IL post d'oggi , soprattutto per noi sardi o sardi d'oltre mare o sardi acquisiti dovrebbe è sintgetizzabile ed posso se vogliono evitarlo d leggello . da questa poesia po trasformata in canzone tradizionale rappresentata qui in due versioni una classica
ed una moderna
che con il testo qui la traduzione descrive benissimo la situazione non solo della mia isola ma della nostra amata \ odiata italia
Nanneddu meu su mundu est gai,
a sicut erat non torrat mai.
infamidades e carestias;
Semus in tempos de tirannias,
gridende forte "cherimus pane".
commo sos populos cascan che canes
Famidos nois semus pappande
terra ch'a fangu, torrat su poveru
pane e castanza, terra cun lande;
senz'alimentu, senza ricoveru.
Semus sididos, issa funtana
Cussas banderas numeru trinta
de binu bonu mudana tinta;
appena mortas cussas banderas
non pius s'osservan imbriagheras.
e tantu l'ides: su mundu est gai
pretende s'abba parimus ranas.
Abbocaeddos, laureados,
buzzacas boidas e ispiantados.
Adiosu Nanni, tenet'a contu,
a sicut erat non torrat mai.
fache su surdu, ghettad'a tontu;
Infatti vedendo la mostrta , organizzata da L'ISRE – Istituto Superiore Regionale Etnografico
e la casa editrice Ilisso ,Max Leopold Wagner – Fotografie della Sardegna di un linguista antropologo
Nuoro, Museo del Costume, 25 maggio-30 settembre 2018 orari: 10.00-13.00 / 15.00-20.00 (lunedì chiuso) ne ho tratto questa considerazione : Se siamo quello che siamo lo dobbiamo a loro . Cultura che stiamo perdendo o rendendola a folkore . c Pensiero che spiega benissimo il perchè della scelta di tale canzone .
Consiglio vivamente di vedere sia il museo anropologico di Nuro sia la mostra In essa si descrive La Sardegna in ottanta scatti, o meglio, in ottanta “punti”: ottanta fotografie che vanno oltre gli elementi oggettivi che le compongono per fissare alcune tra le più emblematiche immagini del mondo agro-pastorale sardo. E fanno emergere aspetti emotivi dolorosi come ferite.
E’ l’Isola (che non c’è più ) vista dall’occhio di Max Leopold Wagner, “il padre della linguistica sarda”, nato a Monaco di Baviera nel 1880 e morto a Washington nel 1962,
L’esposizione – operazione voluta e patrocinata dall’Isre (Istituto Superiore Regionale Etnografico) e dalla casa editrice Ilisso - è un omaggio all’incommensurabile amore, fermamente ricambiato, di Max Leopold Wagner per la Sardegna. L’antropologo linguista con la sua opera non solo portò alla luce gli aspetti più importanti dell'idioma isolano, dalla fonetica alla morfologia, dalla formazione delle parole al lessico: ma ne ritrasse alcuni momenti irripetibili, in un gioco di rimandi che è insieme assenza nella presenza.
Da queste fotografie emerge un invisibile, che ci guarda e agisce sulla nostra memoria. Infatti secondo la presentazione fatta dal'Isre sardegna [---] La sua tipologia di approccio fotografico è di natura documentale: immergersi il più a lungo possibile nel sociale più primitivo, fra la gente che non avesse «un certo grado d’istruzione», intercettando nel linguaggio la «struttura sintattica della frase», sentendo con essa il pensiero, arrivando quindi in profondità ai caratteri coi quali entrava in contatto. Dunque Wagner non si fa solo mero compilatore di «una lista di parole»: vuole conoscere a fondo e dall’interno la cultura che sta esaminando.
La sua ricerca fotografica va per gradi, attraverso un climax costante: il primo livello è quello dello spectrum: il villaggio viene fotografato da lontano, nel suo insieme, immerso nel suo paesaggio; successivamente l’immagine si ravvicinava sempre più, entrava nelle vie, nelle strade. Cerca, passo più difficile, di varcare la soglia delle abitazioni, posandosi infine sulle cose e sugli uomini. [---] Ciò che si nota vedendo leìle quattro sale della mostra ( possibilmnete unite ad un a visita del resto del museo )
è un atmosfera magia: un ritratto corale, d’insieme e particolareggiato nello stesso istante: un’istantanea storica del sociale più primitivo, dalla cui profondità emerge l’anima e il pensiero dell’Isola dei primi anni del secolo scorso , ormai distrutta o quasi dall'impetuoso sviluppo della modernità ( la costa smeralda e le industrie di rapina diventate poi cattedrali nel deserto ) .
Wagner visitò numerose località della Sardegna, per molte delle quali non ci sono rimaste documentazioni fotografiche. Questa mostra - come si evince dagli scritti - mostra la sua predilezione per i villaggi rurali piuttosto che per le città, le cui dinamiche, condizionate da sempre dalla maggiore frequenza degli scambi con l’esterno, sono state di minore interesse per i suoi studi da antropologo.
Il tedesco - che usò una camera 9 x 12 con cavalletto - non era certo un maestro della fotografia: le sue immagini risultano spesso sfocate, difformi per qualità se guardate nell’intero corpus. La connotazione tecnico formale in Wagner non è scevra se vogliamo da una certa trascuratezza o imperizia tecnica, cui sono da imputare i numerosi difetti delle immagini, sovra e sottoesposizioni, mossi, impronte digitali sulle emulsioni, graffi e abrasioni dei negativi, non sempre dovuti a una corretta conservazione. Ma nonostante ciò c’è una profondità diversa, nelle sue immagini: che non è la classica profondità del campo. E profondità dell’anima dell’autore che fa emergere, nitida e abbagliante, quella più autentica e più profonda di una Sardegna ormai perdutao strandardizzata ad uso del turismo di massa .
rivedendomi in una serata noiosa e fredda di quest'estate ormai prossima al finire , in dvd il film il vento fa il suo giroUn film di Giorgio Diritti 2005
mi ha riportato alla mente sia lo sfogo che riporto qui ( chi ha facebook clicchi qui per l'intera e interessante , 120 commenti , discussione ) per chi non avesse fb o non avesse me o il mio compagno di strada facebookiano e non solo lo scrittore e dirigente al Ministero della Giustizia Giampaolo Cassitta.
Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato e perché i miei genitori e i miei nonni e bisnonni e trisavoli lo erano. Avevano calpestato prima di me questa terra.
La Sardegna è la mia terra. La sento intensamente mia, fiabescamente mia,terribilmente mia. Ho giocato negli stazzi galluresi fin da piccolo perché mia nonna ci abitava. Nella “cussogghja” di Austinacciu. Ho respirato quell’aria. La casa era costruita in maniera semplice: la camera centrale e due camere da letto. Lu “pinnenti” adiacente, lu forru per la cottura del pane e dei dolci e la “casedda” vicina all’abitazione principale; una sorta di cambusa dove era possibile trovare tutto. A quei tempi, nei primi anni settanta non c’era la corrente elettrica.
Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati.
Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio.
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.
Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati.
Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio.
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.
sia l'attualità di quanto scrissi tempo fa su queste pagine più precisamente qui
sia i ricordi di quando ero bambino ( prima della morte dei miei nonni materni e la successiva traformazione da campagna ad vivaio florovivaistico ) : l'allevamento di bestiame ( maiali e galline ) , l'orto e le api i loro prodotti , ed i loro riti \ feste ( uccisione e lavorazione dei maiali , vendemmia , conserve di pomodori , e degli altri prodotti dell'orto raccolta delle uova e del miele . Ma per chi ne volesse sapere di più oltre i link riportati sopra ecco la parte riguardante gli stazzi ed il modulo abitativo della Gallura , della mia tesi di laurea
(....)
L'altra
caratteristica della Gallura è quella del popolamento dell'interno e l'abbandono delle coste.
Infatti : « [...] Le condizioni storiche che causarono lo
spopolamento sono da ricercare nello stato di abbandono generale nel quale si
trovava tutta la Sardegna, dopo alcuni secoli di dominazione spagnola
[o anche prima secondo altri studi] a
questa si aggiungevano le frequenti incursioni saracene lungo le coste e si
capisce il motivo per cui nella Gallura marittima esisteva il solo villaggio di
Olbia. Gli altri erano raggruppati alle falde del Limbara (Aggius, Bortigiadas,
Tempio, Luras, Calangianus e Nuchis)».[1]
La colonizzazione delle zone
abbandonate fu la conseguenza di una notevole immigrazione dalla vicina
Corsica; in seguito ulteriormente rafforzata, nei primi anni del Settecento,
anche dal movimento della gente dell’interno, per lo più pastori, che dai
villaggi, nelle loro transumanze, si spingevano fino alle zone disabitate. Si
trattava in genere di migrazioni temporanee. Erano soliti abbandonare il
villaggio nel tardo autunno per poi rientrare al villaggio d’origine,
all’inizio dell’estate, quando era terminata l’annata agricola. Durante questo
periodo, all’inizio, soggiornavano in strutture di fortuna utilizzando come
abitazione qualche nuraghe o, più spesso le spelonche scavate nella roccia
dagli agenti atmosferici. In seguito furono costruiti i “cuponi”, capanne
circolari di pietre a secco con il tetto ricoperto di frascame, in pratica gli
antenati della casa dello stazzo.
La prima fase della colonizzazione,
caratterizzata dalla presenza di insediamenti temporanei presenta quindi in
prevalenza un’economia di tipo pastorale allo stato brado. In seguito con il
formarsi dei primi insediamenti fissi si intraprendono anche attività agricole
e di allevamento più intensivo Tale
insediamento rurale fu tipico del nord
Sardegna e della Corsica principalmente della Gallura.
IL termine "stazzo"(in gallurese lu
stazzu) deriva dal latino "statio", stazione, luogo di sosta Esso
Indica contemporaneamente l'azienda contadina e la costruzione in cui abita il
proprietario ed è costituito da un'abitazione di forma grossomodo rettangolare
costituita da blocchi di granito e all'interno suddivisa in massimo due
ambienti ,ma più spesso da un monolocale. All'esterno era spesso annesso il
forno (lu furru) ed un piccolo magazzino (lu pinnenti). Raramente un edificio
nato come stazzo si eleva oltre il piano terreno, ed in questo caso viene definito
palazzo (lu palazzu) ,. Si può quindi parlare organismi \ strutture a funzione complementare
agricola e pastorale, organizzati in modo da essere autosufficienti, disponendo
di coltivi, pascoli, seminativi, nonché di una o più dimore.
Un insieme di stazzi formavano la cussorgia (la cussogghja), un'entità geografica e
sociale unita da vincoli, particolari ed insoliti, di forti di amicizia e
collaborazione soprattutto di ordine prevalentemente morale, specie durante il ciclo agricolo o in occasioni
particolari come la trebbiatura, la vendemmia o la costruzione di un recinto,
tutti i vicini di un proprietario formano una squadra di lavoro che presta
gratuitamente la propria opera.
Un altro esempio di vincolo esistente tra i "cussoghjali"
è quello della punitura. Questa norma dicomportamento prevede che
chiunque abbia perduto il gregge, per sorte avversa o per furto o per
ritorsione, riceva in dono dai vicini un capo bovino o ovino.
Le case erano, prima
d'essere abbandonate o “modernizzate”, piccoli capolavori di quella che può
essere definita un'architettura molto semplice e spontanea. Difficilmente si
notano le poche che non hanno subito radicali trasformazioni, spesso pacchiane:
il loro impatto ambientale è pari a quello, di quelle poche che vengono curate,
dei muretti a secco, ulteriore e fondamentale elemento della geografia
gallurese, segni dell'uomo integrati nel tessuto agrario. Infatti essi hannorappresentato in Gallura il
fulcro della vita rurale di migliaia di pastori-agricoltori per centinaia di
anni cioè fino alla fine XIX e inizi del XX secolo, quando la sua
caratteristica viene messa discussione negli anni ‘50 con il
fenomeno di migrazione dalle campagne verso i nuovi centri abitati (il
cosiddetto boom economico e l’avvento del turismo) con l’affermarsi di nuovi
sistemi economici e nuovi
la nuova sardegna del 24\8\2013
modelli di vita, e poi dagli anni '60\80 quando si
sono diffusi i fenomeni dell'inurbamento delle coste e poi la
sub-urbanizzazione delle campagne portano in pratica alla fine della civiltà
dello stazzo. Ma ancora
persiste soprattutto nelle località marittime snaturato nella sua funzione
originaria dal fenomeno delle seconde e terze case e secondo alcuni dalla
trasformazione \ riadattamento in agriturismi e B;B dotati dei migliori
comfort , talvolta inutili e fuorvianti come la piscina
I motivi della scomparsa del
modo di vita, della civiltà dello stazzo, sono da ricondurre all'evoluzione del
sistema economico.
L'economia basata sull'autoconsumo,
sull'impiego intensivo della forza lavoro non può reggere di fronte alla
concorrenza delle grandi aziende basate su una spinta meccanizzazione, elevata
standardizzazione del prodotto. Il supermercato decreta la fine della
produzione artigianale,parcellizzata. La politica agraria e sociale della
regione sarda non ha saputo cogliere l'importanza dello Stazzo, insieme ad esso
sono scomparse, l'insediamento sparso, la cura del territorio e dell'ambiente
rurale, la civiltà ad esso legate, una parte
pezzo importante irriproducibile della nostra Isola.
[1]
P.SUELZU Lo stazzo Gallurese,in Atti
del Convegno. "Coment'era” ,Viddalba 9 giugno 2007.pp.69-76 ,Alghero 2008