Violenze di massa sui detenuti, torture a opera degli agenti, è quanto avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fatti gravissimi che si legano a un episodio di abuso di potere con cui, a vent'anni di distanza, l'Italia non ha fatto i conti: la scuola Diaz al G8 di Genova
Detenuto nel carcere di Regina Coeli a Roma. (Foto: ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)
La magistratura l’ha definito “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa ai danni dei detenuti”. È la tragica descrizione di quanto avvenuto nell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), che viene fuori da mesi e mesi di analisi delle chat degli agenti penitenziari, audio, videocamere di sorveglianza e referti vari. Gli indagati sono 117 e ora in 52 hanno ricevuto misure cautelari, come arresti ai domiciliari e interdizioni. Questo riguarda tanto i presunti autori delle violenze quanto chi ha provato a nasconderle, come alcuni medici Asl e dirigenti del carcere.
Gli agenti avrebbero commesso abusi indiscriminati nei confronti dei detenuti, in una sorta di vendetta dopo una rivolta scoppiata la sera prima e rientrata in poche ore per la scoperta di un detenuto positivo al Covid-19. Si parla di botte perfino a un detenuto in sedia a rotelle, pugni, schiaffi e testate con i caschi a detenuti inginocchiati e denudati, tunnel umani al cui interno venivano fatti passare a uno a uno i condannati per picchiarli in massa. Nelle chat degli agenti si parla di “metodo Santa Maria”, mentre i detenuti vengono definiti come “vitelli da abbattere”, “bestiame” e altri deliri di esaltazione della violenza.
Sono passati venti anni esatti da quando l’Italia fu teatro di quella che Amnesty International definì “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale”. Nel luglio 2001 a Genova, nei giorni del G8, si apriva una ferita che oggi ancora non si è rimarginata, con la macelleria messicana della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani e la violenza indiscriminata delle forze dell’ordine nelle strade contro i manifestanti. Fu tortura su larga scala, come d’altronde ribadito di recente dalla Corte europea dei diritti umani, ma in Italia non esisteva nemmeno una legge che prevedesse questo reato, arrivata solo nel 2017.
Gli abusi di potere commessi nel corso del G8 di Genova sono stati perlopiù coperti, i protagonisti delle violenze nella migliore delle ipotesi sono rimasti al loro posto, nella peggiore hanno ricevuto addirittura delle promozioni e oggi l’Italia continua a pagare il fatto di non aver saputo fare realmente i conti con quella tragedia di venti anni fa, di non aver fatto un passo oltre a quella vergogna. E il metodo Genova, con episodi di violenze indiscriminate delle forze dell’ordine, di insabbiamenti e omertà diffusa, di tortura à la Bolzaneto e Diaz, continua oggi a macchiare la quotidianità del Belpaese, in particolare delle sue carceri. Quanto emerso in queste ore nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere è infatti solo la punta dell’iceberg: da quando l’Italia si è dotata di una legge sulla tortura, si è scoperto che la tortura nel paese esiste, eccome se esiste.
Associazione Antigone ha raccolto tutti i casi di applicazione di questo “nuovo reato” nell’ambito del sistema carcerario italiano. C’è l’agente di polizia penitenziaria condannato lo scorso gennaio per tortura contro un detenuto nel carcere di Ferrara. C’è la condanna in primo grado per tortura e lesioni aggravate a carico di dieci agenti del carcere di San Gimignano, arrivata lo scorso febbraio. Ci sono le misure cautelari, tra cui i domiciliari, disposte a gennaio per diversi agenti accusati di tortura contro i detenuti nel carcere fiorentino di Sollicciano. Ci sono altre misure cautelari emesse nel 2019 nei confronti di 13 agenti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, per un’inchiesta su presunte torture e altri abusi commessi nei confronti dei condannati. E poi ci sono fior fior di altre indagine in stato ancora più embrionale, dall’istituto milanese di Opera a quello emiliano di Modena, passando per Melfi, Pavia e altre carceri.
C’è un problema di abusi di potere e violenze nelle carceri italiane che è figlio dell’impunità seguita ai tragici fatti del G8 di Genova di venti anni fa. Per tutto questo tempo si è continuato a chiudere gli occhi, si è dovuto aspettare ben 16 anni per una legge sulla tortura zoppa e che sta iniziando solo ora a fare il suo corso, ci si è continuati ad opporre a misure di buon senso come quella dei codici identificativi sulle divise degli agenti per meglio individuare eventuali abusi. Intanto, una fetta importante della politica ha spianato la strada a tutto questo, permettendo di fatto che il metodo-Genova oggi continui il suo corso. Dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che ha definito quella sulla tortura una legge che impedisce alle forze dell’ordine di fare il loro lavoro, al capo della Lega Matteo Salvini che ogni volta che scoppia un’inchiesta per tortura nelle carceri corre a dare la sua solidarietà agli agenti indagati – lo ha fatto anche in queste ore, annunciando una visita a Santa Maria Capua Vetere per offrire sostegno simbolico.
L’Italia è ancora impantanata nell’orrore di venti anni fa e il contesto politico-sociale non sembra preannunciare miglioramenti imminenti.