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3.12.24

Diario di bordo n 90 anno II . il diritto di essere brutti e piacersi lo stesso., se tutti hanno un costo nessuno ha un valore ., Giulia Lamarca: «Ogni disabilità ha un margine di indipendenza»

In questa tempi in cui la bellezza è imposta ed autoimposta ( vedere l'aumento d'interventi plastici spesso non necessari e il ricorso a me dici senza scrupolo e con conseguenze letali ) la bruttezza può essere rivoluzionaria e si viene mal visti , è il prezzo per non essere schiavi \ succubi di un sistema che ci vuole tutti perfetti e senza difetti , come mosche bianche o strampalati . Infatti Guardiamoci attorno in un luogo affollato, una via centrale o un centro commerciale. Vedremo corpi e volti comuni, più o meno sgradevoli, anonimi o caratteristici, alcuni con elementi più piacevoli, altri francamente belli ma non necessariamente perfetti. Mettiamoci in testa che la bellezza in senso assoluto, è una eccezione in natura. Da sempre gli esseri umani si ingegnano a camuffare i tratti considerati sgradevoli, in nome di una estetica e una simmetria creati a tavolino almeno per ciò che riguarda i volti umani. E a ben osservare lo standard di bellezza a cui tutti aspirano è quello di donne e uomini bianchi, magri, alti, conformi. La la bellezza appartiene a una razza e ad una classe sociale ben definita ed è attraversata da un progetto politico ed economico. Essere brutti non è consentito in Occidente e nel tempo è diventato una forma di discriminazione e di isolamento. Essere brutti è un insulto che non interessa solo i lineamenti ma l'identità più profonda. Ne ha Ne parlato su mi pare su HuffPost Italy  di  qualche  tempo   fa   l'artista Moshtari Hilal che brutta ci si è sentita da sempre: lineamenti forti, pelle scura, denti non allineati. Per essere accettati bisogna rientrare almeno nella norma. Che poi anche questa, a ben vedere è una costruzione sociale e falsa.
<<Quello che etichettiamo come brutto non è naturale, è il risultato di gerarchie" le stesse che governano il potere e autorizzano le sopraffazioni, scrive nel suo saggio ‘bruttezza’ edito dai tipi di Fandango. Ma essere brutti o sentirsi brutti (non è la stessa cosa) determina due effetti: un senso di inferiorità e un dolore dovuto all'inadeguatezza e alla sensazione di non appartenenza. La bruttezza insomma è una croce pesante e la strada dell'accettazione delle differenze estetiche è ancora lunga e tortuosa. Basta guardare un concorso di bellezza internazionale: le caratteristiche etniche sono livellate e sfumate per conformarsi agli standard occidentali. Ed essere brutti non implica necessariamente non piacersi (vale anche al contrario, essere belli non è garanzia di benessere). <<Solo una madre può amare una bambina brutta>> scrive sempre Hilal, << ma vi posso assicurare che in alcune famiglie i brutti godono di trattamento di serie b lottano più degli altri per essere riconosciuti e amati talora senza mai riuscirci. E se la bellezza è una scorciatoia per il successo (le persone belle hanno stipendi più alti e attraggono partner più ricchi). La bruttezza autorizza il resto del mondo a odiarti e a insultarti, basta fare un giro sui social network per rendersene conto. >>

  

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Nessuno si salva da solo e nessuno è libero finché qualcuno è schiavo. Ufficialmente la tratta degli schiavi non esiste più dal 23 febbraio 1807 quando fu cancellata a larga maggioranza (100 voti contro 36) dal Parlamento inglese, cuore della super potenza coloniale dell’epoca. Sappiamo poi che alla fine del XIX secolo un po' tutti i Paesi del mondo hanno messo al bando l’asservimento degli esseri umani. In realtà basta confrontare la pratica con la teoria per accorgersi che non è così. «La schiavitù è una pianta infestante che cresce su ogni terreno», scriveva a metà Settecento Edmund Burke.*
Quanto sia attuale la riflessione del filosofo britannico lo dimostrano proprio la tratta di esseri umani, e in particolare il racket della prostituzione coatta. Nessun angolo del globo ne è immune: Paesi d’origine, di transito e di destinazione. La schiavitù è stata abolita per legge ma non nei fatti. Ha cambiato pelle ma i più deboli sono sempre a rischio assoggettamento. Tante persone povere sono costrette a lavorare sottopagate o senza essere pagate affatto. Le vittime della tratta sono asservite ai mercanti di esseri umani che le degradano a bancomat nelle strade del mercimonio. Intanto i nuovi schiavi del web disseminano di sofferenza la servitù occulta nel mondo della rete. Cambiano le epoche ma resta l’indole dell’uomo di volere sfruttare e approfittarsi dei più fragili per sottometterli. Il Papa testimonia l’urgenza di lavorare affinché nessuno renda schiavo un altro. La schiavitù non è una realtà del passato, e nella “Giornata internazionale per l'abolizione della schiavitù” in calendario domani l’Onu si appella alla coscienza individuale e collettiva.
Sono trascorsi 75 anni da quando le Nazioni Unite hanno approvato la Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione. Da allora resta ancora lontano l’obiettivo di una società rinnovata e orientata alla libertà, alla giustizia e alla pace. Anzi, le forme di disuguaglianza e discriminazione si sono moltiplicate di pari passo con la globalizzazione dell’indifferenza. Vanno
Uno dei quattro schiavi incatenati raffigurati nella parte inferiore
del 
Monumento dei Quattro mori del XVII secolo a Livorno.
adottate, dunque, misure più incisive per sconfiggere l’asservimento. Secondo i dati del “Global Estimates of Modern Slavery”, tra lavoro e matrimonio forzati, nel mondo 50 milioni di persone (in maggioranza donne e minori) sono ridotte in schiavitù.
Le forme di schiavitù contemporanee sono il traffico di esseri umani, lo sfruttamento sessuale, il lavoro minorile, i matrimoni forzati e l’uso di bambini nei conflitti armati. Solo una mobilitazione comunitaria può sradicare un fenomeno così diffuso. C’è bisogno della piena partecipazione di terzo settore, sindacati, società civile e istituzioni che promuovono i diritti umani. «Gli schiavi di oggi cambiano di geografia, modalità e colore, ma la schiavitù si adatta ogni volta di più – afferma Francesco –. Ci sono sempre più schiavi. Tante forme di       schiavitù sono dissimulate, non si  conoscono, sono nascoste. Nelle megalopoli come Roma, Londra, Parigi, ovunque, ci sono nuove schiavitù». Servono opportunità di educazione e di lavoro. Nessuno può lavarsi le mani se non vuole essere, in alcun modo, complice di un crimine così efferato contro l’umanità», ribadisce il Pontefice. Le vittime della prostituzione coatta sono le moderne schiave, e finché non saranno liberate non potrà essere dichiarata l’effettiva abolizione della schiavitù.
Ho un sogno che mi accompagna di notte lungo le strade della prostituzione, ed è quello di vedere effettivamente abolita la schiavitù. Sui marciapiedi delle nostre città sembra scolpita una condanna antropologica: quella di trasformare la sopraffazione in una modalità di relazione sociale. Le “donne crocifisse” rispecchiano tragicamente l’umana deriva dell’acquisto, dello sfruttamento, dell’appropriazione indebita di altri esseri umani. È come se l’uomo non sapesse evolvere verso una fattuale, intangibile parità di dignità. C’è sempre bisogno psicologicamente, strutturalmente, di qualcuno da sottomettere.
Ci sono altre odiose forme di asservimento che hanno sempre come bersaglio le persone più fragili e indifese, ma la tratta del mercimonio coatto ha questa peculiarità: si distrugge la libertà di un individuo per farne uno strumento dei propri istinti più primordiali, eticamente riprovevoli, socialmente distruttivi. Il costo personale e collettivo della tratta grava come un macigno sulla nostra civiltà cosiddetta post-moderna, ma sempre agganciata alla zavorra di condotte violentemente primitive. Mai più persone in vendita! Se tutti hanno un costo, nessuno ha valore.

* infatti   la lotta  contro  lo schiavismo  continuò  fino  al  secolo  scorso  .    come  testimonia 



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«È molto difficile sradicare la narrazione dell’eroe-salvatore e del disabile-salvato dalla solitudine». Il raccontare la disabilità sta cambiando dal basso grazie soprattutto al mondo aperto dei social media, che ha dato voce a chi prima faticava ad avere spazi nei media tradizionali.

 Un fenomeno nuovo che proprio per questo deve affrontare pregiudizi atavici, come quelli sottolineati da Giulia Lamarca, classe 1991, psicologa, formatrice aziendale e travel blogger, che nel 2011 a seguito di un incidente ha perso l’uso delle gambe e iniziato una seconda vita seduta su una carrozzina. Sposata Andrea Decarlini, con cui ha avuto due figli Sophie di tre anni e Ethan nato da pochi giorni, Lamarca si fa portavoce di un cambiamento culturale necessario per costruire una società più inclusiva: «Non condanno mai troppo gli stereotipi perché anch’io, prima dell’incidente, ma forse anche dopo, ne sono stata vittima. Durante la prima gravidanza mi sono posta una serie di domande: sono in grado di prendermi cura della bambina? Sarò una brava madre? Le domande e i dubbi crescono in base alle situazioni, ma dalla maternità ho imparato ad esempio che ci sono diversi modi di essere presente con i figli. Ci è voluto tempo, ma ho imparato a non farmi condannare dai cliché. Il problema è, soprattutto in Italia, che siamo abituati a pensare alla genitorialità come solo alla figura femminile, mentre un uomo che gioca con i bambini sembra un alieno, ma in altri Paesi non è assolutamente così».
I progetto di vita previsto dalla riforma sulla disabilità lavora anche sull’indipendenza, un altro pregiudizio che va smontato pezzo per pezzo, ma che necessità di interventi importanti sul fronte dell’accessibilità. «Ogni disabilità ha un margine di indipendenza. Certo, c’è differenza tra un tetraplegico e un paraplegico, come lo sono io, ma ognuno ha la possibilità di essere indipendente su qualcosa, anche poco, ma è possibile. Purtroppo la situazione delle barriere architettoniche, almeno in
Italia, resta un problema di complessa risoluzione. Ci saranno sempre scale che non posso salire. Ma è importane che le case di nuova costruzione siano accessibili, perché al momento, per un disabile, trovare un’abitazione adattata alle proprie esigenze è un’impresa quasi impossibile. Lottiamo ancora con camere troppo piccole e bagni impraticabili con carrozzine. Così come abbiamo problemi nell’uso dei mezzi pubblici anche nelle grandi città».
Altro tasto dolente è quello dell’indipendenza economica: in Italia solo il 32,5% delle persone con disabilità ha un’occupazione. «La differenza in questo senso possono farla le aziende private, coadiuvate dallo Stato. Molte imprese oggi preferiscono ancora pagare le sanzioni piuttosto che inserire nel loro organico persone con disabilità, non comprendendo che così si perde un’occasione. Avere una disabilità non vuol dire non saper fare niente e attraverso una formazione culturale adeguata nei posti di lavoro si può inserire una maggiore ricchezza di talenti assumendo persone che portano istanze, esperienze e competenze diverse».
Giulia Lamarca, nonostante la visibilità ottenuta sui social e sui media, vive ancora sulla propria pelle scelte discriminatorie: «In Italia la moda resta uno dei settore più discriminatori. Io, ad esempio, ho lavorato per pochissimi brand e non ho mai ricevuto inviti alle fashion week italiane, mentre a quelle estere sì. In passerella abbiamo visto modelle sfilare con protesi agli arti, ma vedere una modella in carrozzina è ancora una rarità, perché non è ancora stato abbattuto lo stereotipo della donna in piedi».
Dalla scuola ai servizi, dal lavoro alla genitorialità, dai media ai viaggi la complessità della vita di una persona disabile pesa inevitabilmente anche sulla famiglia: «Io, con la mia storia, non ho avuto le stesse opportunità di una persona che sta in piedi e cammina. È difficile da dire e da vivere, psicologicamente questo pensiero ti può distruggere. Io ho lottato più degli altri, sia per il lavoro – prima come psicoterapeuta, poi come content creator – sia sul fronte della vita personale. È un dato di fatto: di volta in volta non c’erano le persone giuste oppure le risorse oppure i servizi e io non ho avuto le stesse occasioni di un normodotato. E questa lotta non è cambiata nemmeno dopo che la mia figura è diventata pubblica. Mi spaventa, quindi, che la mia disabilità ricada su Andrea, sui miei figli, persino sui miei genitori. Che loro abbiano meno possibilità a causa della mia disabilità. Dobbiamo iniziare a riflettere sul mondo in cui vogliamo vivere per poterlo costruire».

Diario di bordo n 90 anno II . il diritto di essere brutti e piacersi lo stesso., se tutti hanno un costo nessuno ha un valore ., Giulia Lamarca: «Ogni disabilità ha un margine di indipendenza»

In questa tempi in cui la bellezza è imposta ed autoimposta ( vedere l'aumento d'interventi plastici spesso non necessari e il ricor...