Prima di riportare la storia d'oggi vorrei precisare che il copia e incolla non è per fare pubblico o riempire il blog e il mio spazio di Facebook su chi i post vanno in automatico ma è dovuto al fatto che solo i giornali locali o quelli nazionali nelle ultime pagine di cronache ai margini appunto ( salvo che esse non si ribellino o non commettano illegalità ) pubblicano tale news che riguardano le anime salve
e che parlano d'argomenti come questi
In sardegna L'alcolismo ha i numeri di un'apocalisse: quarantamila famiglie convivono con un etilista.
da L'unione sarda Edizione di domenica 13 maggio 2012 - Cronaca Regionale (Pagina 9)
I morti sono ottocento l'anno. C'è un fronte che resiste. È a Iglesias e si chiama “Amici della vita”, guidato da Giorgio Madeddu. Dice che all'origine della malattia c'è un disagio esistenziale.
L'assemblea dei resuscitati è convocata per giovedì al chiostro di San Francesco a Iglesias: si festeggiano dieci anni di vita ritrovata e un libro che raccoglie testimonianze e memorie dal sottosuolo degli alcolizzati. Di ogni genere: casalinghe adorabili, impiegati rigorosi, solerti vigili urbani, barboni disorientati, signorine insospettabili, pie donne divise tra Dio e la bottiglia, miserabili abbonati all'inferno dalla nascita.Non è il caso che vi prepariate a strizzare lacrime perché questa gente non ne ha bisogno e nemmeno le gradisce. Non chiede elemosine e neppure solidarietà. Si è salvata da sola. Grosso modo si tratta di oltre mille famiglie del Basso Sulcis terremotate dall'alcol.
Col tempo, visto che i risultati sono stati incoraggianti, hanno allargato l'orizzonte ai malati di tumore e agli autistici. Tutti insieme fanno un'associazione che si chiama Amici della vita , associazione - tenetevi forte - che non ha mai chiesto finanziamenti pubblici, non dipende dalla pietà di un padrino politico, non ha voti di scambio da offrire sulla piazza.
e sempre dallo stesso giornale l'intervista GIORGIO MADEDDU ( foto sotto a sinistra ) GUIDA L'ASSOCIAZIONE 'AMICI DELLA VITA' di GIORGIO PISANO ( pisano@unionesarda.it )
L'assemblea dei resuscitati è convocata per giovedì al chiostro di San Francesco a Iglesias: si festeggiano dieci anni di vita ritrovata e un libro che raccoglie testimonianze e memorie dal sottosuolo degli alcolizzati. Di ogni genere: casalinghe adorabili, impiegati rigorosi, solerti vigili urbani, barboni disorientati, signorine insospettabili, pie donne divise tra Dio e la bottiglia, miserabili abbonati all'inferno dalla nascita.Non è il caso che vi prepariate a strizzare lacrime perché questa gente non ne ha bisogno e nemmeno le gradisce. Non chiede elemosine e neppure solidarietà. Si è salvata da sola. Grosso modo si tratta di oltre mille famiglie del Basso Sulcis terremotate dall'alcol.Col tempo, visto che i risultati sono stati incoraggianti, hanno allargato l'orizzonte ai malati di tumore e agli autistici. Tutti insieme fanno un'associazione che si chiama Amici della vita , associazione -tenetevi forte - che non ha mai chiesto finanziamenti pubblici, non dipende dalla pietà di un padrino politico, non ha voti di scambio da offrire sulla piazza.Dietro questo strano popolo di zombi miracolati c'è un medico che ha un'idea bizzarra e vincente per la lotta all'alcolismo: niente farmaci (salvo quelli essenziali)
ma ricerca in se stessi e sostegno dei propri cari. Così ha fatto nascere i gruppi di auto-aiuto, che sono le cellule della rinascita. Giorgio Madeddu, 56 anni, due figli, vive e lavora a Iglesias. Quale sarebbe stato il suo futuro l'ha capito che era adolescente: una notte, tornando a casa dopo aver visto un film, ha calpestato nell'androne quello che credeva un fagotto di detriti dimenticato dai muratori impegnati in un cantiere vicino. Quando ha sentito un lamento s'è fermato di colpo. «Non era un fagotto, era un uomo. Un ubriaco che aveva cercato rifugio nel palazzo dove
tenetevi forte - che non ha mai chiesto finanziamenti pubblici, non dipende dalla pietà di un padrino politico, non ha voti di scambio da offrire sulla piazza.Dietro questo strano popolo di zombi miracolati c'è un medico che ha un'idea bizzarra e vincente per la lotta all'alcolismo: niente farmaci (salvo quelli essenziali) ma ricerca in se stessi e sostegno dei propri cari. Così ha fatto nascere i gruppi di auto-aiuto, che sono le cellule della rinascita. Giorgio Madeddu, 56 anni, due figli, vive e lavora a Iglesias. Quale sarebbe stato il suo futuro l'ha capito che era adolescente: una notte, tornando a casa dopo aver visto un film, ha calpestato nell'androne quello che credeva un fagotto di detriti dimenticato dai muratori impegnati in un cantiere vicino. Quando ha sentito un lamento s'è fermato di colpo. «Non era un fagotto, era un uomo. Un ubriaco che aveva cercato rifugio nel palazzo dove abitavo».Quell'episodio lo ha segnato. A parte la laurea in Medicina e i corsi di psicoterapia della dipendenza, ha dedicato la sua vita ad una malattia (perché di malattia stiamo parlando) che ancora oggi stenta ad essere riconosciuta. Qualche numero, giusto per capirci, spiegherà meglio: in Italia gli alcolizzati sono un milione e seicentomila, ogni anno ne muoiono cinquantamila. In Sardegna quarantamila famiglie convivono con un alcolista e i cadaveri ammontano a ottocento l'anno. Madeddu non esita a dissentire da un gigante della materia, il farmacologo Gian Luigi Gessa, che fa risalire l'origine dell'alcolismo a Noè, primissimo ubriacone certificato. «Io invece ritengo che l'alcolismo nasca da un disagio esistenziale». Dunque, curando il disagio cancello l'alcolismo.Le cose stanno davvero così? Il terreno di discussione è decisamente scivoloso ma Giorgio Madeddu difende la sua tesi sulla base di un'esperienza cominciata venticinque anni fa e ancora lanciatissima in tutto il Sulcis. Dove l'alcolismo, racconta, è compagno della miseria. E quando tocca le donne propone poi statistiche taroccate perché omertà e vergogna non fanno affiorare nulla: questo per dire che i dati ufficiali sono, in realtà, infinitamente peggiori. «Noi siamo riusciti ad aprire una breccia evitando giudizi morali ed offrendo in cambio diagnosi e confronto».
Cos'è Amici della vita?
«Una comunità di famiglie alle prese con un disagio, una sofferenza. Contiamo cinquecento militanti e quindici centri d'ascolto tra Iglesias e Teulada. C'è un responsabile scientifico, che sono io, e numerosi specialisti che ci affiancano. Il nostro obiettivo è trasformare i pazienti in punti di riferimento per i nuovi arrivati».
Perché non chiedete contributi pubblici?
«Perché non ci si può liberare da una dipendenza e cadere in un'altra. Far capo ad amministrazioni pubbliche o a politici vuol dire che mettiamo in conto di sparire non appena chiudono il rubinetto dei finanziamenti».
Voi invece?
«Facciamo affidamento sulle nostre risorse e bastiamo a noi stessi. Il ginepro non muore nelle estati di siccità. Neanche noi. Interpretiamo la politica nel senso più autentico: stare al servizio degli altri».
Quindi vi fa schifo, la politica.
«Dai politici accettiamo una partecipazione spassionata, se vogliono darla. Ce ne sono di rispettabili: per esempio Tore Cherchi, ex presidente della Provincia. Ha sempre partecipato alle nostre iniziative e non ci ha mai chiesto nulla».
Quanti entrano in associazione per fare carriera?
«Impossibile: con noi c'è da impegnarsi a fondo. La regola numero uno è mettersi in discussione davanti a tutti, e non è facile da fare».
I gruppi di auto-aiuto?
«Nascono dall'esperienza americana avviata nel 1935. Sono comunità di alcolisti (ma non solo) che condividono speranze e disagi. Servono a sostenersi l'uno con l'altro».
Sedute di autocoscienza, insomma?
«No. Di solidarietà incrociata, che è un altro affare».
Cosa sono i 12 passi?
«Il percorso degli alcolisti, dalla presa di coscienza al risveglio spirituale. Funzionano anche coi malati tumorali. Durano tutta la vita. È una guerra permanente contro la società dell'apparenza».
Iniziative?
«Molte. Facciamo trekking, marce, pizzate analcoliche, giornate della sobrietà. Siamo una comunità in marcia».
Lei paragona gli alcolisti agli assetati di danaro e potere: perché?
«Perché dietro, in fondo, c'è lo stesso disagio di vivere. Sono molti i politici detronizzati che vanno in depressione e in dipendenza. Perdendo il ruolo (assistenzialismo e clientelismo) si ritrovano improvvisamente fragili».
Cattolico?
«Sì. E progressista».
Record dei suoi assistiti?
«Ho pazienti che si facevano dieci litri di vino al giorno. Dieci, e non per modo di dire. O signore che bevevano 25 birre, sempre al giorno. Il campione è vario».
In che senso?
«Birra e vino si consumano nei paesi, i superalcolici nelle aree urbane. I giovani invece amano l'abuso multiplo: alcol e cocaina, oppure eroina, ecstasy, canne. Ogni anno nascono in Sardegna venti bambini con ritardo mentale per abuso alcolico in gravidanza».
Successi?
«Applichiamo il Progetto don Bosco, che parte dall'accoglienza, prevede il trattamento a domicilio e si conclude con l'inserimento nel mondo del lavoro. Se tutto il nucleo familiare ci aiuta, risolviamo settanta casi su cento. Conta molto anche l'atteggiamento dei Comuni».
Che c'entrano?
«Di solito erogano assegni di sussistenza ad alcolisti che poi vanno a glorificarli al bar. Noi preferiamo invece che abbiano un lavoro socialmente utile, che ricevano salario e contributi perché solo così si sentono spinti a cambiare».
Saranno stati tutti d'accordo con voi.
«Il Municipio di Iglesias continua a preferire la logica degli assegni ad personam».
Percentuale di ricadute.
«Ampia e frequente. Il 70-80 per cento ci ricasca prima di arrivare alla sobrietà duratura. Il primo anno è il più difficile però è anche quello che fa riassaporare un po' di pace in famiglia, il rispetto ritrovato e perfino qualche euro in più».
Cosa le chiedono i suoi pazienti?
«Seguo 1.250 famiglie che fanno capo all'associazione e altre che, per ragioni loro, preferiscono stare nell'anonimato. La prima cosa che mi chiedono? Ricomporre il nucleo familiare disintegrato. L'alcol lo impoverisce, lo distrugge».
Poi?
«Hanno quasi tutti un sogno impossibile: riuscire in futuro a bere in modo moderato. Non si può. Aveva ragione Billy Wilder: un bicchiere è troppo, cento sono pochi . L'alcolista deve sposare la sobrietà per tutta la vita. Di solito ci riesce quando ha trovato una risposta al suo disagio esistenziale».
Cioè?
«C'era un vecchio che mi diceva: ero infelice quando bevevo perché bevevo, sono infelice ora che non bevo perché non bevo . Significa che non aveva risolto il problema che aveva scatenato l'alcolismo».
Capita che se ne vadano sbattendo la porta?
«Certo, soprattutto quando comincio a mettere il naso dentro la famiglia. Uno se n'è andato in malo modo perché gli avevo chiesto di non picchiare la moglie. Questi sono affari miei, dottore».
«L'Alcover vuol dire?
Mai. L'ho sperimentato nel 1990 e mai più utilizzato. È pericoloso perché non interrompe l'abuso alcolico e crea un cocktail micidiale. Prescriverlo è un'ottima soluzione per chi vuole lavarsene le mani».
Botte?
«Qualche volta ci siamo andati molto vicino, è inevitabile».
Che rapporto c'è tra crisi economica e alcol?
«Nessun rapporto ma un lavoro diventa fondamentale per un alcolista in terapia. Proprio per questo collaboriamo con la coop San Lorenzo di Iglesias, attivissima sul fronte-occupazione».
Quante volte ha pensato di non farcela?
«Molte, ma poi basta una telefonata per rimettermi in carreggiata. Purtroppo succede molto più spesso ai pazienti di pensare di non farcela più».
Cioè?
«Alcune volte ho creduto che un recupero sarebbe stato impossibile. E magari mi sbagliavo. Altre volte ho visto la vittoria a un passo e poi tutto è precipitato. In 25 anni di lavoro conto almeno duecento morti per patologie alcol-correlate. Che significa tumori (del cavo orale, dell'esofago), incidenti, suicidi».
Quante sconfitte?
«Ne ho di personali, brucianti. Penso a quel ragazzo polidipendente che mi aveva chiesto un colloquio. Ero infognato di lavoro e gliel'ho rimandato. Due giorni dopo s'è schiantato con la moto contro un muro. È accaduto molti anni fa ma io continuo a domandarmi: se l'avessi ascoltato, sarebbe successo lo stesso?»
Dove ha sbagliato?
«Ho sottovalutato l'importanza di creare un centro per ospitare quei malati che non possono essere trattati in famiglia. Oggi ci ritroviamo liberi ma anche senza il centro per le urgenze».
Il paziente che non dimentica?
«Un impiegato pubblico che ha perso il lavoro perché beveva. A seguire, l'ha scaricato la famiglia ed è finito a fare il barbone. In ospedale, dopo una crisi terribile di delirium tremens, sono riuscito a recuperarlo. Ma si rifiutava di frequentare i gruppi di auto-aiuto e io ero certo che ci sarebbe ricascato. Finché un giorno...».
Che succede?
«Succede che mi invita ad una partita della squadra di calcio che allenava. Era salvo. Sono stato un presuntuoso a credere che solo i gruppi di auto-aiuto potessero proteggerlo. Non esiste una ricetta unica e valida per tutti».
Considera un privilegio lavorare con questi malati.
«Esatto. Perché da questa gente ho imparato più che all'università. L'eroismo delle mogli degli alcolisti che non si arrendono sono un esempio strepitoso di senso della vita. Mi aiutano, mi stimolano, mi incuriosiscono».
Come fa ad essere ottimista?
«Non potrei non esserlo. Appena 25 anni fa la Medicina considerava alcolisti e tossicodipendenti irrecuperabili. Non venivano neanche studiati: erano scarti della società, più o meno degni di solidarietà, ma comunque scarti».
E allora?
«Allora io in 25 anni ho invece assistito a un gigantesco miracolo. Ho visto sotto i miei occhi centinaia di famiglie rinascere, ho visto morti in pole position ricominciare a vivere. Oggi gran parte di queste persone sono miei compagni di strada. Sono o non sono un uomo fortunato?»