nei limiti di un budget molto contenuto, due miliardi di lire - perché si potessero usare carrelli e dolly (si vedano i due bellissimi piani sequenza che aprono e chiudono il film) per dargli il respiro del grande cinema popolare.
RADICI E IDENTITÀ Al di là di una sensazione a fior di pelle Il figlio di Bakunìn (il dvd da domani in edicola con L'Unione Sarda a 8,80 euro più il prezzo del quotidiano) scava in profondità, mette lo spettatore sardo di fronte alle proprie radici, lo chiama ad un confronto continuo; inconsciamente si trascina l'ambiguità di una rappresentazione che ci rappresenta: siamo un popolo che non ha memoria cinematografica perché senza una tradizione di cinema e ritrovare sullo schermo luoghi che abitiamo e che ben conosciamo (schegge di Cagliari, Carbonia, Villamassargia, la selvaggia e disadorna bellezza dei complessi minerari del Sulcis), avere di fronte attori che provengono per la maggior parte dalle tavole dei palcoscenici sardi, mette subito in gioco l'antico discorso sulla riconoscibilità, sulla credibilità.
UOMO E NATURA Come dire, ogni spettatore sardo col suo carico di archetipi e pregiudizi, si sente proiettato sullo schermo, riflesso condizionato di una tradizione, con la paura di doversi svelare: quelli siamo noi, c'è un pezzo della nostra storia. Terreno infido e scivoloso ma da questo punto di vista l'opera seconda di Gianfranco Cabiddu funziona perfettamente, la storia calata in un mare di sarditudine ha tracce vere di una cultura emarginata che è fortemente legata alla terra, che coglie l'essenza del rapporto conflittuale tra l'uomo e la natura che sarà sempre una chiave di volta per un cinema sardo (come dimostreranno poi i film di Mereu, Sanna, Columbu).
L'INTUIZIONE DI ATZENI Il figlio di Bakunìn , che esce per la prima volta in Dvd, è anche un racconto sulle tracce dell'identità e su quelle caratteristiche riconoscibili nel Dna di un sardo, cioè testardaggine, orgoglio, fierezza, dignità. Caratteristiche che si riconoscono in Sergio Atzeni: lui che era andato via dalla Sardegna ma aveva sempre conservato un legame inossidabile, non solo nella produzione letteraria, e nell'Isola è drammaticamente tornato per morire inghiottito dal mare, accentuando simbolicamente quell'inestricabile amalgama uomo-natura, che nel suo caso è diventata maledizione del destino.
METAFORA Ad Atzeni si deve l'intuizione di questa superba metafora sulla Sardegna e sulla trasformazione d'una cultura, con il personaggio Tullio Saba che incarna la voglia di nuovo, l'ansiosa ricerca di slegarsi dagli obblighi della tradizione per percorrere le strade della libertà, di un anarchismo pasticcione che è, prima d'un credere politico svogliato, un sentimento interiore di confusione, fuga, desiderio di cambiamento. Portando fedelmente sullo schermo il romanzo, con i dovuti tradimenti però, Cabiddu allarga ancor di più questa intuizione, puntando tutto su una struttura mosaico, l'affastellarsi di decine e decine di testimonianze che vanno a tracciare l'identità sfuggente di Tullio Saba, Zelig di provincia, minatore, sindacalista, politico, donnaiolo, cantante, affarista, traditore, eroe: uno, nessuno, centomila.
TRADIZIONE ORALE Ne esce un Rashomon al quadrato, dove tutti hanno una verità su Tullio ma non esiste una verità assoluta: così ricalcando il modello della tradizione orale (che è il fulcro della cultura sarda) il film dà voce alle voci che si fanno ricordo epico, contos, aneddoto, battuta, trasmissione della memoria tra amnesie, bugie, fatti nascosti, sentimenti d'amore, invidia e ammirazione per quel figlio di un calzolaio benestante dall'istinto rivoluzionario (per questo lo soprannominarono Bakunìn) che perse tutto col fascismo.
RICERCA DI UN PADRE Epica dunque ma anche film-inchiesta: ogni personaggio guarda in macchina (verso noi spettatori) e parla ad un giovane dai capelli lunghi e orecchino, che va di casa in casa per ricostuire vita e gesta di Tullio. Potrebbe essere un giornalista (una intervistata dice: non finirò mica sull'Unione Sarda?) ma è anche questa una finta pista che approda nel sottofinale almeno ad una verità: quel giovane è un figlio illegittimo di Tullio Saba, il film dunque è la lunga ricerca di un padre, con tutto ciò che di traslato c'è dietro.
CULTURA MINERARIA Cos'altro è Bakunìn ? Uno sguardo che abbraccia cinquant'anni di storia fondendo mito, tradizione, realtà ma senza scegliere fra nessuna, è il ricordo di un'epoca fondata sulla manualità certosina soppiantata traumaticamente da una manovalanza schiavizzata dall'industria, come mostra la sequenza delle scarpe dei minatori, prima resistenti quando le faceva il calzolaio, ora di pessima qualità quando le fornisce il governo fascista. Ancora: è una riflessione su una evoluzione culturale, il passaggio dall'agropastorale alla modernità, rappresentata dall'affermarsi del lavoro in miniera. Per la prima volta il cinema di finzione si occupa di quello che è stato - assieme all'emigrazione - il vero romanzo popolare della Sardegna: la cultura mineraria che nel portarsi appresso il vento della modernità (l'energia elettrica era prima arrivata lì, poi a Cagliari) ha sempre mantenuto una specificità sarda. E miniera vuol dire lotte operaie (nel film è ben raccontato, con secchezza didascalica, il rapporto proletari-padrone), e un crogiuolo dove s'era formato un melting pot - pastori diventati minatori, avventurieri ed emigrati che venivano dal continente - che allargava la società monosarda.
ATTORI E FACCE Il figlio di Bakunìn è soprattutto un film di facce, un paesaggio di volti che legati da una stessa inquadratura fanno dondolare il racconto tra passato e presente, smascherando in questo modo il vero personaggio segreto: la memoria. È un panorama di attori sardi (sembra l'assemblea degli Stati generali, ci sono tutti da quelli della “vecchia” Cooperativa a quelli dialettali) fusi con altri continentali più famosi (Renato Carpentieri, Laura Del Sol, Massimo Bonetti, Claudio Botosso, Simona Cavallari), un tentativo di restituire alla Sardegna una coralità, una dimensione collettiva che il cinema - chiudendolo in una tanca - le aveva finora negato.
IL PROTAGONISTA Era molto delicata la scelta del protagonista, di quel Tullio Saba che nelle pagine del libro non compare mai, perché evocato, raccontato, ricordato, menzionato dai tanti testimoni, in un alone fra il mito e il mistero. Cabiddu sceglie di dargli un volto, privilegiando una pista popolare rispetto ad una sofisticata, più d'autore, e affidando allo sguardo profondo di Fausto Siddi il gravoso compito. La figura di Tullio emerge lentamente, quindi occupa la parte centrale del racconto per poi sfilacciarsi di nuovo fra i tanti rivoli narrativi del film.
AMBIENTI Che ha negli ambienti un altro punto di forza: la Sardegna prima e dopo la guerra rivive con attenzione ai dettagli, in particolare il paesaggio minerario, felicemente ricreato sulle strutture fatiscenti di Ingurtosu, Monteponi, Iglesias, Carbonia; e poi Cagliari, sfruttata nei vicoli di Castello per l'ambientazione anni Cinquanta, oppure nel buco di rovine del vecchio cinema Ariston per avere un credibile lampo della città che si risveglia nel 1945 dopo le bombe; così come è efficace la ricostruzione del ventennio nero, dove il potere fa la voce grossa fra i minatori ed è preso in giro nella piccola comunità del paese. La fotografia di Massimo Pau indulge al patinato, togliendo un po' di ruvidezza all'irrequieta epopea sarda, la bellissima musica di Franco Piersanti - raffinata e melodica - fascia il film con insistenza.
CAPOSTIPITE Si diceva prima: taglio popolare, che vuol dire essere in sintonia con le tante tipologie di pubblico, infilando anche scene d'amore e squarci di siparietti da commedia. È così che Il figlio di Bakunìn ha funzionato come iniezione di fiducia, scossa di energia per quel drappello di registi sardi che nel 1997 non esisteva. Il successo del film, il suo coraggio nel saper guardare oltre, ha dato agli altri la consapevolezza che un progetto-cinema sardo poteva nascere. Senza Bakunìn (che al botteghino incassò un miliardo di vecchie lire, cifra che ha sgretolato l'endemico indecisionismo dei produttori verso la Sardegna) oggi non si parlerebbe di onda sarda, suo malgrado Gianfranco Cabiddu è un po' il padre degli ultimi registi sardi arrivati al cinema.

cari pastori oltre a cendere in guerra per migliori condizioni vendete i vostri prodotti ai turisit


i1 Unione  sarda  del 12  novembre 2010
DAL NOSTRO INVIATO
LELLO CARAVANO

FUNTANAZZA (ARBUS) Petro e Carlotta non vanno alla guerra del latte. Non sanno cosa sia. Non ne hanno mai sentito parlare. Non combattono la battaglia dei prezzi che coinvolge migliaia di pastori sardi. Nascono in un mondo di pecore nere, vecchia razza rustica, abituata da decenni a scarpinare sulle colline di Funtanazza, nei pascoli davanti al mare della Costa Verde. Pecore robuste che danno un latte ricco di grassi e proteine, un latte che profuma di macchia mediterranea e forse dell'aria che viene dal Mediterraneo. Petro e Carlotta sono fatti con questo latte. Appartengono a quella categoria di souvenir che i turisti amano portarsi a casa, rientrano nell'elenco dei benemeriti prodotti che tentano nell'impresa di raddrizzare la sgangherata bilancia commerciale dell'Isola dei quattro mori. Sono formaggi. Pecorini, ovviamente. Che viaggiano con il marchio dell'agricoltura senza veleni e con la garanzia del prezzo giusto (per chi li produce). «Il prezzo lo decidiamo noi. È un prezzo che ci ripaga del lavoro», dicono Mauro e Sandro Lampis, fratelli allevatori di 40 e 36 anni, antenati che si sono stabiliti almeno da metà dell'Ottocento in questo angolo di Sardegna che un tempo viveva di miniera e oggi soprattutto di pensioni, pur sognando un futuro turistico. Lo sguardo spazia per chilometri: da una parte lo spettacolare profilo del monte Arcuentu che ricorda un gigante addormentato, dall'altra il mare, a due chilometri la grande colonia marina abbandonata che ha segnato le storie di tanti bambini figli di minatori.
FORMAGGI E COMPUTER Oltre una decina di anni fa è stata presa la decisione della svolta: per sopravvivere i due allevatori hanno detto basta alla guerra del latte. Si sono trasformati in imprenditori-venditori del prodotto che hanno sempre fatto: il formaggio. Hanno aperto le porte della loro azienda, hanno acquistato il primo impianto computerizzato di mungitura per ovini di tutta Italia, un gioiello tecnologico che consente di risparmiare tempo e manodopera. Trafficano su internet (sito:www.funtanazza.it), ricevono le ordinazioni, fanno partire le consegne. Si sono creati il loro mercato. Senza intermediari. Con i clienti, soprattutto turisti, trattano direttamente loro. Unica eccezione: alcuni negozi di Arbus, Guspini e Gonnosfanadiga che nelle vetrine propongono il loro formaggio.
PASCOLI BIOLOGICI Ricetta semplice e coraggiosa allo stesso tempo. Prima di tutto: via i veleni dai 160 ettari dell'azienda Funtanazza, 80 di colture e 80 di macchia mediterranea, ereditati dal nonno Raimondo e dal padre Pietro. Niente concimi chimici, niente diserbanti. Tutto naturale. Per le pecore nere soltanto pascoli odorosi e biologici tra filliree, olivastri e lentischi. «È una scelta che ci costa molto, il 30-40 cento in più dell'allevamento tradizionale. Ma il formaggio è di qualità superiore, perché ha il sapore delle essenze che crescono nelle nostre terre. Piuttosto - aggiunge Mauro - c'è da dire che aspettiamo dal 2008 i contributi di Regione e Stato per il biologico».
Seconda idea vincente: la produzione e la vendita diretta. Il latte resta tutto in azienda. Anni fa il padre conferiva al caseificio di San Gavino e loro per qualche anno a Guspini. Poi hanno fatto due conti e capito che non conveniva: «Inoltre non c'era soddisfazione. Una fatica sprecata, il nostro latte biologico veniva mischiato con gli altri», afferma Sandro. Tutto il latte ora si trasforma in formaggio: Petro e Carlotta, appunto. E non solo. Anche ricotta, con la quale hanno vinto un premio nazionale. Pecorini di qualità: il giudizio, insindacabile, lo danno i clienti, turisti che vanno alla scoperta di questo angolo dell'Isola - da Capo Pecora a Piscinas, da Scivu a Gutturu 'e Flumini fino a Torre dei Corsari - e che fanno una puntata all'azienda che guarda il mare, acquistano, tornano a casa e fanno conoscere una prelibatezza tutta made in Sardinia. Mauro e Sandro il formaggio lo sanno fare: quello fresco (il più venduto, fragranze di erba e essenze mediterranee), quello stagionato con un gusto leggermente piccante. Hanno conquistato anche due gruppi d'acquisto toscani. Uno, in provincia di Pistoia, ordina 50 chilogrammi di formaggio ogni due mesi. Consumatori molto esigenti. Racconta Mauro: «La responsabile del gruppo d'acquisto era in vacanza da queste parti, ha visto un gregge di pecore che pascolava vicino a una strada dove era in corso un intervento con diserbanti. Ci ha chiamato subito, preoccupatissima, per chiederci dove pascolavano le nostre pecore. L'abbiamo rassicurata. Periodicamente vengono qui, vedono che ci sono insetti, sentono le rane, eccellenti indicatori biologici, e capiscono che sui nostri terreni non ci sono veleni. Sanno che il latte viene lavorato a basse temperature, non è pastorizzato, mantiene tutte le proprietà. Poi sono convinto che l'aria del mare gli dia una certa dolcezza».
DUECENTO PECORE NERE Trecentocinquanta pecore (200 nere), 60 mila litri di latte l'anno, 120 quintali di formaggi, l'ottanta per cento finisce nelle valigie dei turisti, il dieci ai gruppi d'acquisto. Mauro e Sandro Lampis rappresentano una nuova generazione di allevatori. Si sentono padroni del latte delle loro pecore nere e padroni del formaggio che preparano con le loro mani. Hanno solide radici nella tradizione. Qui la pecora nera non è l'eccezione, non è l'emarginato del gruppo. L'hanno sempre allevata, da Capo Pecora e Capo Frasca, e oggi è una razza riconosciuta anche dal ministero dell'Agricoltura. Dà un latte più grasso, va su e giù per le colline senza stancarsi: «Qui c'è da camminare, la pecora nera fa anche due chilometri al giorno», dicono gli allevatori-imprenditori. Mostrano con orgoglio l'impianto di mungitura, collegato con il chip elettronico degli animali: «Basta un solo addetto per mungerle tutte, e le pecore si stressano meno».
DIECI FATTORIE DIDATTICHE Sono diventati anche maestri del cibo a scuola. Funtanazza è una delle dieci fattorie didattiche del Medio Campidano. Le aziende partecipano a un innovativo progetto di educazione alimentare, l'unico nell'Isola, promosso dalla Provincia e dallo Sportello del Linas dell'agenzia Laore (prossima tappa: introdurre finalmente nelle mense scolastiche i prodotti tipici del Medio Campidano). «All'inizio eravamo un po' scettici, poi ci siamo entusiasmati a lavorare con i bambini. Vengono in azienda, preparano il formaggio che lasciamo qui a stagionare. Dopo qualche mese lo portiamo in classe, così loro potranno assaggiarlo in casa con i genitori».
L'ovile, non più nuragico, si apre agli studenti e ai turisti. Questa è la novità. Hanno imparato a vendere, se la cavano con inglese e tedesco: «E dire che i turisti vorrebbero portarsi via tanti souvenir, non chiedono altro che riempire le valigie delle bontà agroalimentari della nostra terra. Vogliono formaggio, ma anche miele, vino, mirto, salumi, che noi non abbiamo. Vedono tante capre al pascolo e domandano dove è possibile acquistare formaggi di capra, quasi introvabili». Mauro e Sandro ora vorrebbero rendere più accogliente l'azienda. C'è da sistemare il vecchio caseificio degli anni Venti, in pietra, con le travi in ginepro e il tetto in canne. «È il prossimo obiettivo, ma facciamo un passo alla volta», dicono. Intanto, hanno messo il loro marchio di genuinità su Petro e Carlotta. I pecorini di Funtanazza che non vanno alla guerra del latte.
Prima d'inizare  con la   storia  d'oggi ,  rispondo  a tutti\e  quelli  che  m'accusano   di sottovalutare    ed elogiare   acriticamente  facebook  , riportando ( chi se  ne frega  se  è banale , rozzo , ecc   accuse  che mi vengono rivolte  , ma ne  ripalemo  prossimamente in un prossimo  post  , altrimenti sconfino nell'Ot cioè vado fuori tema  )   uno stralcio di corripondenza   fra me  ed la madre  d uan mia amica \  utente   avuto qualche giorno fa    


Subject:Critica al tuo elogio  di Facebook e grazie per i tuoi interventi sulla  bacheca di mia figlia
Date:     Thu, 7   nov 2010 19:26:12 +0200
From:     *****************
To:     useppes@tiscali.it




Spett Giuseppe
(...)
Sono  una mamma  di una  sua  "amica "  di   facebook ( uso tale  termine fra  virgolette  perchè , in realta  si dovrebbe usare la  parola   contatto ,  visto che in rete l'amicizia rispetto al suo significato originale  è relativa  )  di 14 anni  . Mote volte    condividiamo ed apprezziamo quello che scrive  (  è  di molto  aiuto per  la maturità culturale    e sociale  di mia figlia  )  , ma  non mi piace tanto il tuo modo d'elogiare , quasi ad esaltare  facebook ,  c'è poca  critica   e sottovalutazione del pericolo a cui  noi siamo  o potremo essere   sottoposti  ( pedofilia , minacce , insulti , rilevazioni di segreti , pettegolezzi  , ecc ) e del lato negativo ovviamente  senza demonizzare  perché  la tecnologia  in realtà è neutra  siamo noi che l'usiamo ( ed a volte ne abusiamo ) bene  o male .
(....)
            Lettera firmata


Subjet : Re Critica al tuo elogio  di Facebook e grazie per i tuoi interventi sulla  bacheca di mia figlia
From : useppes@tscali.it
to :        ******************
Date:     Thu, 12   nov 2010 09:20:12 +0200


Cara ****
Innanzittuto  grazie dell'osservazione  e dell'interessamento con cui mi leggete  e mi seguite   ed  il vostro apprezzamento nei miie  confonti  .
Per la critica  che mi rivolge Non ti biasimo e capisco sulle osservazioni che mi rivolgi , in quanto anch'io  sono  stato vittima  qui su fb  di un fake ( cioè  uno\a che  si  spaccia  per  altri )  che si ha preso i mie dati e le mie  foto  del profilo  e si spacciava   per me  , insultando in maniera  oscena  gli altri\e , ma   come  tu forse ricorderei  visto  che   sei  fra  i miei contatti prima   che io  avessi  tua figlia e ricorderai il modo in cui  l'ho  riconosciuto e grazie  all'aiuto in quanto mi aveva bloccato ed impedito cosi di segnalarlo ,fortunatamente mi hanno aiutato a segnalaarlo e   farlo bannare   dei miei amici\che  (  uso questo termine perchè tali persone   lo sono anche  fuori dalla rete )  .
Ma se parlo , come la storia   che  riporterò prossimamente  nel blog ,  nel mio  solo d'esso in maniera positiva  è perchè bastano già i media  e  alcuni\e ex iscritti\e  che ne parlano  male  , molto spesso in maniera superficiale e faziosa  senza vederne i pro  o ed i contro .
  saluti  Giuseppe



Prima  della storia  due   domande veloci fatte al doiretto interessato dal sottoscritto   






1)  come ti è venuta l'idea ,  è la prima volta  che  leggo   di una pizzeria  che abbia ottenuto un tale  successo nella  sua attività grazie  a  facebook , di  metterti oltre che su youtube  ache su facebook  ?
2) ha  mai preso ( e quindi messo nel conto di prenderne )  fregature  o  che ti facciano scherzi  del tipo ordinare   una  o più pizze  con dati falsi e farti girare  a vuoto o non presentarsi   a ritirarle  ?




 di cui trovate  qui  un suo video promozionale dellla sua  pizza Bunga Bunga




Interruzione di Pagina
dall'unione sarda  del 11\11\2010

«Siamo i primi in Italia» racconta il pizzaiolo virtuale e pluripremiato
La pizza? Si ordina su Facebook
Cronaca e politica ispirano le ricette di Massimo Bosco

Tempio Pausania
La giornata record ha visto sfornate ben 276 pizze, la metà delle quali sono state ordinate tramite il social network.

massimo bosco
Ordinare la pizza su facebook è la nuova frontiera della gastronomia e sembra avere un enorme successo, almeno a Tempio. Se state navigando su facebook e, a un tratto, vi viene un buco allo stomaco, nessun problema. Se avete tra i vostri amici la pizzeria "Bosco" basta entrare in chat o mandare un messaggio privato: et voilà la pizza è prenotata. L'autore di questo servizio ai consumatori è Massimo Bosco, titolare dell'omonima pizzeria che gestisce con la compagna Claudia e il suo staff. «Facebook è stata un'ottima trovata, siamo stati i primi in Italia - spiega Bosco - i clienti ordinano senza spendere niente e, noi, in tempo reale cerchiamo di rispondere a tutti». Anche se molte volte, il sistema va in tilt: le numerose ordinazioni intasano la posta e la chat va in panne. «Siamo costretti a chiudere e riaprire la pagina più vlte o chiuderla del tutto per un po', perché non riusciamo più a seguirla». Sono già 5mila gli "amici di facebook", «tanto che stiamo pensando di aprire un secondo profilo - dice Bosco - abbiamo tantissime richieste di amicizia che non possiamo più accettare». L'ordine su facebook rappresenta circa il 50 per cento degli affari della pizzeria d'asporto ed è stato attivato subito dall'apertura dell'attività, circa tre anni fa. Ultimamente, la giornata record di ordini ha visto sfornate 276 pizze fumanti in una sola serata, ben la metà sono state ordinate tramite il social network più famoso del mondo. Un successo anche dovuto al fatto che il menù offerto ai clienti si arricchisce di continuo e, costantemente, si aggiorna seguendo l'attualità. Sono tante, infatti, le pizze che si ispirano ai fatti della cronaca recente. L'ultima "invenzione" di Bosco, in ordine di tempo, è la pizza "Bunga bunga". « Gli ingredienti sono la patata novella, il salame molle piccante calabrese o quello umbro e il pecorino di Orgosolo - spiega orgoglioso il pizzaiolo - è sta riscuotendo un ottimo successo». Ma al premier ne furono dedicate altre di pizze, come la "Pizza del Papi", con ingrediente principale l'afrodisiaco zenzero; e la pizza del "Partito dell'amore", a forma di cuore. E comunque, il fantasioso pizzaiolo ci tiene a precisare che le sue pizze sono confezionate solo con prodotti genuini. Bosco è pizzaiolo campione italiano nel 2006, tra i primi dieci del mondo per la pizza al taglio romana, campione regionale Cagliari 2004, delegato Fip per la Sardegna e iscritto all'Associazione Cuochi Provincia Gallura.Ci tiene moltissimo a precisare che le sue pizze sono fatte solo con ingredienti molto genuini»D'altronde sono due le scuole che hanno contribuito alla formazione professionale di Bosco: la scuola napoletana per la pizza tonda e quella romana per la pizza quadrata. Di nascita, invece, è di Carbonia ma si sente tempiese d'adozione : «Sono dieci anni che vivo qui. La città mi ha adottato: devo tutto a Tempio».

SEBASTIANO DEPPERU

speriamo che i fati di pompei aprno gli occhi sul resto del patrimonio archeologco . il caso di Olbia e dele tombe puniche non visitabili

 ricollegandomi a quanto  dissi qui sul mio blog gemello   sui fatti di Pompei e  sullo stato del nostro patrimonio archeologico e l'incapacità ( come ribadisco nel titolo di  saperlo far  fruttare  a  livello culturale e  turistico  ) e alle   richieste di maggiori informazioni    sulla  news   di Olbia in esso   riportata   pubblico qui   un articolo

Unione Sarda   11 novembre 2010


Cronaca di Olbia
San Simplicio.

La Sovrintendenza archeologica non ha i soldi per espropriare l'area Un tesoro scoperto e subito sotterrato.
Sarà nascosta per sempre la necropoli trovata in un cantiere formata  da Ventiquattro tombe di origine punica e romana riportate alla luce dalle ruspe. Ritrovati anche gioielli, tra cui un paio di orecchini in oro.
C 'è un tesoro a due passi dalla basilica di San Simplicio, ma nessuno lo potrà mai ammirare. Perché quella parte della necropoli punica e romana di Olbia sarà presto ricoperta dalla sabbia e dal cemento. E perché in quel terreno, dove per tanti secoli sono rimaste nascoste ventiquattro tombe (con un ricco corredo funerario) dovrà sorgere un grande palazzo. La ragioni è una e anche molto semplice: la Sovrintendenza non ha i soldi per espropriare l'area, né per valorizzare quella parte della storia della città.
La scoperta è stata fatta per caso, ma non è poco importante: lo dimostra il ritrovamento, per la prima volta, di alcune tombe cartaginesi scavate nella roccia e di un paio di orecchini in oro di epoca romana. Quanto basta per entusiasmare Rubens D'Oriano, l'archeologo che da anni è impegnato nell'arricchimento dei libri della storia su Olbia. E proprio lui, che in Gallura rappresenta la Sovrintendenza archeologica ha dovuto decidere di ricoprire quella porzione di necropoli portata alla luce dalle ruspe. «Non abbiamo le risorse necessarie per renderla visibile - dice sconsolato - Ci mancano i soldi per l'esproprio, ma anche per un'opera di manutenzione frequente: insomma, non possiamo far altro che ricoprirle. Le tombe attenderanno sottoterra un Paese che in futuro sarà più attento ai suoi beni culturali».
In quel terreno, dove le ruspe hanno abbattuto il vecchio caseificio e alcune officine sull'orlo del crollo, era sotterrata una parte importante della necropoli della città antica. Le sette tombe puniche risalgono al secondo secolo avanti Cristo, cioè quando Olbia era ancora un città punica ma già sotto il potere di Roma. «Questa grande scoperta ci dimostra che l'area funeraria non era suddivisa in tante porzioni, come si credeva fino a questo momento - sottolinea D'Oriano - La necropoli invece era un'unica grande area. Aver ritrovato il corredo funerario in tutte le tombe ci permette di avviare nuovi studi sui riti funerari nell'epoca punica e nel periodo romano». Al tempo dei cartaginesi i componenti della stessa famiglia, anche a distanza tanto tempo, venivano sepolti all'interno della stessa tomba. Del corredo facevano parte brocche di vino, anforette, balsamari, monete e strigili, cioè i cucchiai usati per spalmare gli unguenti sul corpo.
Le rilevazioni più interessanti arrivano dalla zona romana della necropoli. Non solo per il ritrovamento degli orecchini. «I corredi sono poveri e questo indica che le tombe erano destinate a una classe sociale bassa - spiega Rubens D'Oriano - In quasi tutte abbiamo trovato un balsamario in vetro e una moneta. Spicca il caso di una defunta che esibiva un anello di bronzo, un sottile bracciale d'argento e gli orecchini in oro a rosetta con una piccola pietra centrale rossa».


NICOLA PINNA

Secondo voi una donna di 46 anni che non si è sposata e non ha avuto figli è incompleta o completa ? io la risposta la ho . ma Vorrei sapere cosa ne pensate.

 colonna  sonora    Bandiera  -  di Giulia  Mei   Secondo alcuni mie utenti di fb che hanno commentato questo mia provocazione ...