28.6.24

12 Frasi Sessiste Da Eliminare Dal Nostro Vocabolario e una informazione \ disinformazione di genere è una minaccia concreta ai diritti delle donne

 


leggi anche  
in particolare l'introduzione  con  i suoi link  e il primo articolo 



Con le parole ci esprimiamo e comunichiamo. Veicoliamo messaggi e la cultura della nostra società. Non sorprende che proprio le parole celino aspetti sociali che caratterizzano la società in cui viviamo, e questo avviene in positivo e in negativo. Ecco una lista di espressioni sessiste che dobbiamo smettere di pronunciare, o fermare gli altri dal dirle quando le ascoltiamo




. 1. “È un lavoro da uomini/un lavoro da maschi” 2. “Con chi è stata per ottenere quel posto?” 3. “Una donna con gli attributi” 4. “Una donna acida” 5. “Vestita e truccata così non esci” 6. “Cosa indossava?” 7. “Era ubriaca?” 8. “È una donna fortunata: ha un compagno che l’aiuta in casa” 9. “Auguri e figli maschi” 10. “Donna al volante pericolo costante” 11. “È una poco di buono” 12. “Dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna
Questo in generale  . Ma  entrando ne dettaglio   ad  esempio    

Sul lavoro
Diverse espressioni utilizzate nel mondo del lavoro sminuiscono le capacità delle donne. Alcune espressioni trasmettono il messaggio che certe posizioni lavorative siano adatte solo agli uomini come nel caso di “Questo lavoro non è adatto ad una donna” e che il ruolo delle donne debba essere confinato alla cucina (“Datti ai fornelli”). Inoltre secondo alcuni modi di dire le donne possono arrivare in alto solo usando il loro corpo (“Con chi sei stata per fare questo lavoro?”). Quando poi una donna dimostra le sue competenze la si paragona a un uomo “Una donna con le palle”. Inoltre le donne sul posto di lavoro vengono talvolta considerate frustrate e acide: “La mia capa/collega è acida, avrà il ciclo” ne è solo un esempio appunto .

Anche  nei rapporti    sentimentali  in cui  L’amore come è possesso
Certe espressioni come “Se non stai con me, non puoi stare con nessuno" e "Perché non hai risposto subito al telefono?" possono sembrare espressioni di amore e preoccupazione, quando in realtà rivelano l'intenzione di avere il controllo sull'altra persona. Vi sono poi altre espressioni che più esplicitamente dimostrano l’intento di controllo, come “Vestita/truccata così non esci”.Esso   porta  anche ad Attacchi all’autostima .  Infatti  Spesso le donne che vivono una situazione di violenza hanno difficoltà ad uscirne perché il maltrattante le umilia al punto da distruggere la forza e l'autostima necessarie per lasciare la relazione tramite espressioni come "Zitta, a nessuno importa quello che dici", "Nessuno ti crederà" o ancora "Sei pazza, non è mai successo, ti inventi tutto". Oppure  a 

  • espressioni  di  minacce

Il timore per la propria incolumità e quella dei loro affetti scaturito da minacce e ricatti come "Se mi lasci, mi uccido", "Se lo dici, ti ammazzo", “Se provi a sentire ancora X (amico/collega), vedrai che succede” è uno dei motivi per cui molte donne rimangono in situazioni di abuso o evitano di denunciare i propri aggressori.

  • di vittimizzazione
Si ricerca spesso un movente o una giustificazione del reato nei comportamenti o nell’abbigliamento della donna. "L’hai provocato”, "Cosa indossavi?" e “Eri ubriaca” sono solo alcuni esempi.

  • Il delitto passionale e il ritratto dell’aggressore fatto dai media 
Gli eventi dall’epilogo più grave vengono narrati come “delitti passionali”, dei gesti folli dovuti al “troppo amore” o giustificati dalla gelosia come qualcosa che “acceca”. Inoltre, spesso l’aggressore viene ritratto come una persona per bene per suscitare empatia nei suoi confronti, ad esempio “Sportivo, credente e ottimo lavoratore: il ritratto di X”. "Crediamo che il linguaggio abbia un ruolo centrale nel cambiamento culturale necessario per avere uno sguardo diverso sul fenomeno della violenza di genere. Infatti Non parliamo di VITTIME parliamo di DONNE, in stato di temporaneo disagio. Il termine “vittima” infatti stigmatizza la donna in un ruolo passivo e ignora la forza di cui è portatrice quando intraprende il faticoso percorso di uscita dalla violenza” dichiara  Manuela Ulivi.



da https://facta.news/storie/








di Anna Toniolo


Nelle ultime settimane Greta Thunberg è stata al centro di una notizia falsa secondo cui l’attivista avrebbe affermato che se gli esseri umani vogliono continuare a combattere le guerre dovrebbero perlomeno usare «carri armati e armi sostenibili». Si tratta in realtà di un video manipolato. Ma l’attivista svedese non è l’unica donna che si è ritrovata, in tempi più o meno recenti, protagonista di notizie completamente false. È il caso per esempio di Elly Schlein, deputata e segretaria del Partito Democratico (PD), a cui sono state attribuite frasi che non ha mai pronunciato. O ancora Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, che si trova da anni al centro di varie narrazioni della disinformazione.
Questi sono solo alcuni esempi di notizie false, satiriche o fuori contesto che riguardano donne che ricoprono posizioni di potere o ruoli pubblici, come scrittrici, giornaliste, artiste o esponenti della società civile che lottano contro le discriminazioni o la crisi climatica. Si tratta di un tipo di disinformazione non casuale, che segue pattern specifici e che si può definire “disinformazione di genere”. Un modus operandi che colpisce le donne online, ma che ha delle ripercussioni anche offline e, soprattutto, ha degli obiettivi ben precisi.
Cos’è la disinformazione di genere
Lucina Di Meco, esperta di uguaglianza di genere riconosciuta a livello internazionale e co-fondatrice di #ShePersisted Global, un’iniziativa per contrastare la disinformazione di genere e gli attacchi online contro le donne in politica, ha definito a Facta.news la disinformazione di genere come «la diffusione di informazioni e immagini ingannevoli o imprecise» contro donne leader politiche o donne che ricoprono incarichi pubblici. Secondo Di Meco, questo tipo di narrazione attinge dalla misoginia, dal sessismo e da stereotipi sessisti che dipingono le donne come «deboli, stupide e che mettono in risalto l’ossessione nei confronti della sessualità delle donne».
Il report A/78/288 delle Nazioni Unite sulla disinformazione di genere e le sue implicazioni per il diritto alla libertà di espressione, pubblicato il 7 agosto 2023, spiega che l’obiettivo generale della disinformazione di genere «è quello di minare i diritti umani, l’uguaglianza di genere, lo sviluppo sostenibile e la democrazia». Sempre nello stesso report si legge che, a differenza di altre forme di disinformazione, quella di genere non si basa solo su informazioni false, ma anche sulle narrazioni di genere esistenti per raggiungere i suoi obiettivi sociali e politici, «tra cui il mantenimento dello status quo di genere o la creazione di un elettorato più polarizzato».

Si tratta, quindi, di un tipo di narrazione coordinata che ha come obiettivo quello di diffondere notizie false sulle donne in posizione di potere, diffusa rafforzando stereotipi di genere già esistenti, caratteristica che contribuisce a rendere questo tipo di disinformazione ancora più difficile da contrastare. «Se un certo stereotipo esiste, questo viene rafforzato» ha spiegato Di Meco, «è molto difficile contrastarlo con dei mezzi puramente razionali e cognitivi» e le operazioni di fact-checking non bastano più.
L’obiettivo è silenziare voci e rivendicazioni
Nel suo rapporto del 2020 Demos, think tank britannico che conduce ricerche mirate al miglioramento della democrazia, ha presentato la disinformazione di genere come una serie di attività online che hanno obiettivi politici, sociali ed economici. L’anno successivo, invece, uno studio condotto da alcuni studiosi del Wilson Center, centro di ricerca che fornisce ai responsabili politici analisi imparziali sugli affari globali, ha evidenziato tre caratteristiche principali di questo tipo di disinformazione: falsità, intento maligno e coordinamento.
«L’obiettivo è quello di silenziare le donne ma anche, e soprattutto, silenziare alcune delle campagne che queste donne portano avanti» ha spiegato Lucina Di Meco, che ha aggiunto come attraverso il lavoro di #ShePersisted Global «quando noi vediamo che non tutte le donne sono silenziate allo stesso modo ci rendiamo conto che non si tratta solamente di misoginia, ma di un programma politico». In particolare, a essere più colpite sono le donne che si fanno portavoce di battaglie che riguardano, per esempio, il diritto di abortire, ma anche altre tematiche legate alla sessualità, come l’educazione sessuale, o l’accoglienza delle persone migranti.
Si tratta di uno schema d’attacco che accomuna le donne di molti Paesi quando si espongono e rivendicano diritti o sfidano i poteri costituiti. Per esempio, Di Meco ha raccontato che in Paesi dove sono presenti governi autoritari o leader populisti che stanno erodendo la democrazia, come la Tunisia o l’Ungheria,«abbiamo visto che le donne che fanno parte di movimenti in opposizione a queste figure politiche, sono ferocemente attaccate». L’obiettivo è, quindi, silenziare le donne e le loro battaglie, ma chi coordina campagne di disinformazione di questo tipo ha come intento anche un ritorno politico in grado di mantenere lo status quo.
La disinformazione di genere nel concreto
Gli esempi che si possono fare per comprendere come la gendered disinformation si concretizza online sono molteplici, ma ne bastano alcuni per inquadrare le caratteristiche di questo fenomeno.
Laura Boldrini, presidente della Camera dal 2013 al 2018 e oggi deputata del Partito Democratico (PD), è stata per anni al centro di campagne di disinformazione che cercavano di ridicolizzare e sminuire la sua persona. Le illazioni nei suoi confronti in riferimento a opinioni e disegni di legge da lei sostenuti sono state numerose, come ad esempio la proposta di legge sulle “misure per la prevenzione e il contrasto della diffusione di manifestazioni di odio mediante la rete internet”, da lei presentata nel 2021, e che l’ha messa nel mirino di offese che la accusavano di voler censurare la stampa e la libertà di espressione.
Boldrini è stata anche vittima di numerose narrazioni di disinformazione sul tema dell’immigrazione che miravano a descriverla come eccessivamente favorevole ai migranti e rifugiati, e allo stesso tempo indifferente e incurante nei confronti dei cittadini italiani. Un esempio è un’immagine falsa che nel 2021 accusava la parlamentare di aver chiesto all’allora primo ministro Mario Draghi «un reddito di dignità di 500 euro al mese per i migranti». La falsa notizia circolava dal 2016 e si trattava, invece, di un video decontestualizzato in cui in origine Laura Boldrini si riferiva al reddito di dignità per i cittadini europei.
Un altro esempio di campagne disinformative che coinvolgono le donne in Italia è quello che riguarda Maria Elena Boschi, deputata di Italia Viva. Le campagne di disinformazione online contro di lei hanno una forte componente sessista e misogina. Molte vignette, infatti, hanno messo in risalto il suo aspetto estetico puntando sullo stereotipo che associa, chiaramente in malafede, bellezza e stupidità e, quindi, una presunta inadeguatezza di Boschi alla politica. Nel 2015, per esempio, era stata diffusa online una foto di Boschi mentre leggeva una copia de L’Unità, storico quotidiano italiano, al contrario. In realtà si trattava di una foto modificata. L’originale era stata twittata dalla stessa Boschi in occasione del ritorno alle stampe del giornale.
Gender-trolling
Quelli appena citati sono solo alcuni dei moltissimi casi di disinformazione di genere che si scagliano contro le donne e contro le loro rivendicazioni. Spesso, però, notizie false, fuori contesto o addirittura nate con intento satirico generano veri e propri discorsi d’odio.
È in questo contesto che si inserisce un altro fenomeno che ha a che fare con la violenza online nei confronti delle donne, quello che Karla Mantilla, autrice ed esperta di studi femministi, ha chiamato Gendertrolling. Il trolling è un comportamento sociale, adottato dai cosiddetti “troll”, che punta a infastidire le persone online tramite insinuazioni che potrebbero avere un fondamento reale, ma che spesso sono, invece, completamente false.
Mantilla ha spiegato a Facta.news che «le donne subiscono una costellazione unica di molestie che io ho chiamato gendertrolling», ed è un fenomeno più feroce, violento, aggressivo, minaccioso, pervasivo e duraturo del trolling generico. Si tratta, sempre secondo Mantilla, di una strategia anche in questo caso rivolta alle donne che fanno valere le loro opinioni online, che vengono assalite da una serie di commenti a sfondo sessuale che includono minacce di stupro o di morte. «Attraverso questa pratica, le idee delle donne non vengono prese sul serio o vengono messe da parte e ignorate» ha spiegato Mantilla, «con il risultato che i contributi intellettuali delle donne al discorso pubblico vengono ignorati, scartati e cancellati».
Essere donne online, occupare posizioni di potere o, semplicemente, esprimere le proprie opinioni può quindi comportare una serie di conseguenze che comprendono campagne di disinformazione, violenza e insulti. Comportamenti che seguono uno schema preciso.
A questo punto sorge spontaneo chiedersi se campagne di odio come quelle citate possano avere conseguenze offline sulle vite delle donne. Sia Karla Mantilla che Lucina Di Meco concordano sul fatto che questo tipo di aggressioni hanno effettivamente ripercussioni sulle vite delle donne che le subiscono, che possono addirittura finire nel peggiore dei modi: portando ad attacchi fisici o alla morte.
La violenza digitale ha conseguenze sulle vite delle persone
In tutto il mondo molte delle minacce che derivano dalla narrazione disinformativa e violenta nei confronti delle donne portano con sé pericoli reali.
Per esempio, l’ex ministra dell’ambiente e dei cambiamenti climatici del Canada Catherine McKenna ha lasciato il suo incarico nel 2021, dopo essere stata bersaglio di campagne disinformative che avevano portato l’odio nei suoi confronti a un livello tale da essere fermata per strada insieme alla sua famiglia, ricevendo minacce. Accusata ingiustamente di diffondere notizie che esageravano le conseguenze dei cambiamenti climatici, McKenna era stata definita “Barbie del clima” da un collega e tale hashtag era stato poi ripreso e diffuso online migliaia di volte.
Un altro esempio da citare quando si parla delle conseguenze concrete che la disinformazione di genere ha sulla vita delle donne è l’assassinio di Jo Cox in Gran Bretagna. La deputata laburista è deceduta dopo essere stata ripetutamente colpita con un’arma da taglio il 16 giugno 2016, una settimana prima del referendum del 23 giugno sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea (UE). Cox era una politica impegnata nella campagna per il “remain”, ovvero per restare all’interno dell’Unione Europea, nel periodo in cui nel Paese si discuteva della Brexit ed era stata più volte al centro di narrazioni di disinformazione che avevano generato una violenta ondata di odio nei suoi confronti. Mentre eseguiva l’attacco, il suo assassino aveva pronunciato frasi come «prima la Gran Bretagna» e «mantenere la Gran Bretagna indipendente».
Questo omicidio si inserisce in un contesto politico più ampio, in cui suprematisti bianchi e sostenitori del “leave”, quindi dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, hanno condiviso per mesi sui social una serie di informazioni false e teorie del complotto che hanno aumentato la rabbia nei confronti di chi sosteneva, invece, l’appartenenza all’UE.
Su Facebook e Twitter erano stati diffuse notizie false su temi come l’immigrazione, l’Islam e la politica estera. Il giorno prima che Cox fosse barbaramente assassinata, ad esempio, il leader del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito Nigel Farage aveva diffuso un’immagine anti-immigrazione che mostrava migliaia di persone migranti, insieme al commento «L’UE ha fallito con tutti noi. Dobbiamo liberarci dall’UE e riprendere il controllo dei nostri confini». In realtà si trattava di una fotografia scattata in Slovenia nel 2015, quindi un anno prima, che mostrava migliaia di persone che avevano appena attraversato il confine con la Croazia e non aveva, quindi, niente a che fare con il Regno Unito. Secondo il deputato laburista Stephen Kinnock, prima della sua morte Cox aveva commentato indignata la diffusione di quell’immagine. Questo mix di odio, notizie false, complottismo e suprematismo ha, infine, trovato in Cox il capro espiatorio perfetto, portando alla più tragica delle conclusioni.
Ma non solo episodi sporadici e specifici, la disinformazione di genere che colpisce le donne può avere conseguenze anche più generalizzate, su tutta una categoria di giovani donne che si sentono intimorite da quanto accade online e dai rischi che comporta esporsi per una determinata causa. Secondo Lucina Di Meco questo ha delle conseguenze molto gravi: «di fatto noi sappiamo che le donne, in particolare le giovani donne, si auto censurano online sempre di più».
Tutto ciò è poi aggravato dalla diffusa assenza di una legislazione specifica per poter affrontare casi di disinformazione come quelli descritti e le piattaforme social, l’ambiente digitale in cui le campagne d’odio si dispiegano, non si sono ancora dotate di strumenti vincolanti e davvero efficaci per evitare che questo tipo di narrative riescano a diventare virali.
Una combinazione di fattori che mette a rischio la presenza delle donne online, la loro credibilità e le loro rivendicazioni, ma che ha anche delle ripercussioni sulle loro vite offline e sui sogni e le aspirazioni delle generazioni future. La disinformazione di genere agisce come un silenziatore per portare avanti dinamiche patriarcali che vedono le donne come soggetti che non possono occupare posizioni di potere ed escludendo di conseguenza un’intera parte della popolazione dalla vita pubblica. Una dinamica che, in ultima analisi, danneggia tutti e tutte.

27.6.24

ma quelli che fanno politiche e spot probizionisti sanno che c'è cannabis e cannabis ? sembra di no visto che la considerano tutta uguale Cannabis terapeutica, Annamaria supera la fibromialgia e riprende l'uso delle gambe: «Ora riesco ad alzarmi da sola»

 

da mi pare  da  leggo.it     comunque tramite    https://www.msn.com/it-it/salute/other/ 


Un anno e mezzo fa, la signora Annamaria, della provincia di Salerno, ha perso l'uso delle gambe a causa di una grave forma di fibromialgia. Dolori cronici lancinanti, visite mediche in ogni luogo d'Italia, la totale dipendenza dagli altri per compiere i gesti più semplici e quotidiani, finché l'incontro con il dottor Paolo Moscato, responsabile dell'ambulatorio di Reumatologia dell'AOU San Giovanni di Dio e
Ruggi d'Aragona di Salerno, le ha dato la possibilità di intraprendere un percorso verso l'autonomia motoria. «Quando sono entrata per la prima volta nel suo studio - ha raccontato la paziente - ero psicologicamente devastata, immobilizzata, con molti chili in più ed anche scettica sul tipo di terapia propostami».
La terapia con la cannabis terapeutica La signora, infatti, nel 2023, su consiglio del dottor Moscato, ha iniziato ad assumere una goccia di cannabis terapeutica, fino ad un dosaggio giornaliero di 20 gocce e dopo sei mesi, durante i quali Annamaria si è totalmente affidata alle cure del dottore Moscato, finalmente ha iniziato a vedere i primi segni di ripresa e di reattività del suo corpo. «Uno strano formicolio mai evidenziato prima, si irradiava nei miei arti - ha spiegato - infatti, le funzioni intestinali si sono regolarizzate, il dolore cronico e debilitante si alleviava sempre più, e un giorno, sorretta dalle stampelle, sono riuscita addirittura ad alzarmi sulle mie gambe, senza l'ausilio della sedia a rotelle», come si può vedere nella foto di OndaNews e dal video     di tv medica  
.
«La cannabis terapeutica ci sorprende continuamente - ha sottolineato il dottore Moscato - sappiamo che scientificamente i fitocannabioidi agiscono su alcuni recettori del cervello e dell'intestino, e la loro assunzione ha un'azione modulante sul dolore, ma ciò che mi meraviglia, è il vigore, la forza che sopraggiunge e il ripristino delle funzioni motorie che in alcuni pazienti è sorprendentemente evidente». «Finora, oltre alla paziente in questione, ho avuto in cura altre due persone affette da fibromialgia, immobilizzate sulla sedia a rotelle, che dopo l'assunzione costante e continuativa della cannabis, hanno riacquistato l'uso delle gambe - racconta -. La ricerca e gli studi scientifici sono ancora in corso per perfezionare e migliorare una terapia che è di supporto per tanti pazienti, attanagliati dal dolore, dallo sconforto e vittime di una grave compromissione della motilità causata dal progredire della fibromialgia, una malattia subdola e invalidante che in alcuni casi, l'uso dei cannabioidi, riesce a tenere a bada».

Giovani sempre più boomer ? , stesse lamentele di mamma e papà: «Non voglio parlare con un robot quando chiamo il servizio clienti!»

premetto che no sono della milenianas  o della    generazione Z ma vicino ( se volete etichettarmi ) vista la mia età ai boomer . Chi ha scritto quest articolo è fazioso ed in malafede paragonare le due generazioni perchè le proteste \ lamentele dei giovani sono in parte giuste e comprensibili . Infatti con il voler semplificare troppo la vita si è perso ogni contatto umano e con il mondo reale ( e credo che se continuerà cosi l'unica attività umana che rimarrà sarà , sempre chje le macchine nonce la freghino , quella onanistica 😂😥) .




Giovani sempre più boomer, stesse lamentele di mamma e papà: «Non voglio parlare con un robot quando chiamo il servizio clienti

                                         di Hylia Rossi

Un ciclo continuo e inarrestabile. Un giorno sei parte dei "giovani", pronto a distruggere lo status quo, un cuore rivoluzionario che batte forte nel petto e il giorno dopo... ti svegli col pensiero di quel nuovo modello di lavastoviglie in cima alla lista desideri. La battaglia tra le generazioni è sempre diversa e sempre la stessa e non c'è nulla di cui sorprendersi, ma rendersi conto degli anni che passano e di somigliare sempre più ai propri genitori non è mai facile (anche se si guarda a mamma e papà come a degli eroi). Non è passato molto tempo dal trend che ha visto i social pieni di "ok boomer", due semplici parole usate da giovani e giovanissimi per sminuire le paternali e i commenti più conservatori dei baby boomer, vale a dire la generazione dei nati tra il 1946 e il 1964 (e che col tempo è stata usata nei confronti di un atteggiamento paternalistico, a prescindere dall'anno di nascita). E in questo poco tempo tanti di coloro che scrivevano "ok boomer" si sono resi conti di condividere e supportare tante lamentele proprio con i boomer che tanto criticavano. 

Gen Z e Millennial come i "boomer"

Più si va avanti con l'età e più frequentemente ci si rende conto di aver detto qualcosa che somiglia paurosamente a qualcosa che i più "grandi" dicono spesso. Le lamentele dei boomer, allora, diventano immediatamente più comprensibili. Lori ha chiesto su Twitter: «Qual è la lamentela più boomer che avete?» e sono arrivate migliaia di risposte, alcune delle quali hanno ottenuto tantissimi consensi. «Avere un hobby manuale, che non ha nulla a che fare con la tecnologia e il digitale, come lavorare il legno, cucire, disegnare e via dicendo, fa bene alla salute mentale. I social media stanno distruggendo questi hobby e spingono le persone a pensare che le uniche cose che vale la pena fare sono quelle che "vengono bene" in foto o in video e portano fama online», scrive qualcuno



Per quanto riguarda il fenomeno dei video tutorial, un utente commenta: «Il fatto che devi vedere un video per imparare a fare qualsiasi cosa anziché leggere il manuale di istruzioni mi fa bollire il sangue nelle vene. Voglio poter controllare il modo in cui entro in contatto con le informazioni e imparo, voglio poter saltare e andare alla parte che mi interessa».Ci sono poi lamentele molto più concise e che immaginiamo facilmente pronunciate da un anziano un po' burbero: «Le serie tv sono troppo scure, non si vede niente, il volume delle pubblicità è troppo alto, i fari delle macchine sono troppo luminosi», «Ci sono pubblicità ovunque. Ogni tre secondi. Pubblicità, spot, pubblicità... Basta!», «La musica di sottofondo nei ristoranti è troppo alta, non siamo mica in discoteca, vorrei riuscire ad avere una conversazione», «I bambini non imparano più a scrivere in corsivo!», «Odio i menu con il codice QR nei ristoranti, voglio quello cartaceo, fisico», «Smettetela di far uscire le serie tutte insieme! Voglio vederli piano piano, di settimana in settimana, insieme al resto del mondo, così che si possa discutere tutti insieme del nuovo episodio come si fa in una società come si deve!».


26.6.24

DIARIO DI BORDO N 58 ANNO II Speranza e nuova vita i casi di Bahara ragazza afgana giunta con un corridoio umanitario e quella di giulia Ghiretti, campionessa paralimpica di nuoto

"Ciò che conta è trovare il coraggio di rialzarsi e andare avanti, non importa quante volte la vita ci abbatterà. "
                  Charles Bukowski


Avendo sostenuto  non ricordo con precisione    quale   causa  umanitaria  del giornale   ho ricevuto  un abbonamento  gratuito  ad avvenire.it     da  cui  ho tratto queste  due  storie  piene  di speranze  e voglia  di rincominciare    come  quella  che  sto  afffrontando e  di cui  ho una  delle rara    volte, parlato nel  n  56     di questa rubrica    : <<   dopo  aver  attraversato la tempesta  e  ritornata  la  paura  ma   sono riuscito ad  affrontarla con consapevolezza >>    forse perche  come  la  protagonista  ( e  per  altri  motivi  personali ed familiari ) del primo    articolo  ho difficoltà  a   esternare le mie  emozioni   .
La prima  storia è quella di  Giulia Ghiretti,Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti si racconta ad Avvenire: « Le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile».  27 medaglie e un record del mondo in vasca corta. Sarà a Parigi, ma anche in tante scuole a raccontare la paralisi dopo una caduta e la rinascita

la  

Non smette mai di sorridere, Giulia. Ogni risata scuote la massa di capelli ricci, nel verde del cortile della sua casa in una frazione di Parma che è già
campagna. « Non potrei mai vivere in città – dice -. Questo è il mio mondo». Un mondo apparentemente confinato nella villetta in cui vive con la famiglia, a fianco del casale agricolo in cui abita la nonna.
Solo apparentemente, però. Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti vive tra aerei da prendere, gare da affrontare, allenamenti quotidiani da onorare. E poi gli incontri nelle scuole, che negli ultimi anni si sono moltiplicati.  Perché lei ha la sua storia da raccontare: quella di una ragazza di 16 anni, giovane atleta promettente, che in un giorno di gennaio del 2010, durante il primo allenamento dopo le feste di Natale e poco prima dei Mondiali a cui era attesa, prende letteralmente il volo sul tappeto elastico, la sua specialità, atterra di schiena e si frantuma una vertebra. Intervento, mesi di terapia. La certezza che non tornerà mai più a camminare. La carrozzina che diventa il suo “fine pena mai” (anche se lei questa espressione non la sottoscrive, perché la sedia con le ruote non l'ha mai vissuta come una prigione). E poi la scelta di tornare a fare agonismo. In piscina, però, dove si sente libera. Da allora è stato un crescendo: oltre 60 titoli italiani, un primato mondiale, titoli europei e iridati, due argenti e un bronzo tra i Giochi di Rio e Tokyo.

Giulia, la tua vicenda è diventata anche un libro Sono sempre io (Piemme, 208 pagine). Quando hai pensato di volerlo scrivere?

Non ho mai voluto! Mi ha convinto Andrea (Del Bue, giornalista e amico del cuore di Giulia, firma con lei il libro, ndr). Non mi piace parlare di me. La svolta è stata con il Covid: chiusi in casa, ne abbiamo avuto il tempo.

Lo scorso febbraio hai compiuto 30 anni. Che effetto ti ha fatto?

Traumatico. Mi sembra di non aver realizzato nulla. Di essere un po’ in ritardo.

In ritardo? Hai completato la laurea magistrale in ingegneria biomedica al Politecnico di Milano, hai vinto decine di medaglie tra Olimpiadi e competizioni mondiali...

Sì, è vero. Però dentro di me, la mia vita personale, intima, mi sento in ritardo.

Da anni giri per le scuole a testimoniare che la disabilità non limita la vita. Cosa ti piace di più dell’incontro con i bambini e i ragazzi?

Mi piace la loro spontaneità. Mi chiedono cose come: entri in acqua con la carrozzina? Perché ti metti i pantaloni se non senti le gambe? Non potresti tagliarti le gambe e metterti le protesi? I bambini non avvertono barriere. A loro cerco di trasmettere l’idea che i disabili possono fare le stesse cose dei normodotati, in modi diversi. L’importante è avere la curiosità di conoscere chi è diverso da te, così ti fa meno paura. La disabilità spaventa, sì, ma solo perché non la si conosce.

Il titolo del tuo libro è "Sono sempre io": Giulia, davvero sei rimasta la stessa che eri prima dell’incidente?

Sì, e sai perché? Perché non ho abbandonato i miei sogni. Anzi, ne ho fatti di nuovi. Per me è un sogno tutto ciò che è successo in questi anni: le Olimpiadi, i Mondiali, conoscere il presidente della Repubblica, presentare la candidatura di Parma come città italiana della Cultura… A volte penso: cos’ho fatto per meritarmi tutto questo?

Diciamo che hai trasformato la disabilità di forza. Non è poco. Pensi che grazie ai tuoi incontri nelle scuole chi ti ascolta cambi lo sguardo?

Sì, un po’. Vedo che si instaura un clima di confidenza e sono spesso i ragazzi a chiedermi come è giusto comportarsi con chi è nella mia condizione.

Per esempio, cosa non bisogna fare?

Be’, le carezze sulla testa, gli abbracci non richiesti. In generale, è semplice: le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile. Quelli che ti dicono: che brava, ma come fai... Per quanto mi riguarda, amo conservare una mia normalità.

Non ho mai abbandonato i miei sogni
Sento una responsabilità verso gli altri
Da questa carrozzina posso costruire qualcosa
Forse è questo il senso di quello che mi è successo









Dopo l’incidente hai scelto di dedicarti al nuoto paralimpico. Perché?

L’acqua è libertà. In piscina per la prima volta dopo l’incidente ho avuto piena consapevolezza del mio corpo. Fuori dall’acqua sto sempre appoggiata a qualcosa, le mie gambe pesano molto ma non ne ho la percezione. In acqua non conta più nulla, le gambe seguono docilmente i movimenti del corpo.

Senti mai di avere dei limiti?

I limiti sono fisici. Un gradino, una scala, per me sono oggettivamente altrettanti limiti, perché da sola non li posso oltrepassare. I limiti sono tutti fuori da me, o in certe mentalità che escludono i disabili. Per il resto, più che limiti io dico che esistono obiettivi.

Nel libro scrivi che quando sogni te stessa, ti vedi in piedi. Che sensazione provi?

È difficile da spiegare: sono in piedi, però magari in un punto dove c'è la ghiaia e faccio fatica a muovermi. È una situazione irreale eppure vera: oggi con la carrozzina sulla ghiaia non mi muovo.

Pensi mai che un giorno, grazie ai progressi della scienza, della medicina e della tecnologia, potrai tornare a camminare?

Quando mi sono fatta male mi dicevano che in un decennio ci sarebbero state strabilianti novità. Ne sono trascorsi 14. Uso l’esoscheletro per la fisioterapia, ma non c’è paragone con la mobilità che mi garantisce la mia carrozzina.

Nel tuo libro scrivi anche che non sai dire ti voglio bene, nemmeno a tua sorella a cui sei legatissima. Come mai?

Perché non riesco a esternare i miei sentimenti. Mi considero una persona molto riservata, a volte posso sembrare fredda e lontana. Ma a me gli abbracci piacciono tantissimo, ci sono dei momenti in cui ho bisogno del calore umano. Però ecco, i gesti sono una cosa, le parole un’altra.

Amore?

Storie sentimentali ne ho avute, ma non è facile, mi accorgo che la disabilità fa paura. Io voglio un amore come un film, ma è difficile... Poi più cresci più diventi esigente. Lo dicevo all’inizio no, che mi sento in ritardo?

Sei cresciuta in oratorio, ma poi ti sei allontanata. Cosa è successo?

Dopo l’incidente andavo a Messa e le persone venivano intorno a me, mi accerchiavano e mi sono sentita a disagio. Era il loro modo per farmi sentire la vicinanza, ma alla fine scappavo via prima che la funzione finisse. Adesso per me essere credente è voler bene e accogliere gli altri.

A fine estate parteciperai alle Paralimpiadi di Parigi, ci arriverai da campionessa in carica. Come la vedi?

Sarà molto difficile. Ho il terrore delle due atlete cinesi con le quali mi sfiderò, perché non sai cosa fanno durante l’anno, non le conosci, spuntano fuori solo alle Olimpiadi.

Insomma, nuoterai per difendere il tuo titolo?

Ora sulla carta ho il primo tempo, però so che alcune delle mie avversarie sono molto più veloci di me. Quindi, no, non mi sento una inseguita ma ancora una inseguitrice.

Che cosa ti ha regalato fare il tuo record personale nei 100 rana in finale a un Mondiale?

Una gioia indescrivibile. Ma non per il record in sé, quanto per l'idea di avere ogni volta la possibilità di superare i miei limiti. E poi, la scarica di adrenalina...

C’è una donna a cui ti ispiri?

Mia mamma. Su certe cose siamo molto simili. L’intuizione, ad esempio. Capire i bisogni degli altri senza nemmeno che li esprimano. La praticità: sa sempre cosa bisogna fare. Dopo l’incidente a un certo punto ha detto: be’ io adesso dormo due ore perché da domani ci saranno un sacco di cose da fare.

Com’è stata la tua adolescenza?

Io l’adolescenza è come se non la avessi vissuta. A 16 anni ho avuto l’incidente per cui ho dovuto reimparare tutto. Era tutto nuovo.

Hai trovato un senso in ciò che ti è successo?

In realtà non me lo chiedo nemmeno. È successo, pura sfiga. L’unica cosa che mi domando è se posso essere utile a qualcuno, se questa sfiga può dare un frutto. Se la risposta è sì, allora forse questo è il senso.

Tu sei un’atleta, sei una sorella, una figlia, una ingegnera. Tanti ruoli insieme, come ciascuno di noi. Ma Giulia davvero chi è? 

Sono una ragazza che ama sfidare i suoi limiti. E che però ha le sue paure, che talvolta vorrebbe chiudere il mondo fuori e fermarsi. Ma che sente di avere responsabilità nei confronti degli altri. Mi chiamano frequentemente a parlare della mia vita, delle mie esperienze e in alcuni casi saltano fuori curiosità su cosa c’è dietro, nella quotidianità, a una persona con disabilità. Vuol dire che trovano qualcosa di bello e di buono in me. Vuol dire che anche io, da questa carrozzina, posso costruire qualcosa.

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La  seconda   è  inve e lastoria   di  Bahara  una ragazza  Afgana  , una sintesi  nel video  sotto  ,  che  Ha lasciato famiglia e cuore nel suo Paese  (  nella foto sotto   a  sinistra   una png   da  avvenire  del 26\6\2024  sulla  situazione  in  Afganistan )   diciannove anni, afgana, avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne, grazie ai corridoi umanitari venerdì sera è arrivata in Italia...

Il suo nome significa "primavera", ha 19 anni e avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne. Ora è in Italia, vuole aiutare «le donne afghane a sentirsi libere come mi sento io adesso»
È dentro un frullato di emozioni e un altro lo ha dentro. Si chiama Bahara, che in afghano significa primavera, ha 19 anni, non è potuta più andare a scuola da mille giorni, avrebbe dovuto sposare un talebano 60enne. Scende dall’aereo, a Roma, felicemente stanca e spaesata, un misto di gioia, paura, stanchezza. È incredula, le ci vorrà un po’ per capire che non sogna e non lo nasconde: «Se qualcuno mi avesse detto un anno fa che adesso sarei stata qui in questa situazione, non ci avrei creduto, perché non avrei mai pensato di avere questa forza interiore che mi ha portata a superare tutto quel che ho dovuto superare». Allora adesso, in questo aeroporto, libera, si guarda indietro e «mi emoziono per essere riuscita a farcela nonostante tutto».


(Grazie ad Arianna Briganti, vicepresidente di "Nove Caring Humans", per la traduzione)


Va avanti. «Penso alle brave persone – dice -. Alle brave persone che sono venute in mio aiuto. Penso a loro, quando penso alla parola amore». Sistema il velo sui suoi capelli. Sorride. Le danno un pasto e dell’acqua. Le tiene la mano e la coccola Arianna Briganti, vicepresidente dell’associazione Nove Caring Humans, che seguirà Bahara nel suo futuro italiano e l’aspettava con un borsone: «Bahara non ha nulla, nemmeno vestiti», spiegava Arianna, prima che la ragazza s’affacciasse nel terminal tenendo fra le mani giusto uno zainetto, sola, in un Paese che per lei dev’essere qualcosa simile alla luna.
Non è arrivata in Italia da sola, sul volo da Islamabad atterrato venerdì sera al “Leonardo da Vinci”, con lei c’erano altri 190 profughi afghani (fra loro, 71 minorenni e 70 donne), che erano rifugiati in Pakistan dall’agosto 2021. Qui grazie ai corridoi umanitari promossi dalla Conferenza episcopale italiana (attraverso la Caritas), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci e d’intesa con i ministeri dell’Interno e degli Esteri.
Bahara ha lasciato in Afghanistan cuore e famiglia e non è stato facile. Ma non le sembra vero che ora «posso studiare, vestire come voglio, uscire quando voglio, essere libera». Il volo dal Pakistan è durato cinque ore e mezza, ha avuto tempo per riflettere e «mi sono messa a pensare a settembre, a quando sarò in classe, a come farò a diventare una studentessa modello e poi una donna che lavora, di quelle molto in gamba, molto capaci», quindi «mentre volavo pensavo a come farò a eccellere nello studio e nel lavoro».
Ne ha passate tante, troppe in 19 anni, però nemmeno ha mai pensato d’abbattersi, arrendersi, né ha mai vacillato ciò in cui crede o la sua speranza. E se adesso è felice, «continuo a sentirmi anche estremamente triste per quello che succede alle donne afghane nel mio Paese – racconta -. Non possono uscire di casa, sono costrette a umiliazioni di tutti i tipi, a matrimoni forzati». Perciò – ripete spesso Bahara - «quel che voglio fare è essere libera, ma anche aiutare le donne afghane a liberarsi come mi sento io adesso».

Con auesto è  tutto alla prossima

se gli influenzer prosperano è a causa nostra . i ferragnes tolgono i figli dai social ma i fans morbosi non ci stanno

  ecco la risposta a chi fra voi lettori e genitori mi prendeva in giro accusandomi

d'essere volgare senza e stupido senza analizzare meglio ciò che dicevo e scrivevo che tira più un pelo di figa che un bambino che muore . E' notizia e di questi giorni che I fan dei Ferragnez,non ci stanno allla decisone ipocrita avvenuta In seguito alla rottura  del loro  matrimonio ,con cui  Chiara Ferragni e Fedez hanno deciso di non condividere più sui social foto dei figli, mostrati sempre e solo di spalle o "blurrati" intenzionalmente. Una strategia curiosa (arrivata dopo interi anni di scatti insieme pubblicati su Instagram) che, stando alle indiscrezioni, sarebbe stata chiesta dal rapper al momento della separazione, per evitare che i piccoli Leone e Vittoria potessero essere strumentalizzati da una parte o dall’altra con il solo scopo di creare engagement di tutelare i bambini dall'esposizione mediatica e chiedono a gran voce il "ritorno" dei figli di Chiara Ferragni sui social.

Io avrei esposto i loro figli in rete in rete h 24 o quasi , e poi vediamo che succede se sono d'accordo e cambieranno idea .

25.6.24

assurdità della moda La Generazione Z sta pagando centinaia di euro per scarpe da ginnastica sporche per mostrare la loro ‘atteggiamento indifferente’

 Va  bene      anare  in controtendenza    ed  mostrare  l'atteggiamento  d'indifferenza  alle  convenzioni   e  ai  suoi  canoni  che  ci  vogliano  tutti perfetti ed  uguali .
 Ma  qui  si finisce    per  essere  più conformisti  del  conformismo  che si  vuole   abbattere   oltre  ad essere,  come  si diceva  un tempo   più  realisti del re  ,   inglobati  e  schiavi   dello  stesso sistema  .  Tra  le  news   d'odierne    sfogliando  il  web  Leggo   sul portale   msn.com più  precisamente  su  lifestyle/notizie  che  

La Generazione Z sta riportando in auge una tendenza millenaria ormai morta.

La Generazione Z sta gravitando intorno alle scarpe Golden Goose: scarpe progettate appositamente per sembrare logore e sporche.Il rivenditore di moda Coggles ha spiegato che lo “stile pre-graffiato esclusivo… è stato creato per dimostrare un atteggiamento indifferente piuttosto che un’estetica trasandata”.
Sebbene le scarpe dall’aspetto sporco abbiano avuto il loro momento con la generazione Y, hanno iniziato a guadagnare popolarità tra la Generazione Z l’inverno scorso e sono decollate nel 2024.Le popolari scarpe Golden Goose partono da 565 dollari sul sito del marchio e possono arrivare fino a 2.350 dollari. I designer italiani Francesca Rinaldo e Alessandro Gallo hanno fondato il marchio nel 2000, ma le loro scarpe sono state lanciate nel 2007, quando il classico modello Super-Star è arrivato nei negozi. I Zoomer hanno ricorso a TikTok per “mettere fine alla calunnia delle Golden Goose”. Un utente ha giustificato l’acquisto di scarpe che sembrano sporche perché, quando si comprano scarpe pulite, inevitabilmente diventeranno sporche.“La bellezza delle scarpe Golden Goose è che arrivano già un po’ disordinate”, ha detto. “Quindi sono fatte per essere vissute, fatte per essere indossate. Non cammini in giro e ti senti in colpa per averle ammaccate. Non cammini in giro e ti senti in colpa per averle un po’ graffiate”. Qualcuno nei commenti ha argomentato che, in questo caso, avrebbe più senso comprare scarpe usate.E i genitori non sono esattamente entusiasti nel scoprire che i loro figli stanno spendendo così tanto denaro per scarpe che sembrano sporche.Un padre ha detto alla figlia che era “pazzesca” dopo averle detto quanto ha speso per le scarpe Golden Goose. Ma la Generazione Z non si stanca di loro – non importa cosa pensino i loro genitori.Il CEO di Golden Goose, Silvio Campara, ha detto al Financial Times a dicembre che le vendite hanno mostrato che i loro clienti erano principalmente giovani – e l’80% poteva essere classificato come Generazione Z o millennials.






Ora mi  chiedo ma anziche sprecare soldi , risorse naturali ed inquinare .Perchè non ottenere lo stesso risultato indossandarne un paio vecchie e sporchè invece di gettarle via ? oppure comprarne un paio usate ?

intervista di Emiliano Morrone a Juri Camisasca «autore di vera musica sacra» Il coautore di Franco Battiato

Questa,riportata dall'amico compagno di strada Emiliano morrone per il  quotidiano 
https://www.corrieredellacalabria.it/ il 22\6\2024 ,  è stata    un'intervista difficile. Perché Juri Camisasca, che ha scritto brani meravigliosi,  per Franco Battiato ma  non solo    come dimostra      quest  elenco  preso  dalla pagina    su di lui  di wikipedia 


 è un eremita e tende a non parlare. Con lui abbiamo discusso delle trasformazioni della musica, che oggi, secondo Camisasca, è artificiale, commerciale, sempre identica, vuota. E abbiamo analizzato i segni del presente, allargando il dialogo alla necessità della pace e al senso della vita, che dura pochissimo in rapporto all'eternità. Dalle pendici dell'Etna, l'amico e coautore di Battiato ci ha dato argomenti profondi su cui riflettere. Infatti  in "Altro e altrove"(  foto  di copertina  a  sinistra  )   di  Cristian  Porcino  più precisamente   nel capitolo "La musica muore" che è un brano di Camisasca  si parla      del decadimento  totale (    salvo  poche mosche  bianche  )   della musica  italiana     negli ultimi  20\  25  anni  . 





 A   voi  l'articolo  i questione   .  buona  lettura 

LA LENTE DI EMILIANO
Juri Camisasca «autore di vera musica sacra» Il coautore di Franco Battiato: «Ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio»
Pubblicato il: 22/06/2024 – 10:52
                                         di Emiliano Morrone


Franco Battiato definiva Juri Camisasca «un autore di vera musica sacra». I due hanno condiviso fondamenti, orizzonti e dimensioni: il mistero insondabile della vita, la ricerca interiore, la musica, la pittura, il silenzio. Nel testo di “Nomadi”, fra i brani più belli e identitari di Camisasca, che spesso si ricorda nella versione di Battiato, figurano tracce dello sguardo e della direzione spirituale di entrambi gli artisti, sempre riservati nel loro privato; per esempio, il riferimento al «transito dell’apparente dualità». Per molti anni, Battiato è stato protagonista della musica italiana, che con rara voglia di sperimentare e apertura mentale ha saputo innovare nella lingua, nei ritmi, negli arrangiamenti e più in generale nei concetti. Sia per Battiato che per il suo amico e coautore Camisasca, non si può scindere l’uomo dall’artista né si riescono a disgiungere le idee e sensibilità personali dalla struttura e dai contenuti delle loro canzoni. La musica contemporanea è invece spesso regolata dalle leggi spietate del mercato, finanche prodotta da applicazioni basate su algoritmi costruiti sull’analisi di mode, gusti e tendenze dominanti. La musica dà una misura precisa delle sempre più rapide trasformazioni economiche, politiche, culturali, antropologiche e sociali in atto. Ne parliamo con Camisasca, cui diamo del Tu perché lo conosciamo.

In che epoca viviamo?

«È un caos. Io seguo in maniera trasversale quello che succede nel mondo, ma mi sembra che tutti i grandi propositi di pace e di fratellanza si stiano frantumando. Ci sono guerre che sembrano non finire più e siamo nelle mani di pazzi, praticamente. Il mondo è governato da gente che ha un ego smisurato. Sono soggetti malati, combattono per un pezzo di terra e uccidono le persone come se fossero birilli. È un mondo allucinante, se visto in questo senso. Tu apri il computer – io ne uso uno come mezzo di informazione – e ogni volta leggi notizie raccapriccianti».

Allora è un mondo condizionato dal capitalismo, orientato dall’egoismo, dall’accumulo di beni? Anche la musica si è adeguata e, paradossalmente, non è più impegnata né in grado di parlare all’anima?

«Regna il capitalismo spinto. C’è da dire che ogni musica tende a riflettere il proprio tempo. Negli anni ’70 esistevano gruppi come i Genesis, i Van der Graaf Generator, i Jethro Tull, cioè tutta gente che suonava. Per carità, adesso ci sono ancora, ad esempio, gruppi come gli U2, che sanno il fatto loro. Ma il punto vero è che la tecnologia è diventata dominante e funzionale al mercato. Ci sono app che fanno le canzoni. Se tu dai degli input, queste applicazioni ti scrivono il testo e ti scrivono anche la musica, ti mettono gli accordi e così via. In effetti, quando vado al supermercato o in qualche altra parte, sento brani musicali identici, tutti con lo stesso suono. Non esiste più ricerca musicale e la volgarità è imperante. Il rap è stata la vera rovina. Magari tanti ragazzi che si danno a questo genere non sanno cantare e vanno in crisi, se gli fai intonare una melodia. Se gli togli l’Auto-Tune, intendo dire, diventa un problema. Con questo tipo di sistema, tutti possono cantare. Però diventa un disastro se il software va in tilt, come successo tempo fa. Queste tecnologie stanno rovinando anche il gusto di creare e la creatività in sé».

Juri Camisasca e Franco Battiato

Quanto è importante il canto?

«Cantare è innato nell’uomo, è piacevole. Se canti, è perché stai bene oppure perché hai voglia di stare bene. Una persona che sta male non canta. Se sei triste, il canto ti aiuta anche a trovare un po’ di serenità. Cantare ti consente di esprimere una parte di te che sul piano razionale non puoi manifestare. Il canto è l’elemento di comunione e di comunicazione per eccellenza. Il pensiero e la razionalità dell’uomo hanno dei limiti. Con il canto, invece, generi e trasmetti emozioni all’esterno, quando è fatto in una certa maniera. Molti ragazzi, invece, esprimono soltanto rabbia, quando cantano. C’è molta rabbia nelle musiche dei rapper. È raro, oggigiorno, ascoltare un canto alla Leonard Cohen, che parli all’anima e sia poesia. Ecco, oggi non c’è più poesia e i testi delle canzoni sono spesso di una violenza e di una volgarità indefinibili».

La contemporaneità è segnata dal caos e del rumore. A un certo punto, però, tu hai deciso di sganciarti, di condurre una vita eremitica pur mantenendo la tua presenza artistica.

«La musica e il lavoro di iconografia cui mi dedico sono in realtà di contorno al vero impegno della mia vita, che è la ricerca interiore. Prima di tutto, io sono un uomo di silenzio, un uomo che cerca di dare un senso al proprio esistere, che è un baleno. La nostra vita è un attimo. Che cosa è questo flash che stiamo vivendo? Veniamo da non si sa dove, prima non c’eravamo e poi non ci saremo. Ora, che cosa è questo attimo che noi chiamiamo “esistenza”, che può durare 20, 50, 70, 90, 100 anni, cioè niente in rapporto all’eternità? È questo ciò che mi interessa. Io conduco una ricerca interiore, consapevole che finché si cerca non si trova. Allora si tratta di lasciar decantare tutto un sistema di intellettualismo che ci opprime, affinché sia il silenzio a darci la risposta su ciò che siamo. In effetti, quando si vive una vita di silenzio e di solitudine come la vivo io, ci sono momenti in cui si ha come una sorta di apertura, una specie di conoscenza che è trascendente. Lì ti rendi conto di chi sei realmente e sperimenti un’espressione della vita unica».

Che cosa ne ricavi?

«A me interessa questo. Poi, quale sia il beneficio non importa. Non so perché io abbia compiuto questa scelta; noi veniamo portati in certo modo a delle scelte. Personalmente, non so fino a che punto la mia vita possa essere utile agli altri. Tuttavia, le persone che incontro avvertono, credo, che io vivo in una dimensione diversa».

Quanto è difficile, Juri, seguire la strada del silenzio, in un mondo, in un tempo in cui il rumore sembra camminare insieme al vuoto?

«Per me non è difficile. C’è un motto secondo cui tu devi avere la capacità di mantenere il silenzio e la solitudine anche se vivi in una metropoli, anche se vai in una grande città. Io vivo in solitudine e silenzio alle pendici dell’Etna. È da 30 anni che sono qui da eremita, e prima sono stato per 11 anni in una comunità, in un monastero. Segui un cammino perché hai avuto delle indicazioni, è la vocazione. Io affronto con coraggio questa mia esperienza e sento che la provvidenza mi sta facendo percorrere un cammino. Allora non mi sento mai da solo, ma mi sento in comunione con la vita».

L’emancipazione dall’incubo delle passioni è il tuo punto in comune con Franco Battiato?

«Le passioni si staccano nel momento in cui hai un’esperienza spirituale. Franco ha avuto il suo percorso, io sto facendo il mio. Finché la passione resta un incubo, vuol dire che ancora ti condiziona. Emanciparsi dall’incubo delle passioni è un passo automatico che viene senza sforzo, quando ti dedichi seriamente alla meditazione, alla quiete mentale. Adesso bisognerebbe fare un discorso molto lungo, alla ricerca del sé, di quel sé che non è Dio ma è il sé di Meister Eckhart e di Ramana Maharshi,  
il sé che ti permette di esistere. Mi riferisco al silenzio, tu ci entri in contatto e basta una goccia di questo nettare e la vita diventa un’altra cosa. Quindi per me non è assolutamente difficile condurre una vita silenziosa. Anzi, a volte non capisco come possano gli altri vivere nel caos; certe volte mi chiedo come si faccia a vivere nella confusione, a non prendere le distanze dal rumore e dal disordine».

Quanto ti manca Franco Battiato? Per inciso, oggi si ascoltano indistintamente artisti come Battiato e De Andrè e cantanti di immagine come Achille Lauro e Rosa Chemical. Tutto e tutti sullo stesso piano, insomma, in nome dell’abbondanza delle merci, che poi viene ricompresa nel concetto di democrazia.

«Oggi non si ascolta più la musica, diventata un sottofondo per mangiare la pizza o per fare altro. Di Franco si sentono di solito i brani più commerciali, tipo “Bandiera bianca”. È difficile che si ascolti, per esempio, “L’oceano di silenzio”. Non riesco a quantificarti quanto mi manchi Franco. Eravamo molto in simbiosi e a volte mi sento solo, quando penso a lui. Se avverto il bisogno di parlare con qualcuno, allora Franco mi manca e come, anche se sono immerso in una solitudine mistica. Da un punto di vista artistico, poi, Franco ha lasciato un vuoto incolmabile».

Si ascolta soltanto se stessi, dunque?

«Non c’è più educazione all’ascolto, questo è il tema. L’educazione all’ascolto diventa, poi, anche educazione all’ascolto della musica. Nel presente la musica è perlopiù un sottofondo che si sente nei bar, nei supermercati e così via. Chi si mette ad ascoltare un corale di Bach? La gente non ha tempo; ormai c’è una frenesia totalizzante, perciò bisogna rallentare».

Fretta, rumore e confusione. Di contro, vita eremitica e ricerca del sé. Ma come si fa a tenere i rapporti con il mondo, a intervenire per cambiarlo, migliorarlo?

«Come potrei essere utile, con la mia vita, a questo mondo? Che segnali mando agli altri, io che vivo qui nella solitudine? Io vivo nella solitudine ma sento tutto il peso del mondo, e questo gli altri non lo sanno. Che cosa stanno facendo quelli che vivono insieme e conducono battaglie? Spesso, purtroppo, si fanno male tra di loro. Qual è la loro utilità? Dalle loro battaglie che cosa ricavano? C’è un detto di Evagrio Pontico secondo cui l’eremita è colui che vive separato da tutti ma è unito con tutti. Io sento il dramma del mondo e credo che questo sentire il dramma dell’umanità, in un certo qual modo, è come se mi portasse a neutralizzarlo in un’altra maniera, come se fossi una carta assorbente».

Cioè?

«Ci sono persone che si impegnano nella creazione del male e mettono disordine. Ci sono persone, invece, che, conducendo una vita tranquilla, cercano di equilibrare quel disordine. Noi a volte diamo forse un po’ tutto per scontato, a partire dai nostri gesti quotidiani. Ma c’è un universo che si esprime in molteplici facce. La vita è sempre un mistero, come lo è il problema delle guerre. C’è un passo biblico, di Isaia, in cui il Signore afferma di portare la pace e di scatenare anche la guerra. Secondo Gurdjieff, di cui conosci la filosofia, siamo come delle macchine. Allora il male nel mondo emerge perché, evidentemente, ci sono delle forze, delle entità che governano chi gestisce il potere. Perciò, siccome stiamo nel mistero, io vivo il mistero di questa esistenza sulle tracce che essa ha segnato per me. Ora, io non so in che maniera posso essere utile; penso che la mia vita possa essere anche inutile, ma sono anche a contatto con delle persone. Non ho la popolarità di Vasco Rossi ma, un po’ come santa Teresina del Bambino Gesù, sono una piccola fiammella che magari cerca di accenderne un’altra e così via».

Che cosa intendevi dire, nel tuo brano “Il sole nella pioggia”, cantato anche da Alice, con l’espressione «quelli che sanno le cose non parlano»?

«Il mistero della vita è talmente grande che tu, da un punto di vista razionale, non lo puoi esprimere mai. Non ci riesci perché non hai strumenti, non hai il vocabolario, ti manca la parola per dire ciò che effettivamente senti e vivi. La vita è un mistero insondabile. E la nostra Terra è un granellino di sabbia in una distesa sterminata di pianeti. Allora l’unica salvezza è meditare, ma senza arrivare a conclusioni filosofiche. Con la filosofia ci si può ingarbugliare; con la meditazione riusciamo a ottenere una mente tranquilla, serena, libera, capace di meravigliarsi della natura, dell’altro, dell’attimo. Ecco il senso della poesia, della vita, che dobbiamo recuperare. Lo scienziato vede una pesca e la analizza chimicamente. Il mistico, invece, la prende, la mangia e la gusta».

Qual è la tua speranza per il futuro comune?

«La mia speranza è legata a un pensiero, espresso in modi diversi da san Paolo, Sri Aurobindo e Pierre Teilhard de Chardin, che poi ho inserito nel brano “Il sole nella pioggia”. Mi riferisco alla frase «l’universo geme nelle doglie del parto». Ora, riguardo a questo universo, chiamiamolo Terra per semplificare, possiamo leggere un’evoluzione in atto, che include anche la guerra. Può darsi, cioè, che i fatti tragici stiano accadendo perché devono essere parte di una trasformazione profonda. La mia speranza è, dunque, che ci sia un mondo di pace. A volte, però, ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio. E non ho le risposte, ma mi sento come una formica che vive in questo mondo. Attenzione, per me si tratta di una condizione di crescita, ma mi cadono le braccia quando accendo il computer e vedo guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto».

Guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto che entrano nella musica?

«Certo. Tu prendi Sanremo, che io non guardo più da almeno 20 anni. Apri il computer e trovi subito le notizie del Festival, poi vai su YouTube e ascolti i brani, che con la musica non c’entrano più niente. Lì fai successo se crei scandalo con la tua immagine, se produci audience. La canzone è invece un orpello». (redazione@corrierecal.it)


Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco prima e seconda parte

Con questa piccola guida a puntate, che potrete ritagliare e conservare, vi daremo ogni settimana un consiglio pratico per mettervi al sicu...