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7.12.25
non sempre chi lavora con le carni necessariamente odia gli animali . simone cabras Il macellaio amico dei cavalli Nella vita vende carne, per passione è allevatore: «Ma i puledri non si toccano»
Ad allevare cavalli da competizione, in tutto il Sud Sardegna, sono rimasti in pochissimi. Ancora meno sono quelli che hanno reso i propri animali in grado di gareggiare con i migliori esemplari della nazione. Da Monserrato alle grandi arene dell’equitazione italiana, è questo il percorso dei cavalli di Simone Cabras, 38 anni, macellaio di professione e allevatore per passione. Insieme al fratello Luca si occupa di tre puledre, la più giovane delle quali un mese fa è arrivata all’undicesimo posto – i partecipanti erano più di duecento – alla Fieracavalli di Verona, la più importante competizione equestre d’Italia. La specialità? Il salto a ostacoli, con balzi che superano un metro e trenta d’altezza.
La storia
«Ho iniziato da ragazzino, nel 2000. In casa abbiamo sempre avuto i cavalli, quindi come sport decisi di fare equitazione e da lì è partita la passione per l’allevamento», racconta Cabras, che per un po’ ha montato da sé gli equini. «Oggi per mancanza di tempo li affidiamo a un cavaliere professionista, Pietro Arba, che partecipa alle manifestazioni ippiche». Quella di Verona non è stata l’unica soddisfazione: gli ottimi risultati ottenuti in Sardegna hanno permesso di accedere anche alle finali nazionali di salto a ostacoli di Arezzo. Successi frutto di anni di lavoro. «Le cavalle vengono fatte inseminare da maschi con buoni curriculum da saltatori. Li nutriamo e ce ne prendiamo cura mattina e sera. Quando arrivano al periodo della doma possono iniziare a saltare e vengono portati ad allenarsi all’ippodromo. Nel periodo di riposo tornano a Monserrato». Dove la famiglia Cabras tiene anche i buoi che ogni primo maggio trainano Sant’Efisio. Ma avere tanti animali a casa e vendere carne ogni giorno non sono in conflitto. «La nostra è una famiglia di macellai, è un contesto in cui siamo nati. Chiaramente non macelliamo i nostri cavalli, sono intoccabili. Adesso hanno due-tre anni, ma possono fare attività fino a venti. In altri anni siamo riusciti ad avere fino a sette esemplari e con ognuno di loro si instaura un legame».
Legame
Ecco perché, anche se il tempo è poco, l'impegno è destinato a durare. «Ci vuole tempo e pazienza, ma è una passione. Allevare e allenare un cavallo che poi riesce a fare una lunga carriera agonistica e ottenere buoni risultati è una soddisfazione».
26.10.25
Rossano Putzu, vita e opere del genio del girarrosto L’artigiano di Serrenti crea pezzi unici ispirati alle Ferrari e alle moto da Gran premio:
Il girarrosto creato da Rossano Putzu, di SerrentiPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Rossano Putzu, 71 anni, di Serrenti, è per tutti “il genio del girarrosto”. Da anni porta in giro per l’Italia e per il mondo un pezzo della Sardegna più autentica, l’arte culinaria. Lo fa costruendo dei particolari girarrosti artistici in grado di sostenere la cottura di decine di maialetti contemporaneamente.

Il girarrosto creato da Rossano Putzu, di Serrenti
Ne ha realizzati a centinaia, dalla moto di Valentino Rossi con il numero 46 alla Ferrari. Non solo tema motori, comunque; una delle sue ultime creazioni è ispirata ai Giganti di Mont’e Prama.

Una delle creazioni di Rossano Putzu
Un’arte, la sua, che potrebbe sopravvivergli: il nipote Diego, 12 anni, è più appassionato a quanto succede nel suo laboratorio che dentro lo schermo di uno smartphone anni porta in giro per l’Italia e per il mondo un pezzo della Sardegna più autentica, l’arte culinaria. Lo fa costruendo dei particolari girarrosti artistici in grado di sostenere la cottura di decine di maialetti contemporaneamente. Che sia lui a prendere un volo o i suoi tanti amici sparsi per il pianeta a raggiungerlo nel suo laboratorio a Serrenti, osservarlo all’opera significa assistere a una coreografia di movimenti precisi che ha affinato nel corso degli anni.
La vita
Rossano viene da una famiglia numerosa, affidato a suo padrino all’età di sei anni si ritrova a Cagliari, spesso a bordo del peschereccio di colui che definisce affettuosamente un maestro di vita, dove inizia a imparare i fondamentali di quella che diventerà una vera e propria passione. «Ogni notte era una festa – racconta Putzu – e tante erano le persone che si fermavano a mangiare con noi, è così che ho imparato ad arrostire i pesci da piccolissimo». Per molti anni si guadagna da vivere facendo il meccanico, poi a un certo punto della sua vita queste due passioni sembrano intrecciarsi e Rossano inizia a dedicarsi alla progettazione e costruzione di particolari girarrosti con design di moto e auto da corsa, dando vita a un’arte unica nel suo genere. Ne ha costruiti a centinaia, dalla moto di Valentino Rossi con il numero 46 alla Ferrari, e non solo a tema motori, una delle sue ultime creazioni è ispirata ai Giganti di Mont’e Prama: «Sono oltre 40 anni che mi dedico a questa passione, alcuni lavori richiedono moltissimo tempo, per la moto di Valentino Rossi ho impiegato più di otto mesi. L’impegno è ben ripagato, di recente ho avuto il grande onore di ricevere un riconoscimento al talento artistico dai miei compaesani».
L’erede
Nessuno dei suoi figli la condivide, ma sembra avere inaspettatamente contagiato suo nipote Diego, un dodicenne più incuriosito dal nuovo girarrosto di nonno Rossano che dall’ultimo modello di smartphone in commercio. «Sin da piccolissimo osservo mio nonno arrostire e costruire i suoi girarrosti – racconta Diego – e ho sempre desiderato poter partecipare, con il tempo ho capito che stava diventando una vera e propria passione. Una delle preparazioni che mi affascinano di più è quella della Carapigna, quest’anno ho finalmente memorizzato la ricetta e ho potuto mettere in pratica le mie abilità realizzando così un grande sogno. Spero di poter portare avanti nel tempo la passione di mio nonno». La Carapigna è un sorbetto tipico della Sardegna, di cui Rossano custodisce gelosamente un’antica ricetta scritta a carbone: «Sin da bambino ha mostrato interesse per quello che faccio – spiega Rossano – quando arrostisco mi osserva sempre incuriosito, si vede che è qualcosa a cui tiene, ha appreso subito la preparazione della Carapigna e ora la realizza in autonomia». Rossano potrebbe aver trovato un degno erede della sua passione e chissà, magari tra qualche anno sarà proprio Diego a sfornare qualche originale creazione in acciaio inox.
14.9.25
Corsa, fatica e record di maratone . Silvia Cancedda, 48enne di Carbonia«Ho iniziato a 40 anni, quante emozioni sulle strade di Sidney e New York»
unione sarda 14\9\2025
La sveglia, quasi ogni mattina, è alle 6. È attesa da almeno venti chilometri di corsa. Che ci sia pioggia o vento, afa o gelo, prima di calarsi nei panni dell’assicuratrice, mestiere che le dà da vivere, indossa quelli della maratoneta, passione che le nutre lo spirito. E che, benché non più ragazzina, l’ha proiettata nell’olimpo dilettantistico di una disciplina tanto antica quanto carica di suggestione: Silvia Cancedda, 48enne di Carbonia, è la prima atleta sarda ad aver conquistato il riconoscimento speciale: aver disputato le sette più importanti maratone al mondo. In Italia sono solo 28 donne ad aver raggiunto questo risultato.
L’ultima impresa
Pochi giorni fa ha corso la maratona di Sidney. In precedenza ha preso parte, giungendo sempre al nastro finale grosso modo dopo quattro ore di fatica estenuante, a quelle di New York, Tokyo, Boston, Londra, Berlino, Chicago. E al traguardo, ad attenderla, c’è sempre stata la bandiera dei quattro mori sventolata dal marito Danilo Pes. In sostanza ne ha corso una all’anno, dato che questa avventura atletica è iniziata con l’impresa di New York quando di anni ne aveva 40. Da allora, segue una filosofia: «Il tempo per me non conta: contano le emozioni che ti danno gli spettatori, gli scenari urbani che si attraversano, l’intimità del pensieri con cui si fanno i conti nelle lunghe ore della competizione».
Gli allenamenti
Levataccia all’alba, Silvia Cancedda si allena in prevalenza in città, negli impianti o sulla ciclabile che porta a San Giovanni Suergiu. II suo rapporto col lo sport non è stato immediato: «Ho iniziato attorno ai 20 anni con nuoto e corsa, poi attorno ai 40 la folgorazione per questa disciplina che è un lungo viaggio: inizia durante la preparazione atletica, che in sostanza si può considerare come la vera maratona, e finisce il giorno della gara per poi ripartire quando mi pongo nuovi obiettivi».
Le nuove sfide
Silvia Cancedda non si accontenta perché il limite delle sette maratone più rinomate al mondo potrebbe essere superato: «Si ipotizza a livello internazionale di includerne altre due, se la forma e la salute mi accompagnano ci sarò». Delle sette imprese, due le sono rimaste impresse: «L’ultima a Sidney – rivela – corsa dopo che per giorni ho dovuto fare i conti con la febbre ma ormai indietro non si tornava, e la prima sei anni fa a New York perché è stato l’esordio, è stata la più dura e per il fascino di quella metropoli».Silvia Cancedda non si è limitata a conservare per se stessa questa passione: ha fatto proselitismo: «Batti e ribatti ho convinto alcuni amici a lanciarsi in questa avventura e partiranno per la prossima maratona di New York: un altro pezzo di Sulcis alla conquista dell’America».
16.6.25
DIArio di bordo n 128 anno III Lui non insegna calcio, insegna vita. il caso di Silvio baldini ., “Dopo l’amputazione sono rinato grazie allo sport, ma ora lo Stato mi ha abbandonato”: la storia di Massimo castellani., «Il judo mi mantiene giovane» A 94 anni Pietro Corona continua a essere un esempio per sportività, stile e classe ., Andrea Cadelano, un sardo a Miami tra business, sogni e solidarietà.,Ballerina italiana ferita durante un'esplosione di Parigi, dopo 6 anni la rinascita di Angela

Pietro Corona è cagliaritano doc, figlio di un impresario edile di quelli tutti d’un pezzo. «Sono nato nel 1931, in seconda media venni rimandato e mio padre mi fece lavorare tutta l’estate come muratore. E si raccomandava al capo cantiere: nessun favoritismo, è mio figlio ma in questo lavoro è l’ultimo, devo solo imparare e obbedire». E così ha fatto: maestro Corona non è mai rimasto con le mani in mano, dopo la scuola ha fatto mille lavori e ha sempre praticato lo spot. «Giocavo a calcio, nella Gennargentu Pacini. Nel 1957 passavo per caso in via Verdi a Cagliari e vidi entrare in una palestra un gruppo di ragazzi vestiti di bianco. Rimasi letteralmente ammaliato da quella visione, li seguii, riuscii a seguire un loro allenamento. Il loro istruttore era Leonardo Siazzu, rimasi così colpito da quello sport che cominciai a frequentare quella palestra, quel gruppo di atleti. Soltanto cinque anni dopo disputai il campionato sardo, il primo organizzato nell’isola: la nostra società contro la Torres di Sassari, in una palestra all’angolo tra via Sonnino e via Grazia Deledda a Cagliari».

Pietro Corona ha cominciato tardi con il judo, ma ha subito dimostrato il suo valore e ha cominciato a ottenere importanti successi. «Ma i risultati più importanti poi li ho avuti da veterano, nella categoria master, dopo che sono andato in pensione: sono diventato campione del mondo nella categoria 66 chilogrammi, ho battuto anche alcuni maestri giapponesi. Una grandissima soddisfazione».L’insegnamento del judo è stato importante per la sua vita: «Ho cominciato in un locale di 50 metri quadri in via Giardini, ma subito grazie al passaparola sono venuti a me tantissimi bambini e giovani, così dopo qualche anno ho dovuto cercare uno spazio più grande, e l’ho trovato qui, a Genneruxi, dove ho aperto la palestra dal 1973». Judo non a tempo pieno, ovviamente. «Ero dipendente del Comune di Cagliari, ho sempre lavorato nel settore dei mercati sino a quando sono diventato direttore di quello di via Quirra: ancora oggi ho un bellissimo rapporto con tante persone che lavorano ancora nella zona di Is Mirrionis, ho sempre cercato di risolvere i problemi per il bene di tutti, spero di aver lasciato un buon ricordo anche negli uffici comunali».

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Andrea Cadelano, un sardo a Miami tra business, sogni e solidarietà
Partito da Cagliari si è stabilizzato in Florida, con delle “fughe” in Kenya per aiutare i villaggi senza acqua potabile
Al centro Andrea Cadelano dopo aver ripulito con un gruppo di amici le spiagge di MiamiBallerina italiana ferita durante un'esplosione di Parigi, dopo 6 anni la rinascita di Angela
17.4.25
l'ospedale delle bambole ,"Europol e Frontex non si scambiano dati per non violare la privacy dei trafficanti" , cameriere robot licenziato ma ancora richiesto dal pubblico
Ecco le storie e non solo di questo numero .
La prima è di come nonostante il paese sia svenduto ( è notizia di questi giorni della vendita e della : << Bialetti venduta, il made in Italy delle caffettiere ora parla cinese >> di Wired Italia >> ) A napoli c'è un ospedale per gli antichi giocattoli non solo bambole .Un laboratorio bambole orsetti e tanti giocattoli d’infanzia, così stropicciati e feriti dal tempo, riprendono luce. Pezzo per pezzo, cucitura dopo cucitura li restituiamo ai proprietari emozionati, in un attimo di nuovo bambini. Utilizziano antiche tecniche di restauro per recuperare porcellana, legno, cartapesta, plastica, latta; recuperiamo stile, acconciature (parrucche sintetiche, mohair, prodotti specifici) e vestitini di una volta perché non perdano la loro storia (riproduciamo merletti, tessuti e modelli dall’800 ai giorni nostri.) Curiamo anche teneri peluche! Lavaggio, sarciture, imbottiture, trapianto occhi, trapianto nasi, sostituzione di vero pelo. Nel reparto trapianti abbiamo raccolto negli anni braccia, gambe, occhietti e voci diverse per curare tutte le bambole che ci vengono affidate.Sembra retorico affermare che dal 1800 ad oggi, attraverso quattro generazioni, l’Ospedale delle Bambole prosegua un discorso artigianale nato dall’amore per il bello, per tutto ciò almeno che bello era ma che il tempo e altro hanno sconvolto e che proprio in virtù di questo amore ritorna ai fasti di un tempo. Infatti come dicono le proprietarie << Il restaurare oggetti, Santi, pastori bambole diventa nell’ospedale artigianato di qualità, diventa arte proprio perché le quattro generazioni citate si sono tramandate, oltre a tutti i segreti del mestiere, l’amore, la passione e il desiderio di restituire il sorriso a chi in fila, davanti alla porta di questa singolare bottega attende, come in un ambulatorio il proprio turno; ci sono adulti, bambini, tutti per lo stesso motivo: ritrovare nei propri oggetti lo splendore perduto.>>( da Ospedale delle Bambole il sito dell'attività )
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| dalla loro pagina fb https://www.facebook.com/OdBNapoli |
"Europol e Frontex non si scambiano dati per non violare la privacy dei trafficanti"
Cameriere robot “licenziato” dal bar di Treviso dopo soli 4 giorni. «Vengono ancora a chiederci di lui»
TREVISO - Quella mattina di un anno fa, in Piazza dei Signori, sembrava l'inizio di una piccola rivoluzione. Al bar Signore&Signori, storico locale nel cuore del centro, era arrivato Bob: non un nuovo cameriere in carne e ossa, ma un robot. Moderno, operoso e silenzioso, programmato per portare con precisione piatti e bevande ai tavoli, aveva destato curiosità e simpatia tra i clienti ancora prima di servire il suo primo caffè.
Peccato che il suo servizio sia durato appena quattro giorni: tra la pavimentazione irregolare e la calca degli avventori, Bob ha dovuto issare bandiera bianca. Eppure, a distanza di più di un anno, qualcuno continua a chiedere di lui, spinto dalla curiosità per quella particolare parentesi hi-tech. «Vengono ancora a chiederci del robot – racconta il titolare Luca Marton –, anche la settimana scorsa qualcuno l’ha nominato».
L’idea era semplice: non sostituire il personale, ma alleggerirne il lavoro, rendendo il servizio più veloce e, nelle intenzioni, anche più efficiente. Per il titolare Luca Marton, Bob era "un aiuto concreto, non un rimpiazzo", una sorta di compagno di squadra metallico che avrebbe permesso ai camerieri di concentrarsi di più sui clienti, risparmiando loro le corse dalla cucina alla sala. Il robot, dal valore di 20mila euro, era stato presentato con entusiasmo: mappatura autonoma del locale, velocità fino a 20 km/h, programmazione personalizzata. Insomma, tutto faceva pensare a un perfetto connubio tra tecnologia e ospitalità. E invece, dopo soli quattro giorni di prova, l’avventura si è interrotta.
DIFFICOLTÀ
Il motivo? A tradire Bob non sono stati i circuiti, ma i sampietrini. «Qui faceva fatica perché il terreno è accidentato» racconta oggi Marton, con un sorriso tra l’amaro e il divertito. Piazza dei Signori, con la sua antica pavimentazione irregolare, si è rivelata un ostacolo insormontabile per il robot cameriere, che se la cava egregiamente, invece, sulle superfici lisce e lineari. Il bar, poi, vive di un’umanità disordinata: gruppi che si spostano all’improvviso, clienti che si alzano e si siedono, tavoli disposti a seconda delle esigenze. Bob, abituato a seguire un percorso prestabilito, era incapace di districarsi tra avventori in continuo movimento. «La domenica qui sembra di essere a Roccaraso» scherza Marton, riferendosi alla folla che riempie il locale nei giorni più gremiti. Con quel via vai, anche il robot più evoluto si ritrovava spaesato. E così, dopo quattro giorni di tentativi, il piccolo cameriere è stato messo da parte.
IL FUTURO
Nonostante la breve esperienza, Marton non ha dubbi: «Quella tecnologia è il futuro, è già una realtà nei locali con spazi più adatti. Al Sud queste macchine vanno a ruba», osserva. Nel frattempo, al Signore&Signori, il personale è tornato a servire senza aiuti meccanici: quattordici dipendenti in carne e ossa, una squadra che, tra pioggia, sole e gruppi di turisti, continua a fare il suo lavoro con l’elasticità e l’intuito che, almeno per ora, le macchine non possono replicare. Ma a quanto pare, la memoria di Bob continua a vivere nei ricordi dei clienti: «Vengono ancora a chiederci del robot – racconta il titolare –, anche la settimana scorsa qualcuno l’ha nominato». La storia del piccolo cameriere finito a riposo dopo appena quattro giorni fa sorridere, ma solleva anche uno spunto profondo: la tecnologia, per quanto brillante, non sempre può sostituire l’esperienza umana. Soprattutto in luoghi dove a contare non è solo la velocità, ma anche la capacità di adattarsi al momento, agli imprevisti e a quell’atmosfera viva che rende un bar come Signore&Signori un piccolo pezzo di comunità. Bob, intanto, aspetta tempi (e pavimenti) migliori.
10.10.24
«Mi rimanevano 3 anni da vivere a causa di un tumore terminale, ma una nuova passione mi ha rimesso al mondo»
Un tumore terminale che le lasciava tre anni di vita: «Pensavo che la mia vita fosse finita», ricorda la giovane mamma con angoscia. Poi qualcosa è cambiato e una nuova passione le ha permesso di rinascere, di riprendere in mano il suo futuro e combattere per rimanere il più a lungo
possibile con la sua famiglia, per veder crescere i suoi figli e trovare la felicità, giorno dopo giorno. Ora Michelle sogna di diventare un'atleta e partecipare al triathlon, nonostante non sapesse né nuotare né andare in bici, e questo obiettivo le ha dato modo di esplorare una nuova prospettiva: «Il cancro non mi definisce».Il viaggio di Michelle
Michelle Hughes aveva 34 anni quando, dopo la nascita del suo terzo figlio, è collassata in casa. Non ci è voluto molto per la diagnosi: numerosi tumori ai polmoni e 15 cisti al fegato. Inoperabili. I dottori le hanno detto che le rimanevano tre anni. La prima reazione è stata terribile: «Improvvisamente ho perso la vita che avevo immaginato per me e la mia famiglia». Poi un sogno l'ha fatta uscire dal tunnel e ha iniziato un percorso per diventare una triatleta, pur non essendosi mai dedicata né alla corsa né al nuoto. Eppure da allora ha preso parte a 12 eventi podistici, tra cui una mezza maratona. Ad agosto ha completato un mezzo triathlon - come riporta il DailyMail - ripercorrendo il tragitto dall'ospedale dove ha ricevuto la diagnosi fino alla sua casa estiva. Proprio quest'impresa è stata trasformata in un breve documentario. Sui social scrive: «Tenevo in braccio il mio bebè di tre settimane ed ero seduta accanto a mio marito quando l'oncologo ha detto che mi restavano cinque anni di vita, probabilmente tre. Le mie bambine avevano cinque e due anni all'epoca». La consapevolezza di non avere molto tempo a sua disposizione l'ha spinta a vivere il più intensamente possibile: «Non avevo capito, allora, che la mia vita era appena iniziata. Mi era stato fatto il dono di sapere che sarebbe stata più breve di quella di molti altri, e dovevo smettere di stare seduta ad aspettare la morte». Alla Michelle è stato diagnosticato un raro sarcoma chiamato emangioendotelioma epitelioide (EHE), che ha origine nelle cellule che rivestono i vasi sanguigni, più comune tra i giovani, gli adulti di mezza età e le donne.Oggi ha 37 anni, sono passati tre anni dalla diagnosi, e ha realizzato il suo sogno: «A tutti i miei compagni che lottano contro il cancro, ai ai sopravvissuti, ai vincitori e a quelli che il cancro ha rubato, lo faccio per voi. Per noi. Ora sono una triatleta».
28.12.23
social legioni di complottisti da tastiera stanno mettendo in dubbio non solo la qualità ma anche la veridicità della straordinaria foto di Valerio Minato su Superga, il Monviso e la Luna, premiata dalla Nasa per la sua meraviglia.
Dando un occhiata alle bache dei followeras di fb ho appreso che Valerio Minato, un fotografo professionista di Biella, classe 1981, ha vinto il premio come foto del giorno della Nasa nel giorno di Natale
Singoli scatti come questo richiedono pianificazione. Il primo passo è rendersi conto che un triplo allineamento così sorprendente ha effettivamente luogo. Il secondo passo è trovare la posizione migliore per fotografarlo. Ma era il terzo passo: essere lì esattamente al momento giusto... E quando il cielo era sereno, quella era la cosa più difficile. Cinque volte in sei anni il fotografo ha provato e trovato maltempo. Finalmente, solo dieci giorni fa, il tempo era perfetto e un sogno fotografico si è realizzato. Scattata in Piemonte, Italia, la cattedrale in primo piano è la Basilica di Superga, la montagna al centro è il Monviso, e, beh, sapete quale luna c'è sullo sfondo. Qui, anche se la Luna al tramonto è stata catturata in una fase crescente, l'esposizione era abbastanza lunga per la luce terrestre doppiamente riflessa, chiamato bagliore da Vinci, per illuminare l'intera parte superiore della Luna.
non so cos'alòtro dire davanti a tale bellezza
Divine messengers: Italian nuns’ social media posts go viral - Messaggeri divini: i post sulle suore italiane sui social media diventano virali
fonte the https://www.theguardian.com/world/2025/dec/25/divine-messengers-italian-nuns-social-media-posts-go-viral Divine messengers: ...
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Come già accenbato dal titolo , inizialmente volevo dire Basta e smettere di parlare di Shoah!, e d'aderire \ c...
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iniziamo dall'ultima news che è quella più allarmante visti i crescenti casi di pedopornografia pornografia...
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Ascoltando questo video messom da un mio utente \ compagno di viaggio di sulla mia bacheca di facebook . ho decso di ...




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