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7.12.24

«I miei 90 anni senza lavatrice» A Sadali nonna Cecilia fa ancora il bucato nell’acqua del fiume ., Non morì ad Auschwitz»: Trudy ritrovata negli Usa da una preside di Roma

 fra  le  storie     che  mi  hanno colpito  di più questa  settimana        ce  ne sono due  .  la    prima  presa  dall'unione  sarda       mi  pare    del 1\12\2024 la seconda    dal msn.it  
Iniziamo  con la  Prima 

Di buon mattino per le vie di Sadali ci si può imbattere in una scena normale cinquanta e più anni fa ma che nel 2024, per molti, è fuori dal tempo: una figura femminile longilinea che sul capo porta con innato equilibrio e eleganza una bacinella contenente i panni da lavare al lavatoio. Si tratta di Cecilia Deplanu, novantenne, che sull'utilità della lavatrice non ha dubbi: «Giusto per le emergenze, come quando trent'anni fa fui ricoverata per un intervento chirurgico, oppure dare una rinfrescata al bucato perché, per come la vedo io, se in lavatrice si mettono i panni puliti vengono puliti, se invece si vuole dare una lavata come si deve a quelli sporchi, resteranno sporchi».
La famiglia
La novantenne è nata e ha vissuto stabilmente la sua vita a Sadali. Primogenita di undici figli del
cantoniere Salvatore Deplanu che nel 1952, come si usava dire, «le prestò quattro anni» per andare in sposa, ancora 17enne, ad Armando Carta, classe 1927. Cecilia ed Armando hanno avuto quattro figli maschi. «I miei ragazzi, sin da piccoli - racconta la novantenne - sono stati abituati ad aiutarci in casa e nei campi. Il maggiore, Antonio, badava ai più piccoli. Tutti venivano con noi a lavorare la campagna o fare legna. Li abbiamo cresciuti come i nostri genitori fecero con noi. A undici anni, mia mamma mi mandava al fiume, che scorreva poco distante dalla nostra casa, a lavare i ciripà dei miei fratellini. Ricordo quando abitavamo nella cantoniera, tra Sadali e Seulo, che è stata abbattuta molti anni fa, ci spostavamo a piedi fino all'orto nei pressi di Villanova Tulo».
La vita
Nonna Cecilia prosegue lucidissima sul filo della memoria di un'infanzia vissuta in una civiltà che ormai non esiste più: «Ricordo i giorni della trebbiatura nelle calde giornate di luglio, la nostra vita era così, semplice e scandita dal lavoro. Non avevamo tutto ma l'indispensabile non ci mancava. Facendo il paragone con i tempi attuali, ho l'impressione fossimo più felici noi. Adesso hanno tutto eppure non è mai abbastanza, le persone sembrano sempre insoddisfatte, scontente. Non cambierei la mia vita, trascorsa al fianco di mio marito che mi ha lasciato all'inizio di quest'anno dopo 72 anni di matrimonio. Con Armando ci siamo sempre rispettati e voluti bene, i nostri figli ci hanno dato grandi soddisfazioni. Il maggiore laureato in veterinaria ha fatto tutto da solo, il diploma alle scuole superiori di Nuoro e la laurea a Sassari. Con suo padre andammo il giorno della discussione della tesi a Sassari, ricordo ancora l'emozione quando i professori vennero a congratularsi con noi genitori. Così gli altri figli e i nipoti, mai un dispiacere. Auguro a tutti una vita, se non migliore, felice come la mia».
Nonna Cecilia, negli ultimi giorni le temperature sono calate sensibilmente, non sarebbe meglio ricorrere alla lavatrice?
«No, l'acqua del lavatoio non è mai particolarmente fredda, e poi, non so, sarà una fissazione la mia, ma venire qui a fare il bucato mi fa sentire bene, alcuni giorni al lavatoio vengono anche alcune ragazze».
Quanti anni hanno?
«Credo una ventina meno di me».
Dopo aver fatto il bucato riportarlo a casa sulla testa appesantito dall'acqua è ancora più faticoso?
«Per questo, lavo prima le cose più ingombranti e difficili da strizzare a mano che stendo a sgocciolare mentre finisco di lavare il resto del bucato, questo proprio per evitare che l'acqua appesantisca eccessivamente il carico che devo portare».
Quando ha imparato a portare sulla testa i carichi così pesanti?
«Da bambina, mia nonna e mia mamma mi insegnarono come fare, con “su tidili” un grembiule ripieganto circolarmente da frapporre tra la testa e il peso da portare, è stato semplice fin da subito. Il lavatoio è stato un grande vantaggio per le donne, prima andavamo al fiume».

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 La seconda  

Per anni Gertrude è stata una dei troppi bambini la cui esistenza si era spezzata nel campo di concentramento di Auschwitz. Una rapida apparizione nella storia la sua, scoperta per altro casualmente, al fianco del padre Isidor Stricks, un cittadino polacco ebreo catturato vicino a Roma e deportato nei campi di sterminio.

Per una facile associazione, e dal momento che non sempre i bambini venivano registrati sui treni della morte, la convinzione che anche lei avesse finito i suoi giorni in un lager.
«Ma Trudy lì non e mai arrivata, si è salvata ed è ancora viva: oggi ha 86 anni, si trova in America, è sposata e ha tre figli. Ha un sorriso bellissimo e una forza senza pari»: la descrive così Maria Grazia Lancellotti, oggi preside del liceo classico e linguistico della Capitale Orazio che, nell’ambito del progetto «Il civico giusto» (diretto da Paolo Masini), che si pone l’obiettivo di scoprire storie di solidarietà e di coraggio nell’Italia fascista al tempo delle leggi razziali, si è imbattuta in un dettaglio che ha catturato la sua attenzione, tanto da portarla alla ricerca della verità.
«Mi stavo documentando sulla fuga di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat dal carcere romano di Regina Coeli quando nei racconti Marcella Ficca, la moglie di Alfredo Monaco, il medico che quella fuga ideò, comparvero Trudy e suo padre - racconta Lancellotti -. Mi disse che quest’uomo che teneva stretta a sé una bambina di 5-6 anni, prima di essere caricato sul camion diretto a Fossoli, le rivolse uno sguardo terrorizzato, come di chi non sapeva cosa lo aspettasse, trovò gli occhi di una donna, le fece un cenno, si fidò e le affidò quello che aveva di più caro pur di salvarlo». Così Marcella ospita la piccola in casa sua per qualche mese, fino a quando la mamma, Fanny, non la rintraccia e la riprende con sé.
Da qui iniziano peripezie, fughe e lunghe settimane nascoste in due distinti conventi di Roma, fino alla fine della guerra. Poi la salvezza arriva quando a luglio del 1944 salgono a bordo Herry Gibbons, nave che salpa da Napoli con mille profughi e raggiunge Oswego, negli Stati Uniti.
«Da qui si perdono le tracce della piccola Trudy, la mamma si sposa e cambia cognome. La stessa cosa fa lei anni dopo - riprende il filo dei ricordi Lancellotti -. Ma a questo punto volevo arrivare alla verità su di lei per cui ho scritto a un museo della città: Trudy in America doveva essere arrivata viva e qualcuno doveva sapere qualcosa di lei. Poco dopo mi ha risposto direttamente suo figlio Brian e mi ha raccontato la vita di sua mamma Gertrude».
Il caso poi ha voluto che lo stesso Brian avesse già in programma un viaggio in Italia per la scorsa estate. Con l’occasione è andato anche a Roma, dove ha potuto conoscere e abbracciare i figli di Alfredo e Marcella Monaco. «Purtroppo loro sono morti senza sapere se quella bambina ebrea che avevano salvato alla fine ce l’avesse fatta, ma l’aver scoperto il loro grande gesto d’amore ha fatto in modo che venissero avviate le pratiche allo Yad Vashem per far insignirli del titolo di “Giusti fra le Nazioni”». Non è stato facile per la preside Lancellotti. «Ci sono stati momenti in cui mi sono sentita in soggezione, sono entrata a gamba tesa nella vita di tante persone e ho riallacciato un filo che negli anni si era lacerato - conclude -. Ma questo è anche il bello del nostro progetto che portiamo nelle scuole, perché la storia si possa vivere con empatia. E comunque le vicende di Trudy non finiscono qui, perché voglio farne un libro».