7.4.25

Non si muore perché si rivendica troppa indipendenza: come non si racconta un femminicidio Siamo ancora fermi ad una narrazione sbagliata che cade spesso nella vittimizzazione secondaria e non affronta la vera questione culturale

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Da quel  che   leggo  anzi meglio  sfoglio ,   alla  ricerca  di  sfatti  e  storie   o   altri articoli  interessanti  di dibattito     sui media  e  social  su gli ultimi due    (  per  ora  )  femminicidi   mi rendo sempre  più  conto   che  il  discorso (  Ⅰ testo ⅠⅠ video   )  della  Manocchi  fatto qualche  giorno  fa    a  Propaganda live  su  la 7   viene     conferma  sia  la  mia  elaborazione     di un articolo   trovato su  msn.it  che  trovaste  sotto  sia  che   è  il  linguaggio  o  meglio  la  narrazione  di come   tali fatti  vengano riportati   sui : media   ,  soiciale  e  blog  compresi  . 
 Infatti     (  e  qui  inizia  la  mia     riflessione  \  rielaborazione   )  Dall’inizio dell’anno fino ad ora sono 13 i casi di femminicidio avvenuti in Italia.
 Nonostante la loro frequenza e la portata mediatica che hanno alcuni casi più di altri, che arrivano a manipolare l’opinione pubblica e il dibattito collettivo per giorni e giorni, abbiamo ancora difficoltà enormi nella comunicazione che – ricordiamolo – nel caso dei femminicidi e di violenza non solo fisica coincide completamente con la narrazione dei fatti.
 Infatti « si fa ancora molta difficoltà secondo quanto riportato in quest articolo di https://www.wired.it/ , a comprendere che sono ben pochi i casi in cui i femminicidi sono il frutto di raptus episodici e molto più di frequente, invece, rappresentano la conseguenza di una serie di fatti concatenati e regolamentati culturalmente. I movimenti femministi [    è questo  è uno  dei motivi  chhe  condivido    , anche  se  sono  critico   verso  certi asetti del femminismo  come  ho detto   precedentemente  ]  e la loro copiosa produzione letteraria insistono da sempre sul fatto che il femminicidio è parte integrante di una struttura culturale che promuove la misoginia e la violenza sulle donne, un problema sistemico reso ancora più pericoloso perché normalizzato al punto da essere diventato invisibile. ».
Ma sappiamo anche molto bene che nella nostra società, la voce delle femministe e le loro analisi, seppur storicamente solide e consolidate, non trovano  salvo rari casi   un posto centrale nella formazione culturale ed è anche per questo motivo se non sono conosciute, lette o considerate.  Infatti 
Negli ultimi anni, la grande industria culturale del crime ci ha abituate e abituati ad un tipo di narrazione romantica che contribuisce alla confusione della diffusione di un problema. È accaduto anche nel caso   solo  per fare  un esempio recente  di Sara Campanella quando nelle prime ore dalla diffusione della notizia, abbiamo assistito a una narrazione profondamente sbagliata, dalle istituzioni alle forze dell’ordine, dai conduttori televisivi ai giornalisti. Fin dal primo giorno di cronaca abbiamo letto e ascoltato frasi come: “ha rifiutato le attenzioni di”, “non ha ricambiato l’amore”, “è stata vittima di un’affermazione di indipendenza che potrebbe essere stata fatale” oppure “il delitto è avvenuto per motivi sentimentali”. È tutto sbagliato.
Non si muore perché si rivendica troppa indipendenza, come ci è capitato e  ci capita   di leggere sui giornali . Troppa indipendenza per chi? E, soprattutto, dipendenza da chi?
E l’amore non è, e non può mai essere, un movente e quindi anche una giustificazione a  meno  che   non si  parli  d'amore  tossico \  malato ) per commettere un femminicidio. Dobbiamo imparare a riconoscere questo tipo di narrazione e soprattutto contrastarla perché veicola un concetto molto chiaro e pericoloso che ha attraversato l’intera storia delle donne: ovvero quello secondo cui le donne valgono meno, e se valgono meno è perché sono subordinate alla soggettività maschile. Se la violenza agisce, fino alla sua massima manifestazione che è la morte, è perché ci troviamo davanti a un processo di deumanizzazione, secondo cui disporre della vita delle donne significa di fatto negare loro il diritto di esistenza ma significa anche, cosa di cui ci dovremmo occupare urgentemente, pensare di avere il potere per farlo. E questo pensiero è sempre ricorrente nella volontà di un femminicida.
Esiste anche un’altra questione profondamente sbagliata e che ciclicamente si ripropone all’alba successiva di un nuovo femminicidio e consiste nella vittimizzazione secondaria della vittima. Non dovremmo mai cadere nell’errore di giudicare la capacità delle donne di riconoscere i segnali per tempo o la possibilità di denunciare o no, eppure è frequente leggere la domanda retorica: perché non ha denunciato prima?
Se le donne non denunciano o  lo  fanno  solo  tardi   alcune  ormai  prossime  alla   morte  (  vedere  questa   storia   da  noi riportata  in cui   una  donna  ha  asettato   ben  50  anni   prima di denunciare il  marito )  è perché sono immerse nella stessa identica cultura che impedisce all’intera società di riconoscere la misoginia e la violenza.
Ci troviamo davanti a un fenomeno incredibile di persone adultee  purtroppo   non solo    basta  vedere  certi  testi    rap o  Trap  o   di quelli    che   con estrema facilità, puntano il dito contro le donne che non denunciano a tragedia avvenuta ma, prima, non sono capaci di interessarsi e prendersi cura delle questioni che riguardano la nostra società. Lo abbiamo visto anche con il dibattito scomposto scaturito da una serie come Adolescence, la cui vicinanza temporale e tematica con questi ultimi fatti di femminicidio è sorprendente.
Perché Adolescence non è solo una storia di femminicidio a tutti gli effetti ma è anche una storia sulla fragilità di una intera generazione di uomini di cui dobbiamo farci carico.
A tal proposito, in questi giorni abbiamo letto che l’assassino di Sara Campanella, è un ragazzo molto giovane di 27 anni. Una precisazione: a 27 anni si dovrebbe avere già un bagaglio educativo importante che include la gestione della sfera emotiva: rabbia, dolore, rifiuto, fallimento, negazione. Imparare a gestire le emozioni negative è incluso o  almeno  dovrebbe essere  in quella educazione sentimentale che oggi manca completamente, soprattutto nella crescita dei giovani maschi. È necessario iniziare da piccoli, dalla pre-adolescenza fino all’adolescenza. Ed è un lavoro che non può essere solitario o  lasciuato all'improvvisazione  di qualche  coraggioso maestro\a ,  prof   o  educatore  dal momento che dipende completamente dalla struttura culturale in cui siamo immersi. Se ,  come   fanno notare  quei pochi  siti  o media  che  ne  parlano  con spirito critico    come   il sito citato , continuiamo a mantenere una struttura sociale e  culturale misogina e violenta che promuove una certa idea di maschilità, e una  classe  politica  (  aggioranza  ed  oposizione  )    che    tutta  chiacchere  e  distintivo  (  cit  )   che  non riesce  a  fare  una  politica   culturale  seria    se  non solo     aumentare  le pene o  strumentalizzare la  cosa  quando     un  femmnicidio   avviene   da stranieri  o   da  nuovi italiani (  vedere  il  caso  Sula  ) ,    non solo condanniamo le donne a morte certa ma condanniamo anche i giovani uomini al soffocamento delle loro identità.

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