chiedo scusa se è in foto non ho troppi impegni e non ho tempo per estrapolarne il testo dal pdf
compagni e compagne di strada e di viaggio ex compagni di viaggio ( splinder )
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
7.11.24
6.11.24
«Sono l'ultima abitante del paese dove sono nata. Vivo all'antica, coi gatti, senza gas né elettrodomestici. Ma non mi sento sola»
procurarsi da mangiare impiega due ore a piedi. Anna vive nel paese per tutto l'anno, anche durante l'inverno, nonostante i mille metri di altezza. A farle compagnia ci sono solo i gatti, Anna è sola ma non le manca nulla. La donna ha parlato a la Repubblica della sua scelta di vita. Non ha mai voluto abbandonare il luogo in cui è nata: una decisione forse d'altri tempi, senza dubbio romantica e particolare visto che a Mossale oltre a lei stessa non c'è niente e nessuno. Ha superato i 70 anni, ma la sua forza sembra inesauribile.
La vita nel bosco
«Io sono nata qui e sono sempre voluta restare, ma in inverno è dura. In inverno qui non si fa mica niente, bisogna solo farsi il fuoco per scaldarsi. Se mi serve qualcosa, a volte vado a Bosco di Corniglio», ha detto Anna. I suoi spostamenti avvengono esclusivamente a piedi: «Vado piano, sono vecchia, e mi ci vogliono due ore per arrivare. Se però passa qualcuno che mi conosce, allora mi prende su in macchina. C’è l’uomo che porta il pane, ad esempio: magro, alto, dal cuore proprio buono. Lui se mi vede per la strada mi accompagna al bosco. Ogni volta gli dico che vorrei pagargli il disturbo ma mi dice sempre di no, che non vuole nulla. Per fare spesa aspetto un camioncino che arriva da Aulla. Mi porta tutto: pane, pasta, zucchero, frutta e verdura. Ormai non coltivo più l’orto: c’è da tribolare, non ce la faccio. Il tempo non mi manca. Ho bisogno di poco, vivo all’antica».
Niente gas ed elettrodomestici
In casa non ha gas, elettrodomestici e nessun altro tipo di comfort che per tutti può definirsi scontato. Anna vive all'antica: «Avevamo un televisore ma si è rotto e non lo abbiamo mai fatto aggiustare. Vede quel fascio di rami lì a terra? L’ho messo insieme stamattina. Sono pesanti perché sono ancora bagnati ma li ho presi lo stesso tanto poi si asciugano e si adoperano». L'elettricità in casa c'è ma a causa dei temporali non è mai utilizzabile. A quel punto a fare luce sono le candele, le stelle e la luna. Per cucinare utilizza una stufa a legna.
La villeggiatura in estate
Anna ha raccontato come in estate nel borgo di Mossale Superiore ci sia vita, molte persone decidono di trascorrere qualche giorno immersi nella natura, prima di fare rientro in città: «A settembre iniziano ad andare via tutti, chi va a Milano, chi a Varese, chi a Parma. Anche quest’anno, gli ultimi ad andare via sono stati gli inglesi. In estate il paese si riempie e torna vivo, un po’ come quando ero piccola».
L'infanzia
Ad Anna viene chiesto quali sono i suoi ricordi d'infanzia a Mossale, quando il borgo era ancora popolato: «Una volta qui avevamo le mucche, veniva il cascinaio a prendere il latte per portarlo giù al caseificio. Da bambina sapevo badare alle mucche e facevamo il formaggio. Non è facile, bisogna essere capaci. Quando ero piccola andavo a scuola a piedi, giù a Mossale inferiore: eravamo un gruppetto di quattro o cinque bambini, partivamo presto al mattino per arrivare in tempo alle lezioni. Dopo scuola, c’era la refezione, ci davano a tutti il pranzo, poi si andava a dottrina. Eravamo liberi, stavamo fuori tutto il giorno: sono ricordi belli. Ma anche se sono rimasta da sola, non mi sento sola: mi perdo nel fare tante cose e tiro avanti. A volte mi dicono di prendere un cane. Ma un cane no, non lo voglio, perché dovrei badarci e non ce la faccio. E poi, proprio sola non sono: vede, loro stanno sempre con me, mi vengono sempre dietro queste due bestioline», dice riferendosi a dei gatti.
che abbia vinto Trump o Kamala per la sardegna e le sue basi non cambierà niente
L'UNIONE SARDA.IT
INCHIESTA
06 novembre 2024 alle 13:43aggiornato il 06 novembre 2024 alle 13:44
Sardegna-Usa, storie di misteri & top secretDal mancato sbarco del 1943 alle servitù militari americane di ieri, oggi e domani in terra sarda: gli States ad un bivio
(foto L'Unione Sarda)
Efisio Marras, classe 1888, cagliaritano doc, non era un militare qualunque. Per la storia, quella dimenticata, è lui il primo grande depositario dei tanti misteri della lunga e segreta storia sardo-americana di questi ultimi 80 anni. Sconosciuto e riservato, indomito mediatore e implacabile Generale dell’Esercito italiano. Uomo capace di scalare le diplomazie più irrequiete del pianeta, da quelle di Berlino sino a Washington.
Marras story
Dopo il 25 luglio del 1943 fu Pietro Badoglio, capo del Governo italiano, a spedire il sardo dimenticato da tutti, a rassicurare Adolf Hitler sulla “volontà” del Governo di Roma di non fermare la guerra. Non fu un colloquio facile, quello del 30 luglio del ‘43. Gli appunti di Marras parlano di un incontro interlocutorio, sino al vertice sul Tarvisio, il 6 agosto successivo. Partecipano i Ministri degli Esteri e i Capi di Stato maggiore italiani e tedeschi. Al tavolo c’è anche Efisio Marras, il Generale di Cagliari. È sera, l’8 settembre del 1943, quando la radio diffonde la notizia: è armistizio tra l’Italia e gli Alleati. Tutto o quasi di quegli incontri a Berlino finisce in cenere. Il dieci settembre il personale dell’ambasciata a Berlino viene internato a Garmisch-Partenkirchen. Marras no, durante il trasbordo ad arrestarlo è direttamente la “terribile” Gestapo. Viene, per modo di dire, “processato” e spedito senza troppi convenevoli nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Resta lì fino al 31 marzo 1944 quando, poi, finisce nelle mani della “Repubblica sociale italiana”. Il 25 agosto, però, evade. Si dà alla clandestinità, sino alla fine delle ostilità. Nell’Italia devastata dalla guerra il suo posto è alla guida dell’Esercito, come Capo di Stato maggiore, ma non solo.
Washington
È ottobre del 1948 quando i vertici della Difesa gli affidano due missioni estere destinate a segnare inesorabilmente la storia sardo-americana, quella passata e la cronaca moderna dei giorni nostri. Il primo viaggio è in una Germania post bellica, spedito nella terra che fu di Hitler a discutere direttamente con le forze americane d’occupazione. La seconda missione è quella più sconosciuta e segreta. A dicembre del 1948 Efisio Marras raggiunge Washington, con un doppio mandato: aprire le trattative con gli Stati Uniti per governare la fase "post-bellica” e partecipare, in qualità di delegato, al Consiglio Atlantico. Il vertice più delicato, però, è al Pentagono.
Patto segreto
ADGSE Italia consegna uno stabilimento per la produzione di vetroGSE Italia
In quel momento, Marras, è il numero uno della Difesa italiana. È il più riservato, il più schivo, l’unico a cui viene affidato un incarico che segnerà per sempre il rapporto militare “sardo-americano" e il patto “segreto” tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia. È lui che deve registrare le “pretese” americane in terra sarda e non solo. C’è da “regolare” i conti, economici e militari, dopo il sostegno degli Usa alla liberazione. Il suo compito, quello del Generale di Cagliari, è ascoltare e registrare, capire e mediare. In ballo ci sono le ambizioni statunitensi in terra sarda, le mire egemoniche nel Mediterraneo, la pretesa stabilità occidentale.
Trattativa
Tutto da sottoscrivere con un contratto destinato a segnare per sempre la storia del Bel Paese: «Patto Atlantico». L’apporto degli Stati Uniti alla ricostruzione delle forze armate italiane divenne decisivo: con l’adesione alla Nato, si passò dalle regole di ingaggio britanniche, adottate per necessità nel 1944, a quelle degli States.
Pretese Usa
A discutere per primo gli assetti americani nel sud Europa, Sardegna prima di tutto, c’è il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Efisio Marras. Il compito è tutto suo: gestire le prime rivendicazioni degli Usa nella gestione militare degli eserciti occidentali, a partire da quello italiano. Non una partita secondaria, visto che gli stessi americani temevano, nonostante si ritenessero i salvatori della Patria, le reazioni delle popolazioni agli insediamenti degli States sul suolo sardo e italiano.
Basi sarde
Marras registra i capisaldi delle pretese americane: «prosieguo dei diritti acquisiti dagli Stati Uniti in base agli accordi precedenti; immediata concessione di diritti aggiuntivi con la realizzazione di una linea di comunicazione dal Tirreno al confine nordorientale in appoggio alle truppe di occupazione in Austria e a Trieste; diritti da acquisire in futuro». Si parlò anche di denari, con accordi finanziari da stipulare subito dopo l’eventuale intesa strategica con il Governo Italiano. Insomma, gli americani volevano anche soldi per posizionare basi militari sul suolo italiano. Registra Marras: «basi e strutture militari degli Stati Uniti in Italia, compresa l’installazione e il mantenimento, sarebbero dipesi direttamente dal finanziamento italiano». È lì che scattò l’operazione “servitù militari” in Sardegna. Dopo i colloqui di Washington partì la ricognizione terrestre nell’Isola e non solo.
Nato & Usa
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L’obiettivo era esplicito: individuazione di siti adeguati alla costruzione di installazioni militari. Da quel momento saranno i Governi a trattare, con una postilla annotata nelle carte “segrete”: il Governo italiano preferisce che le basi siano in capo alla Nato e non direttamente agli Stati Uniti. Non solo una formalità. Non cambia, però, il risultato. La Sardegna è terra di conquista. Politicamente debole, isolata, centrale nel Mediterraneo, incapace di creare troppi problemi a chi deve decidere. Gli Usa del resto la conoscevano bene, anche militarmente: nei documenti angloamericani per la conquista dell’Isola, nella seconda guerra mondiale, il ruolo della Sardegna era chiaro, anche se il tutto si fermò alla teoria. Furono gli Usa a pianificare, già dalla fine del 1940, con l’operazione Yorker, l’occupazione militare dell’intera Isola. Arrivò, poi, il “Piano Garotter”, per occupare Cagliari, ma anche in questo caso il tutto si fermò. Infine, sempre loro, progettarono il “falso” sbarco nell’Isola con l’operazione Brimstone nel 1942. Ovviamente, non se ne fece niente.
81 anni dopo
Il pallino dell’Isola da conquistare, però, resistette: il 20 ottobre 1954 Mario Scelba, Ministro dell'Interno e Presidente del Consiglio dei Ministri, firma l'Accordo Bilaterale sulle Infrastrutture (BIA ) con gli Stati Uniti d’America. Un patto “segreto” per gestire e costruire basi militari Nato e Usa in Italia, in Sardegna soprattutto. Ieri come oggi, tutto top secret, salvo qualche concessione dopo la strage del Cermis. Da domani quel patto segreto, con le clausole di ampliamento, a partire dagli F35 capaci di caricare bombe nucleari in arrivo a Decimomannu, sarà nelle mani del 47° Presidente degli Stati Uniti d’America. Il futuro dell’Isola, ora come non mai, passa ancora una volta da Washington, come ottantuno anni fa. Ad ascoltare le pretese degli States questa volta, però, non ci sarà Efisio Marras.
Annalisa Zirattu Reni e il make-up sui cari estinti «Così li trucco per l’ultimo viaggio» Parla lunica tanatoesteta del nord Sardegna ., il bellissimo gesto di Pecco Bagnaia .,
concludo con questo post preso non ricordo l'account \ pagina fb , ho problemi con quasi tutti i social di meta ( facebok , tick tock , whatsapp , istangram , Threads ) in questi giorni
5.11.24
non so chi è peggio tra trap e neomelodici ( ovviamente senza generalizzare ) "Frat'mio", "Lione", "Amo'": i post che esaltano gli omicidi, a Napoli, e le armi «facili» nelle mani dei ragazzi
Ai ragazzini protagonisti di questo crimine senza clan né boss che sta facendo piangere Napoli, ragazzini che vivono nei social con le loro pose caricaturali da trapper sfigati, basta solo avercelo il ferro, estensione mortale di un coraggio che non hanno, perché nemmeno a botte sanno fare, alzano le mani soltanto se sono in gruppo contro uno. Altrimenti fanno tre passi indietro, come Francesco Pio Valda sul lungomare di Mergellina, o si mettono al riparo in macchina, come il diciassettenne che l’altra sera ha ucciso Santo Romano. E quando si sentono al sicuro sparano. E uccidono chi capita. Uno che sta lontano per i fatti suoi, uno che è a due metri ma non ha alcuna intenzione di litigare.
- Giuseppe Scanoma perchè devi buttare in politica il disagio gioanile non ha partito ed ideologia politica . e ci coinvolge tutti nessuno escluso
Eros Socal, il funerale all'alba del pasticcere (come voleva lui): «Così verrà solo solo chi ci tiene veramente»
LA PASSIONE
Ma Socal era anche un motociclista appassionato: amava solo i motori italiani e in particolare la Ducati e la Guzzi. «È stato tra i primi amatori, negli anni 70, a raggiungere Capo Nord con la moto. Ci raccontava che faceva freddo e per migliaia chilometri non trovavano anima viva» racconta la famiglia. Persino il viaggio di nozze l’aveva fatto in moto. «Eros era anche un nonno premuroso e attento, che accudiva spesso i due nipotini. In paese aveva avuto un ruolo nel consiglio pastorale e alle Opere Pie, ma aveva fatto parte anche della Protezione civile. «Un enorme dispiacere per tutta la comunità. Ci lascia una grande persona. Sempre schietto e diretto -lo ricorda il sindaco Valerio Favero- Il mio pensiero va alla moglie e al figlio Ermes, al quale mi lega una grande amicizia».
4.11.24
l'importante non è la vittoria ma l'arrivo . Mario Bollini, chi è l'italiano arrivato ultimo alla maratona di New York a 74 anni: «La prima volta ho partecipato nel 1985»
da msn.it
Un altro grandissimo traguardo raggiunto da un atleta instancabile, che per decenni ha preso parte alla maratona di New York e anche quest'anno, all'età di 74 anni, ha accettato
Chi è Mario Bollini
Maresciallo dell’Aeronautica in pensione e anche maratoneta legato alla società Ecologica G di Giulianova (Teramo), da 37 anni partecipa alla corsa nella Grande Mela sorprendendo sempre tutti: «La prima volta è stata nel 1985 e ricordo che eravamo in “appena” 16 mila corridori e da allora non ho più smesso. Il motivo? È una maratona entusiasmante, molto diversa dalle altre, con la gente che ti incita quando passi e ti fa sentire un campione. E poi è una festa incredibile», ha detto il 74enne, come riportato dalla Gazzetta dello Sport.
L'ultima edizione della TCS New York City Marathon ha contato ben 54mila atleti, di cui 2.443 erano italiani, la nazione più rappresentata dopo, ovviamente, gli Stati Uniti.
Diario di Bordo n 84 anno III .Da vent’anni non usa l’auto ma solo la bicicletta Il 58enne Marco Tondelli da Novellara dimostra che non è impossibile.., Si travestono inscenando il rapimento di Aldo Moro: bufera a Bologna
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va bene scherzare ma l'ironia la parodia non dovrebbe oltre passare il buon senso specie se tale fatto riguarda persone morte . Anch'io che usavo epiteti su Berlusconi dopo la sua morte non gli uso più .
3.11.24
le stranezze di chi si oppone a hallowen e al culto dei morti non cattolico ma pagano definendolo satanista \ demoniaco [ reprise ]
leggi prima
le stranezze di chi si oppone a hallowen e al culto dei morti non cattolico ma pagano definendolo satanista \ demoniaco
oppure uno dei post recenti merito alla pacchianeria di Haloween
Apro l'email e ricevo questa email
come se credente anche se in senso laico . ma poi festeggi Halloween o organizzi iniziative per il 31 ottobre e 1 novembre come quello che ha fatto con la classe 76 comitato per la festa 2025 di sant isidoro a settembre.
sfatiamo uno stereotipo della destra pseudo sovranista e non solo purtroppo che vede e considera Halloween e le feste dal 31 ottobre al 2 novembre con fastidio, più che con semplice indifferenza,
perché sentita come festa pagana e di importazione ( quelli moderati ) o demonica ( quelli più chiusi e più conservatori ) . Quando invece si deve come fa notrare uno dei tanti studi : https://www.ulisseonline.it/in-evidenza/halloween-festa-pagana-o-cristiana-origini-mito-tradizioni/ una festa di ritorno .In quanto tali riti imposti in euroopa tramite Hollywod erano staty importati in America già dalle prime immigrazioni del 1600\1700 . Infatti sempre secondo il sito citato nelle precedenti righe : << [... ] Dopo questo excursus tra Gran Bretagna, Irlanda, Spagna, il resto è storia (quasi) dei giorni nostri. Dalla Gran Bretagna e dalla – cattolicissima – Irlanda, il Samhain già diventato Halloween, si diffuse, a partire dal 1500, nell’America del Nord, da dove oggi – ci lamentiamo – abbiamo importato la festa. Ma cos’è davvero Halloween negli Stati Uniti ? [...] In generale, concludo “nessuno definisce Halloween come una festa che inneggia al demonio, è semplicemente un carnevale horror”. Questa atmosfera gioiosa, specie nei quartieri, mi è confermata anche da altri nostri concittadini che si trovano in USA, anche se qualcuno mi precisa che nella comunicazione scuola/famiglia, la scuola precisa che per i travestimenti la regola è “No swords, guns, or weapons” (“no spade, pistole, armi), dove il divieto riguarda non armi giocattolo, ma quelle vere, a testimonianza probabilmente di come il problema non sia Halloween ma altro. [...] >>Ritenendo di aver risposto alla domanda , con un altra è conciliabile allora Halloween con la nostra tradizione cristiana cattolica? Vista l’evoluzione di questa festività e la presenza accettata dalla stessa chiesa cattolica , di tradizioni intrecciate con le tradizioni locali e le pratiche religiose ricordo ancora che mia nonna materna preparava la tavola la per le nime dei morti la notte de 31 ottobre , direi di SI . Infatti Le origini di questa festa possono essere rintracciate in antiche celebrazioni legate al culto dei defunti, che si sono evolute nel corso dei secoli. direi proprio di sì. Se ci sono luoghi in cui essa assume tratti satanici, la mia, seppur limitata, ricerca ( non sono un esperto anche se ho dato esami di storia delle tradizioni sarde e storia elle religioni ) non è riuscita a trovarli, quindi mi sentirei di dire che quello che : la stampa e le ultime generazioni chiamano Halloween è soprattutto altro, la celebrazione di un periodo di passaggio che si lega a riti antichi fondendosi con la cristianità senza sbavature di sorta. Sono solo i media cioè cinema , fumetti , ecc che ne riportano l'aspetto sovranaturale o per parafrasare i vecchi tromboni demoniaco . Quindi fatevenme una ragione oppure se siete coerenti organizzate un contro halloween magari facendo mascherare i bambini da personaggi biblici o religiosi tipo angeli e santi . Oppure se volte rimanete indifferente , capita anche a me infatti ero uno di quelli non truccati della classe che preparava fritelle e dolci , fatelo pure nessuno vi obbliga a conformarvi , ma almeno non rompete i ..... giudicando eretici e miscredenti che vuole divertirsi o festeggiare secondo i ritipagani o religiosità popolare oppure come va di moda con un carnevale horror
2.11.24
diario di bordo n 84 anno III Infermiera tenta il suicidio sui binari del treno, il macchinista scende e la salva: «Oggi è mio marito e il padre dei miei figli»., «Io, operaia da 30 anni nella fabbrica di cioccolato, qui ho conosciuto anche mio marito. Ora la nostra vita è appesa a un filo»., La perdita di un figlio e la speranza: «L’amore è più forte della morte».,
L'amore arriva quando meno te lo aspetti, si dice. E lo può confermare Charlotte, che ha conosciuto il suo futuro marito sui binari del treno, in un momento particolarmente difficile della sua vita. La donna, un'infermiera di 33 anni, quella mattina voleva togliersi la vita a causa di diversi problemi di salute
mentale, tra cui un disturbo da stress post traumatico. Ma il macchinista si è fermato, è sceso, si è avvicinato e si è inginocchiato di fronte a lei. Poi le ha detto il suo nome, e ha chiesto quello di lei. Una scena che sembra provenire direttamente da un film. L'uomo è riuscito a placare la sofferenza di Charlotte e l'ha aiutata a rialzarsi, in tutti i sensi.
Il salvataggio e il matrimonio
«Trova qualcuno che ti guardi così, quando non te ne accorgi», scrive Charlotte Lay nella didascalia di una delle foto che la ritraggono assieme al marito il giorno delle nozze. Il loro amore è iniziato in un giorno nefasto, quando la donna ha agito d'impulso e mentre si stava dirigendo al lavoro si è seduta sui binari del treno, in attesa di essere colpita.
Ma alla guida di quel treno c'era Dave Lay, che è sceso e le ha tenuto compagnia per circa mezz'ora, riuscendo a calmarla, a guadagnare la sua fiducia e a farla salire a bordo. L'ha salutata alla stazione di Skipton, dove l'attendeva la polizia. Il giorno dopo Charlotte ha cercato quell'uomo su Facebook per ringraziarlo di ciò che aveva fatto, e i due hanno iniziato a scambiarsi messaggi, quasi ogni giorno.
Poi c'è stato il primo incontro faccia a faccia per un caffè. Il resto è storia: dopo tre anni si sono sposati, quando Charlotte era incinta del primo figlio. Ce ne sono stati altri due, da allora. La conversazione di quel giorno, da quello che ricordo, era sulle nostre vite, nulla di che, ma abbastanza per farmi superare il momento di crisi - racconta la donna -. Non sentivo più la vita così pesante», dice al Daily Mail.
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«Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena 18 anni, ero una ragazzina. Ho vissuto più di 30 anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo». Rossella Criseo è tra quei 115 lavoratori e lavoratrici che non riescono a immaginare il proprio futuro anche solo tra qualche mese. L’azienda per cui lavora, la multinazionale svizzera del cioccolato Barry Callebaut, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, Verbano Cusio Ossola. «Da un giorno all’altro - dice -. A settembre ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso nel primo trimestre 2025. Poi la proprietà ha accettato di prolungare lo stop alla produzione al 30 giugno».
Ora si tenta la strada della reindustrializzazione, anche se l'azienda ha escluso l'apertura a eventuali competitor interessati. «Se non verrà trovato un acquirente? Anche mio marito è un dipendente, ci siamo conosciuti in reparto. Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo. I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere». Rossella Criseo, nella Rsu Cisl da tre anni, è entrata per la prima volta in stabilimento quando la proprietà era ancora del marchio Nestlé. Poi la chiusura nel 1999 e il salvataggio di Barry Callebaut, che ha permesso alla fabbrica di raggiungere i cento anni di produzione. «Un anniversario che avremmo festeggiato proprio quest’anno – dice -. Invece abbiamo davanti lo scenario più desolante possibile».
Criseo è cresciuta con il profumo di cioccolato sotto il naso, che ogni giorno avvolgeva lo stabilimento. «Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento. Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più, ennesima chiusura in un territorio che in passato, invece, aveva una vocazione industriale». Dopo l’incontro di ottobre al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (in cui è stata delineata la strada della reindustrializzazione) lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente. Giovedì 31 ottobre si è svolto l’incontro con la Regione Piemonte, dove il sindacato ha ribadito che sarebbe necessario aprire la possibilità di cessione a un competitor per facilitare il percorso di reindustrializzazione. Ci si aggiornerà nuovamente al prossimo tavolo, convocato per il 26 novembre.
Criseo, che ha partecipato ai comitati aziendali europei, racconta che l’intenzione di chiudere il sito di Intra non è mai stata manifestata: «La scorsa primavera abbiamo persino incontrato il direttore dell’area Sud Est Europa, Esteve Segura. Ci aveva rincuorato sul futuro di Intra. Nel 2024, oltretutto, abbiamo raggiunto volumi record chiudendo l’anno fiscale con oltre 67mila tonnellate». Cioccolato su cioccolato, quello liquido che nel reparto di Rossella Criseo si scarica dai serbatoi e si carica nelle cisterne per i clienti.
«Ci siamo sempre dati da fare, siamo stati disponibili a lavorare il sabato, la domenica, a fare le notti, a lavorare nei riposi compensativi. Siamo stati i primi in Italia a fare le “squadrette”, a lavorare 7 giorni su 7. E ora l’azienda ci ripaga così? Io, i miei colleghi e le mie colleghe, siamo delusi e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Di spostarsi non se ne parla, e neanche di cambiare settore dopo oltre 30 anni di lavoro
«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».
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