Lo so che come dice la mia vecchia dovrei essere modestia . Ma ci sono anche dei casi , come questo , in cui si dicono cose ovvie ( a chiunque ) basta vedere un tg o aprire un giornale o farsi un giro per la rete e per i social per accorgesene \ per rendersene conto . Niente di nuovo sotto il sole quindi non è una novità .E ' dal 1948 ( quel periodo che va sotto l'orripilante espressione prima repubblica ) fino ad essso , salvo alcune scosse che rischiamo fra alti e bassi , sangue e bombe che rischiamo la svolta autoritarià . Non è che quello del giurista Rodotà sarà l'ennessimo , come lo definicono molti , al lupo al lupo ?
( .. ) noi siamo tutti in fila davanti al bagno,
e noi siamo tutti in fila davanti a un segno,
e noi siamo tutti al fiume a trasformare l'oro in stagno.
Ma prima di aver finito faremo un buco nell'infinito
e accetteremo l'invito a cena dell'Uomo Ragno.
(....)
La ballata dell'uomo ragno di Francesco de Gregori ( testo )
Mi chiedo ma ci voleva un rodotà a dircelo ? E che siamo stanchi e sfiduciati di scendere in piazza e allora ci rifugiamo \ ci sfoghiamo nel web e ( non è il mio caso ) nel reflusso come abbiamo fatto negli annni 80\90 e poi dopo il 2007 con il berlusconismo . Aspettando , come la strofa sopra , un altro 25 luglio e il prossimo governo badoglio
da la nuova sardegna del 1\5\ 2014
Potere
concentrato al vertice, meno controllo e indebolimento degli istituti
di garanzia: così riduciamo gli spazi della democrazia
di Costantino Cossu
Come con le parole si costruisce il diritto e come
il diritto costruisce le parole. Un doppio canale attraverso il quale,
se le cose funzionano, l’attività legislativa su cui si fonda la vita di
una comunità definisce un quadro normativo capace di rispondere alle
esigenze dei singoli e dell’intera collettività. Oggi però sempre di
meno le cose funzionano, con effetti negativi che sono sotto gli occhi
di tutti. “Parole e diritto” è il tema dell’incontro che sabato
prossimo, al Festival della filosofia di Cagliari, vedrà protagonista
Stefano Rodotà, giurista da sempre impegnato sul fronte della politica. E
proprio sul filo del rapporto tra cultura (giuridica ma non solo) e
politica si snoda il colloquio con Rodotà in
attesa dell’appuntamento
cagliaritano. Professor Rodotà, come si configura oggi il rapporto tra
linguaggio e diritto? «Il diritto è una forma di linguaggio che può
essere adoperata in maniera ambivalente: per rispecchiare la realtà
oppure per occultarla; per sistematizzare un corpo di norme aderente
agli interessi collettivi, oppure per favorire interessi corporativi o
comunque di parte, se non addirittura personali. Quest’ultima
eventualità è più facile che si realizzi se passa, per carenza di
competenze giuridiche o per strategia voluta, la logica che le leggi
siano confuse, non chiare, non immediatamente interpretabili». Lei si
rifà a una tradizione, quella illuministica, secondo la quale il diritto
deve essere comprensibile da tutti. Oggi è così? «La immediata
comprensibilità delle norme giuridiche è uno dei passaggi fondamentali
attraverso i quali si è definita la modernità. Il diritto deve essere un
linguaggio accessibile non solo sul piano strettamente materiale
(disponibilità effettiva dei codici) ma anche sul piano della
interpretazione. Stendhal, in una lettera indirizzata a Balzac mentre
vergava le pagine di quel grande capolavoro che è “La Certosa di Parma”,
annota: “Per trovare il tono giusto alla mia scrittura leggo ogni
mattina due o tre pagine del Codice civile”. Ecco: ci possono essere
testi normativi immediatamente comprensibili come quello di un romanzo
realistico alla Stendhal, stilisticamente accettabili e nei quali si
ritrova, tutta intera, la realtà». C’è però un altro modo di usare il
linguaggio del diritto, un modo che c’entra poco con la chiarezza della
Ragione cara alla cultura illuminista di matrice francese… «Sì. Come
dicevo, il diritto può essere usato anche per nascondere la realtà, per
manipolarla secondo fini che con la natura del diritto medesimo non
hanno niente a che fare. Ciò può accadere, ad esempio, per difetto di
tecnica. E in questo caso l’effetto perverso può, ovviamente, anche non
essere intenzionale. Mi spiego: se voglio redigere una norma che sia,
come sempre dev’essere a termini di diritto, generale ed astratta, devo
essere capace, tecnicamente, di scriverla in modo da comprendere nel
testo situazioni che possono essere, tra loro, molto diverse. Se non
sono in grado di fare questo, posso anche arrivare a redigere non una
norma generale ed astratta valida per tutti, ma una legge valida per
pochi, se non addirittura “ad personam”. Poi c’è un’altra maniera, che
presuppone una intenzionalità: io voglio deliberatamente rendere poco
comprensibile la legge al comune cittadino per riservarne la
comprensione a una casta di sacerdoti del diritto, i quali saranno i
soli che potranno dire qual è il significato della legge. Con due
vantaggi, per i sacerdoti: uno di potere e l’altro, come è facile
intendere, economico». Un secondo aspetto del rapporto tra parole e
diritto riguarda il modo in cui il diritto considera le parole. «Anche
su questo aspetto vorrei fare un riferimento concreto. L’articolo 21
della Costituzione garantisce la libertà di manifestazione del pensiero.
Il diritto diventa lo strumento grazie al quale la parola, la libera
manifestazione del pensiero, viene tutelata come un diritto fondamentale
della persona. Come sappiamo, però, questo diritto non è assoluto, può
essere vincolato a dei limiti. E qui si apre tutta una serie di
questioni oggi particolarmente vive. La libertà di parola, ad esempio,
si confronta con il divieto alla diffamazione: il mio diritto limitato
dai i diritti di altri soggetti. Ma poi c’è il problema più generale del
diritto al dissenso, che è molto complicato. Quali sono i confini entro
i quali il dissenso può essere manifestato? Pensiamo al linguaggio
dell’odio nei confronti delle donne, degli ebrei, dei neri, degli
omosessuali. Sino a che punto si può considerare che queste forme
violente di linguaggio rientrino nel diritto al dissenso? Non è una
questione pacifica. Negli Stati Uniti ci sono sentenze che legittimano
anche queste tipologie estreme del diritto alla libera manifestazione
del pensiero. Un altro ambito di possibile limitazione della libertà di
parola è il negazionismo storico. Come si vede, tutte questioni aperte”.
A proposito di dissenso, lei è tra i firmatari di un manifesto contro
le riforme istituzionali messe in cantiere dal governo in carica. Un
documento che si intitola “Verso una svolta autoritaria”. Renzi
liberticida? «Qui dal rapporto tra parole e diritto ci spostiamo al modo
in cui si sta tentando, nel nostro Paese, di cambiare l’assetto
costituzionale. Se io strutturo un sistema istituzionale, come c’è il
concretissimo rischio che accada oggi in Italia, prevedendo una
concentrazione di potere al vertice, indebolendo norme e istituti di
controllo e di garanzia, eliminando gli equilibri tra poteri, sto
facendo un’operazione che non è neutra rispetto al grado di agibilità
degli spazi della democrazia. La parola autoritarismo può impressionare.
E però, ci sono varie forme di autoritarismo. Non c’è solo quello che
abbiamo conosciuto durante il ventennio fascista. Anche ridurre gli
spazi della democrazia significa praticare una forma di autoritarismo.
Ma c’è, oltre al merito, una questione di metodo: autoritarismo è
quando, di fronte ad un progetto di riforma costituzionale molto
discutibile, alle critiche si risponde con un drastico e ultimativo
“prendere o lasciare”. Non c’è margine per la discussione, il confronto
disturba il manovratore e tutto ciò che è pensiero critico viene espulso
dal dibattito politico. Uno dei caratteri fondativi della democrazia è
il dialogo. Posso non essere d’accordo con le tue opinioni, ma sono
tenuto a discuterne, a prenderle in considerazione, non mi posso negare
al confronto. Quando, come oggi accade, queste premesse sono cancellate,
c’è un pericoloso slittamento verso una tentazione autoritaria».
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