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http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2016/06/il-match-di-ali-con-la-bimba-di-3-anni.html
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Nell'ultimo viaggio entri solo. E in silenzio. Noi eravamo lì, ad applaudirti, anche noi davanti allo schermo, a migliaia di miglia di distanza. Ti sentivamo, ma stavamo di qua dal fiume, e adesso cala il silenzio. O la pace. O l'infinitamente piccolo. Tu che hai parlato tanto, ed eri muto negli ultimi tempi, lasciavi le tue frasi negli occhi, ed era già un passo. Adesso taci per sempre. Adesso si compie la tua profezia: "Questa vita non è reale. Ho conquistato il mondo e non ne sono soddisfatto.
Dio mi ha donato questa malattia per ricordarmi che non io, ma lui è il numero uno". Nessuno sopra di te. Ma Uno più in alto di te. Quello sì, c'era. Non eri un Innominato, pur se la superbia non ti mancava, e lo sapevi, e la esibivi e la scontavi. Niente ti è stato risparmiato. Forse sembravi più un Giobbe, e mai hai incolpato Dio per il dolore. Quando lo nominavi la tua rabbia, non dico si attenuasse, ma in qualche modo si ricapitolava, trovava il suo porto. Lo sentivi a fianco a te, che tifava per te. In fondo questo tuo Islam così monoteista ti si addiceva. Confermava la tua solitudine e, al tempo stesso, la multiformità umana. Come a pochi altri eletti anche a te è toccato il peso e il pondo d'incarnare ogni nostra vita. In fondo questo tuo Islam che significa pace dona pace non solo a te ma a tutti noi. In esso possiamo riconoscerci. In fondo questo tuo Islam che significa sottomissione ha qualcosa di monastico e nulla di rassegnato o fatalistico. È un divenire, una costruzione. È, se mi passi il termine, resilienza. Giustizia. In fondo questo tuo Islam denunciava la blasfemia d'un cristianesimo ridotto a immagine del potere. Un cristianesimo che ha arbitrariamente sbiancato Cristo, che bianco non era e non per questioni etniche. In fondo questo tuo Islam, il vero Islam, è quindi, nella sua negritudine, pure bianco e occidentale. Non ha nulla di situazionista. S'è trattato di prospettiva. S'è trattato, per te così egolatrico, di rimettere le cose al loro posto. Era, il tuo, un Islam decentrato, periferico, e per questo, ieri, con te c'erano uomini e donne d'ogni etnia ma pure d'ogni religione. Così tu avevi voluto, così è stato. Capisti, vivesti, che solo confermandoti nella tua identità, necessariamente diversa, potevi essere considerato - brutto termine... - uguale. Un po' ti capisco. Solo un po'. Ma, come donna, una goccia di sangue nero pur la possiedo. Detestavi il Dio bianco così come io non sopporto il Dio maschio. I razzisti di ieri e di oggi ringhiano, proponendo tuoi vecchi filmati: "Se un bianco parlasse di identità e di separazione come Alì, lo metterebbero in galera...". È vero. Ma se lo raccontavi tu, ok. E non per quella graziosa compiacenza degli altri grandi ipocriti, i terzomondisti da salotto, verso il "buon selvaggio". Ma perché per te (come per me, donna) l'identità significava prima di tutto esserci. Il razzista (e il maschio padrone) ha un'identità escludente, la sua. Per il razzista (e il maschio padrone) identità è supremazia, quando non annientamento dell'altro. Il razzista (e il maschio padrone) fa di sé un dio. Per te Dio equivaleva invece a relativizzarsi. E a relazionarsi. Dio diviene così d'ogni colore e d'ogni sesso.
Come tu abbia vissuto tutto ciò, lo ignoro. So che così me l'hai trasmesso. Per questo, per questa coralità, per aver testimoniato, in tempi atei, che Dio non è morto, che è Signore e provvede, ti ringrazio. Hai dichiarato esplicitamente che l'Islam non è violenza, che Daesh non c'entra nulla col vero Islam. Te ne ringrazio, ma, pur se non l'avessi fatto, bastava il tuo esempio a dimostrarlo. Io ho amato questo di te, più del pugile (ancorché sublime), o l'uomo bello e apollineo, alla fine più cerebrale che passionale. Ora scendi nell'ignoto. Ti annulli in una sepoltura giustamente segreta. Ho paura, Alì. Ho paura di quel momento, quando toccherà a me. E chissà se invece, fiaccata dalle sofferenze come lo eri tu, ne sarò preparata. O lo desidererò come liberatorio. O resterò pervicacemente, disperatamente attaccata a quel fiato terreno. Ma voglio entrarvi a occhi aperti. Vorrei essere un "io, noi" come lo sei stato tu.
© Daniela Tuscano
Nell'ultimo viaggio entri solo. E in silenzio. Noi eravamo lì, ad applaudirti, anche noi davanti allo schermo, a migliaia di miglia di distanza. Ti sentivamo, ma stavamo di qua dal fiume, e adesso cala il silenzio. O la pace. O l'infinitamente piccolo. Tu che hai parlato tanto, ed eri muto negli ultimi tempi, lasciavi le tue frasi negli occhi, ed era già un passo. Adesso taci per sempre. Adesso si compie la tua profezia: "Questa vita non è reale. Ho conquistato il mondo e non ne sono soddisfatto.
Dio mi ha donato questa malattia per ricordarmi che non io, ma lui è il numero uno". Nessuno sopra di te. Ma Uno più in alto di te. Quello sì, c'era. Non eri un Innominato, pur se la superbia non ti mancava, e lo sapevi, e la esibivi e la scontavi. Niente ti è stato risparmiato. Forse sembravi più un Giobbe, e mai hai incolpato Dio per il dolore. Quando lo nominavi la tua rabbia, non dico si attenuasse, ma in qualche modo si ricapitolava, trovava il suo porto. Lo sentivi a fianco a te, che tifava per te. In fondo questo tuo Islam così monoteista ti si addiceva. Confermava la tua solitudine e, al tempo stesso, la multiformità umana. Come a pochi altri eletti anche a te è toccato il peso e il pondo d'incarnare ogni nostra vita. In fondo questo tuo Islam che significa pace dona pace non solo a te ma a tutti noi. In esso possiamo riconoscerci. In fondo questo tuo Islam che significa sottomissione ha qualcosa di monastico e nulla di rassegnato o fatalistico. È un divenire, una costruzione. È, se mi passi il termine, resilienza. Giustizia. In fondo questo tuo Islam denunciava la blasfemia d'un cristianesimo ridotto a immagine del potere. Un cristianesimo che ha arbitrariamente sbiancato Cristo, che bianco non era e non per questioni etniche. In fondo questo tuo Islam, il vero Islam, è quindi, nella sua negritudine, pure bianco e occidentale. Non ha nulla di situazionista. S'è trattato di prospettiva. S'è trattato, per te così egolatrico, di rimettere le cose al loro posto. Era, il tuo, un Islam decentrato, periferico, e per questo, ieri, con te c'erano uomini e donne d'ogni etnia ma pure d'ogni religione. Così tu avevi voluto, così è stato. Capisti, vivesti, che solo confermandoti nella tua identità, necessariamente diversa, potevi essere considerato - brutto termine... - uguale. Un po' ti capisco. Solo un po'. Ma, come donna, una goccia di sangue nero pur la possiedo. Detestavi il Dio bianco così come io non sopporto il Dio maschio. I razzisti di ieri e di oggi ringhiano, proponendo tuoi vecchi filmati: "Se un bianco parlasse di identità e di separazione come Alì, lo metterebbero in galera...". È vero. Ma se lo raccontavi tu, ok. E non per quella graziosa compiacenza degli altri grandi ipocriti, i terzomondisti da salotto, verso il "buon selvaggio". Ma perché per te (come per me, donna) l'identità significava prima di tutto esserci. Il razzista (e il maschio padrone) ha un'identità escludente, la sua. Per il razzista (e il maschio padrone) identità è supremazia, quando non annientamento dell'altro. Il razzista (e il maschio padrone) fa di sé un dio. Per te Dio equivaleva invece a relativizzarsi. E a relazionarsi. Dio diviene così d'ogni colore e d'ogni sesso.
Come tu abbia vissuto tutto ciò, lo ignoro. So che così me l'hai trasmesso. Per questo, per questa coralità, per aver testimoniato, in tempi atei, che Dio non è morto, che è Signore e provvede, ti ringrazio. Hai dichiarato esplicitamente che l'Islam non è violenza, che Daesh non c'entra nulla col vero Islam. Te ne ringrazio, ma, pur se non l'avessi fatto, bastava il tuo esempio a dimostrarlo. Io ho amato questo di te, più del pugile (ancorché sublime), o l'uomo bello e apollineo, alla fine più cerebrale che passionale. Ora scendi nell'ignoto. Ti annulli in una sepoltura giustamente segreta. Ho paura, Alì. Ho paura di quel momento, quando toccherà a me. E chissà se invece, fiaccata dalle sofferenze come lo eri tu, ne sarò preparata. O lo desidererò come liberatorio. O resterò pervicacemente, disperatamente attaccata a quel fiato terreno. Ma voglio entrarvi a occhi aperti. Vorrei essere un "io, noi" come lo sei stato tu.
© Daniela Tuscano