da legge prima o dopo quiesta storia date vi per evitare casi becero populismo e scrivere \ dre cazzate alla salvini senza sapere il contesto e leggere il testo della legge
Essendo troppo piccolo per riportare una testimonianza diretta su tale episodio avvenuto nerl 1983 e sconosciuto ( infatti anch'io ignoravo lo appreso da un articolo uscito in questi giorni sula pagina della cultura \ speciale natale dell'unione sarsa , solo cartaceo l'online free non è prevvisto , ai più riporto alcuni articoli trovsato online .
Il prete che si è battuto per i diritti dei terroristi in carcere
La storia di Don Bussu, il prete giornalista che ha difeso i diritti dei carcerati, nell'intervista a Luciano Piras, autore del libro “I terroristi sono miei fratelli”
26 Apr. 2017
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Salvatore Bussu dalla rete |
A dicembre 1983 Giovanni Paolo II fa il suo ingresso nel carcere di Rebibbia per stringere la mano al suo attentatore, il turco Ali Agca. Lo stesso mese un umile prete di provincia, cappellano del carcere nuorese di Badu e’ carros, si autosospende dal suo mandato sacerdotale. Piccolo di statura ma gigante nel coraggio, Don Salvatore Bussu [ foto a destra ] viene da Ollollai, un piccolo paese all’interno della Sardegna, in provincia di Nuoro.Don Bussu si è schierato senza timore in difesa dei reclusi, che da tempo stanno attuando lo sciopero della fame. Oltre a essere un prete, è anche un giornalista, cosa che l’ha aiutato non poco nella sua battaglia. Quella del 1983 è la prima rivolta pacifica nella storia delle carceri italiane a denunciare le condizioni disumane in cui vivono i reclusi. Alcuni dei carcerati hanno un passato da brigatisti, come Franco Bonisoli e Alberto Franceschini. Il cappellano parla apertamente di “terrorismo di Stato”, facendo da catalizzatore per una tempesta di polemiche che fa addirittura intervenire l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli per attenuare il regime di massima sicurezza in cui i brigatisti sono reclusi.
Quella del 1983 è la prima rivolta pacifica nella storia delle carceri italiane a denunciare le condizioni disumane in cui vivono i reclusi. Alcuni dei carcerati hanno un passato da brigatisti, come Franco Bonisoli e Alberto Franceschini. Il cappellano parla apertamente di “terrorismo di Stato”, facendo da catalizzatore per una tempesta di polemiche che fa addirittura intervenire l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli per attenuare il regime di massima sicurezza in cui i brigatisti sono reclusi.
Il parlamento si mette a lavorare sul caso e arriva alla stesura della legge Gozzini, dando attuazione al dettato costituzionale che prevede il divieto di detenzione senza il rispetto dei diritti umani. Il provvedimento supera una legge del 1975, che prevedeva la possibilità di far prevalere esigenze di sicurezza sulle norme di rieducazione e di trattamento umano.
Le legge Gozzini diventa allora bersaglio di attacchi, così come lo stesso Don Bussu che la difende sempre a spada tratta. Con il gesto di schierarsi dalla parte dei brigatisti reclusi il sacerdote non vuole certo appoggiarne l’operato – cosa di cui spesso viene accusato – ma lottare per un trattamento degno di una società civile. Don Bussu cerca il giusto equilibrio fra la pena da scontare e l’aspetto rieducativo per il recluso, facendo leva sul concetto del perdono nella fede cristiana.
La vicenda è stata raccontata nel libro “I terroristi sono miei fratelli” di Luciano Piras, giornalista del quotidiano La Nuova Sardegna. Il titolo è provocatorio come le parole che il cappellano del carcere ha utilizzato per manifestare la sua posizione. Il libro ricostruisce la storia con l’aiuto dello stesso Don Bussu.
Quanto è stata decisiva la battaglia di Don Bussu nella riforma carceraria italiana?
Dire che la battaglia di un umile prete della periferia sarda è stata decisiva, può sembrare un’ esagerazione. Eppure, quella lontana e clamorosa “rivolta” partita da Nuoro è stata determinante nella storia d’Italia, tant’è che ha segnato il definitivo tramonto del vecchio ordinamento penitenziario fermo al 1975, anche se ormai nessuno sembra più ricordarsene.
Era stato lo stesso senatore Mario Gozzini, padre della riforma del 1986, del resto, a sottolineare che gli scioperi della fame nel supercarcere di Badu ‘e Carros e il cosiddetto “sciopero della messa” del cappellano don Salvatore Bussu segnarono uno spartiacque nella vita carceraria: prime rivolte, salite sui tetti, violenze anche estreme; dopo, simili fatti sono diventati rarissimi. Tant’è vero che il parlamento dimostrò presto di aver recepito la “sollecitazione” arrivata dalla Barbagia.
Don Bussu è stato inizialmente visto dalle istituzioni sia politiche che clericali come un ingombrante peso. Va inoltre aggiunto che allora non si avevano certo gli stessi mezzi di comunicazione di oggi per poter promuovere una simile battaglia. Quali sono i suoi meriti nell’essere stato persuasivo e abile anche nella comunicazione?
Ingombrante? Mite e pacifico, persino timido, ieri come ancora oggi, don Bussu è stato addirittura additato come sovversivo. È stato bollato come “il cappellano delle Br”… roba da matti! Ha avuto comunque la fortuna di avere dalla sua parte un grande vescovo, monsignor Giovanni Melis, che non condivise le “dimissioni” di don Bussu, e soprattutto non condivise le parole dirompenti che don Bussu usò per “dimettersi” da cappellano, ma lo sostenne ugualmente perché certo che il suo prete agiva in pace con la coscienza, da vero cristiano senza steccati.
Ma se è vero che don Bussu è un prete che ha avuto una parte non marginale nella sconfitta del terrorismo italiano (Gozzini lo ha ribadito più volte), altrettanto vero è che don Bussu è battagliero nato, direttore del settimanale diocesano L’Ortobene. Un giornalista inquieto per Cristo, che proprio per questo ha saputo usare uno dei più popolari e diffusi canali di comunicazione di massa di allora: l’agenzia Ansa.
È all’Ansa che consegnò la sua lettera di dimissioni, è l’Ansa che spinse la notizia ovunque. Sempre attento al mondo dell’informazione, probabilmente oggi don Bussu affiderebbe quella sua lettera ai social, a Facebook… anzi, no… credo che si affiderebbe più a Twitter.
Da uomo di Chiesa Don Bussu si è spesso appellato alla laicità della Costituizione italiana, che prevede che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quanto nella pratica oggi un carcere italiano può garantire questo diritto costituzionale?
Purtroppo l’Italia, quanto a sistema penitenziario, è ancora ferma allo stato delle caverne. Le violazioni dei diritti umani nelle carceri italiane sono quotidiane. Violazioni della legalità accertate in giudizio anche davanti a corti interne, tanto che ormai si parla di una giurisprudenza costante. E non sono io a dirlo, sia chiaro: sono gli stessi dati ufficiali del ministero della Giustizia, a testimoniarlo, e – cosa ancora più grave – le ripetute sentenze di condanna inflitte allo Stato italiano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte di Strasburgo ha detto più volte che il primo colpevole, spesso, è lo stato che costringe i detenuti a scontare pene inumane e illegittime. Diversi sono i casi emblematici che fanno della Repubblica italiana uno stato “fuori norma” e parecchio lontano dal rispetto dei diritti fondamentali della persona e dagli impegni assunti formalmente con la sottoscrizione di atti e convenzioni internazionali.
Ancora oggi, dunque, le carceri italiane presentano standard molto bassi. Spesso la Corte di Strasburgo ne ha evidenziato la gravità. Qual è lo stato delle carceri italiane adesso rispetto agli altri paesi?
In una parola: pessimo. Basti pensare che appena qualche anno fa, mentre nella Repubblica Ceca la percentuale dei detenuti in attesa di primo giudizio era ferma all’11 per cento, in Italia toccava la soglia del 42 per cento. Una vera e propria cancrena che lascia l’Italia indietro rispetto al resto dell’Europa e al mondo occidentale.
Una misura eccezionale – la “custodia cautelare” o “detenzione preventiva” – che invece diventa sistematica, “perché in Italia non si riesce a concludere i processi in tempi ragionevoli”, come denunciava già nel 1991 Mario Gozzini. Significa che oggi quasi il 20 per cento dei detenuti è in carcere da innocente, visto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, come recita l’articolo 27 della Costituzione repubblicana.
Che uomo è oggi Don Bussu? Si sente ancora, nonostante l’età, un combattente sacerdote?
Don Bussu resta il leone di sempre, anche se “la vecchiaia avanza e le forze non sono più quelle di prima”, scherza con la sua tipica autoironia. A quasi novant’anni, dopo essersi ritirato dalla vita pubblica è in cerca del meritato riposo. Ma è comunque sempre pronto a rifare quello che ha fatto, se ci dovessero essere le stesse condizioni di quel Natale 1983, quando uscì dal supercarcere nuorese di Badu ‘e Carros sbattendo i cancelli, mentre quasi in contemporanea papa Wojtyla entrava in una cella di Rebibbia per visitare il suo attentatore Alì Agca.
A dihttps://www.tpi.it/2017/04/26/salvatore-bussu-prete-lotta-diritti-terroristi-carcere/#r a don Salvatore Bussu cappellano del supercarcere Badu ‘e Carros dal 1981 al 1984 e autore del libro “Un prete e i terroristi. Attraverso Badu ‘e Carros un viaggio nel mondo dell’eversione” qui http://iltaccuinodellevoci.blogspot.it/2014/10/un-prete-e-i-terroristi-di-salvatore.html un ottima recensione con alcuni estratti . E gli articoli della nuova sardegna del
07 gennaio 2004
«Vogliamo riappropriarci della nostra dignità di uomini»
NUORO
.Domenica 11 dicembre 1983. Don Bussu, cappellano a Badu 'e carros da appena due anni, ha un colloquio con sei detenuti politici. Sono stati loro, Alberto Franceschini, Claudio Pavese, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, capi dele Brigate rosse rinchiusi nel carcere speciale, a chiedere l'incontro. Gli annunciano di avere cominciato tre giorni prima uno sciopero della fame: «Non vogliamo semplicemente protestare contro le disumane condizioni di esistenza cui ci costringono, e che tu ben conosci perchè le devi sperimentare anche sulla tua persona quando ti viene persino impedito di entrare in sezione a parlare con noi - gli spiegano -. Con questa scelta vogliamo innanzitutto riappropriarci di qualcosa che ci appartiene in modo veramente inalienabile: la nostra identità di uomini, la nostra vita vera, profonda». Qualche giorno più avanti si affiancò a loro anche Giuseppe Federigi.
Don Bussu prova con insistenza a farli desistere, senza successo. Sollecita l'intervento del vescovo Giovanni Melis, che si impegna senza riserve. Parla con Franceschini ma ottiene un cordiale e deciso rifiuto: lo sciopero andrà avanti anche a costo della vita. Dopo la messa della vigilia di Natale il cappellano torna a casa: «Furono ore terribili, dovevo fare qualcosa, a tutti i costi». La decisione fu immediata, impetuosa. Scrisse una lettera di fuoco che mise a rumore l'Italia: «Mentre dei miei fratelli - perchè tali me li sento, chiunque essi siano e qualunque reato abbiano commesso - muoiono lentamente, non posso continuare a esercitare il mio ministero a pochi passi di distanza, come se nulla stia avvenendo. Da oggi perciò interrompo il mio servizio pastorale a Badu 'e carros». Fu subito un caso nazionale e soprattutto politico. Si apri la strada alla modifica dell'articolo 90 della legge di riforma delle carceri del 1975 (l'approdo sarà la legge Gozzini), che fu all'origine del malessere e dello sciopero poichè prevedeva l'isolamento totale della struttura penitenziaria in caso di particolari esigenze di sicurezza.
Badu 'e carros, inaugurato nel settembre del 1969 cominciò nel '77 a ospitare i nomi più importanti del terrorismo. Nell '80 fu teatro di una rivolta guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene.
e del 14\4\2008
«Vogliamo riappropriarci della nostra dignità di uomini»NUORO.Domenica 11 dicembre 1983. Don Bussu, cappellano a Badu 'e carros da appena due anni, ha un colloquio con sei detenuti politici. Sono stati loro, Alberto Franceschini, Claudio Pavese, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, capi dele Brigate rosse rinchiusi nel carcere speciale, a chiedere l'incontro. Gli annunciano di avere cominciato tre giorni prima uno sciopero della fame: «Non vogliamo semplicemente protestare contro le disumane condizioni di esistenza cui ci costringono, e che tu ben conosci perchè le devi sperimentare anche sulla tua persona quando ti viene persino impedito di entrare in sezione a parlare con noi - gli spiegano -. Con questa scelta vogliamo innanzitutto riappropriarci di qualcosa che ci appartiene in modo veramente inalienabile: la nostra identità di uomini, la nostra vita vera, profonda». Qualche giorno più avanti si affiancò a loro anche Giuseppe Federigi.
Don Bussu prova con insistenza a farli desistere, senza successo. Sollecita l'intervento del vescovo Giovanni Melis, che si impegna senza riserve. Parla con Franceschini ma ottiene un cordiale e deciso rifiuto: lo sciopero andrà avanti anche a costo della vita. Dopo la messa della vigilia di Natale il cappellano torna a casa: «Furono ore terribili, dovevo fare qualcosa, a tutti i costi». La decisione fu immediata, impetuosa. Scrisse una lettera di fuoco che mise a rumore l'Italia: «Mentre dei miei fratelli - perchè tali me li sento, chiunque essi siano e qualunque reato abbiano commesso - muoiono lentamente, non posso continuare a esercitare il mio ministero a pochi passi di distanza, come se nulla stia avvenendo. Da oggi perciò interrompo il mio servizio pastorale a Badu 'e carros». Fu subito un caso nazionale e soprattutto politico. Si apri la strada alla modifica dell'articolo 90 della legge di riforma delle carceri del 1975 (l'approdo sarà la legge Gozzini), che fu all'origine del malessere e dello sciopero poichè prevedeva l'isolamento totale della struttura penitenziaria in caso di particolari esigenze di sicurezza.
Badu 'e carros, inaugurato nel settembre del 1969 cominciò nel '77 a ospitare i nomi più importanti del terrorismo. Nell '80 fu teatro di una rivolta guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene.
Quando don Bussu chiamò «fratelli» le Br
Testardo, don Bussu. Nella rossa Reggio Emilia c'erano i Nomadi e Pierangelo Bertoli decisi a mettere in piedi un megaconcerto pur di portare alla ribalta pubblica la brutalità del regime carcerario cui erano costretti i brigatisti detenuti: l'arcivescovo della città, Camillo Ruini, tuttavia, condannò aspramente l'iniziativa e il progetto musicale mori sul nascere. A Nuoro, invece, il cappellano di Badu 'e Carros, don Salvatore Bussu, andò avanti come un trattore, ascoltò soltanto la voce della sua coscienza di uomo e di prete, chiamò i terroristi «miei fratelli» e per loro usci allo scoperto provocando un ciclone talmente potente che costrinse il ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli ad intervenire.
«Quel giorno don Salvatore non se la sentiva di dire messa come se niente fosse. Era il giorno di Natale del 1983. Con il suo vescovo, monsignor Giovanni Melis, aveva parlato a lungo di ciò che stava accadendo a Badu 'e Carros, il supercarcere di Nuoro, di cui era cappellano. Sei e poi sette brigatisti avevano cominciato lo sciopero della fame». È cosi che prende avvio la ricostruzione della prima rivolta pacifica nella storia dei penitenziari italiani.
«In passato le rivolte erano sempre state molto accese, con uso di bombe artigianali, esplosivi, con scontri diretti, feriti e qualche morto» scrive Annachiara Valle nel suo libro appena uscito con la Rizzoli, 'Parole, opere e omissioni. La Chiesa nell'Italia degli anni di piombo" (266 pagine, 17 euro). «Adesso, invece - prosegue l'autrice, giornalista di Jesus e collaboratrice di Famiglia Cristiana -, si sceglie una via diversa e, due giorni dopo l'ultimo incontro tra Franceschini, Bonisoli e il cappellano, il 7 dicembre, comincia lo sciopero della fame». Alberto Franceschini e Francesco Bonisoli non erano due detenuti qualsiasi: il primo era considerato lo stratega del terrorismo rosso, capo incontrastato delle Br, assieme a Renato Curcio; il secondo era stato nel comitato esecutivo che gesti il rapimento di Aldo Moro. Nati entrambi a Reggio Emilia, venticinque anni fa sia Franceschini sia Bonisoli erano rinchiusi nelle celle del 'braccetto della morte" di Badu 'e Carros. E con loro c'erano tanti altri terroristi della vecchia e della nuova guardia.
Giovani sottoposti a un regime speciale che don Bussu non esitò a bollare come «terrorismo di Stato, non meno condannabile del terrorismo delle Brigate rosse». È questa frase che scatenò il putiferio. È grazie a questa frase, tuttavia, che il Parlamento accelerò la discussione della riforma, arrivata poi con la Legge Gozzini. Avvenimento, quello nuorese, che Annachiara Valle focalizza nel quinto capitolo del suo libro freschissimo di stampa. Avvenimento emblematico e decisivo, nel più vasto panorama del ruolo assunto dalla Chiesa nella triste stagione della lotta armata e nella confusione che ne derivò negli anni seguenti. Una testimonianza coraggiosa, quella di don Bussu cappellano, che la Valle giustamente inserisce nella sua inchiesta, un viaggio spesso doloroso tra i conflitti e le lacerazioni che misero alla prova la tenuta dello Stato democratico e che soprattutto durante il sequestro Moro non risparmiarono neppure gli ambienti ecclesiastici.
«Specchio del mondo che la circondava, la Chiesa accoglieva in sé una pluralità di anime, diverse per sensibilità e visione strategica, e alternava aperture e arrocamenti, rigore e coraggiosa disponibilità all'ascolto». Da un lato le alte gerarchie mediarono tra lo Stato e le Br per il rilascio del giudice genovese Mario Sossi, dall'altro invece sposarono la linea della fermezza nel caso di Aldo Moro. Sul fronte delle parrocchie, intanto, non si fermò mai e poi mai l'opera instancabile e magari silenziosa di sacerdoti semplici come padre Ernesto Balducci o don Salvatore Bussu. «Sono certo - ha raccontato Bonisoli ad Annachiara Valle - che la storia del terrorismo sarebbe stata diversa se a Badu 'e Carros, e in tante altre carceri italiane, non ci fosse stato qualcuno in grado di accogliere il nostro grido e di trasformarlo in positivo».
Luciano Piras