Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
28.3.25
l'ora della verità - di ® Daniela Tuscano
21.1.25
Gaza, prigionieri “terroristi” e ostaggi “innocenti”: la narrazione che oscura la verità
Quando si parla di Palestina, la disinformazione è un’arma potente che perpetua lo status quo. Da decenni, la narrazione del conflitto israelo-palestinese è dominata da una distorsione sistematica della realtà, radicata nel linguaggio e nelle scelte editoriali dei media. L’esempio più recente è avvenuto su Radio3, durante la rassegna stampa di Prima pagina, quando il giornalista incaricato della lettura dei giornali per questa settimana ha presentato la questione dei prigionieri palestinesi attraverso un doppio standard: gli ostaggi israeliani sono "innocenti", mentre i prigionieri palestinesi sono tutti "terroristi".
Prima di ogni cosa, va ricordato che i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane non sono tutti necessariamente terroristi e, in molti casi, sono rinchiusi senza un valido motivo. Inoltre, gli accordi per il cessate il fuoco escludono dal rilascio i prigionieri condannati per gravi reati di terrorismo, sebbene contemplino alcuni condannati al carcere a vita. Presentare questa complessa realtà come una semplice dicotomia tra "buoni" e "cattivi" è fuorviante e mistifica i fatti.
Un ascoltatore ha giustamente osservato che il valore della vita non può essere separato dal contesto in cui si svolge la sofferenza. La repressione israeliana verso il popolo palestinese, che lotta da oltre 76 anni per il riconoscimento dei propri diritti e la fine dell’occupazione, si inserisce in un quadro storico, culturale e sociale complesso. Questa visione binaria, che riduce la realtà a un banale scontro tra buoni e cattivi, è un atto di violenza narrativa.
Il termine "terroristi" non rende giustizia alla condizione di molti prigionieri palestinesi. Migliaia di loro sono detenuti in condizioni che violano i diritti umani, spesso privati della libertà senza accuse formali né processo, attraverso il meccanismo della detenzione amministrativa. Questo sistema non solo condanna senza prove e senza processo, ma rende invisibili agli occhi dell’opinione pubblica internazionale uomini, donne e ragazzi, come parte di una strategia di repressione e disumanizzazione. Inoltre, la detenzione amministrativa è uno strumento di controllo utilizzato per reprimere il dissenso politico e mantenere il potere sulle popolazioni indigene senza rispettare il diritto internazionale.
Mentre, per esempio, la liberazione di Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher, tutte in buone condizioni di salute, è stata raccontata con tale dovizia di particolari che adesso quasi conosciamo se preferiscono il caffè dolce o amaro, non altrettanto si può dire delle 69 donne palestinesi e 21 minori, provenienti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, rilasciati nelle prime ore di lunedì 20 gennaio. Le loro storie non hanno ricevuto la stessa attenzione: di loro sappiamo ben poco. Sono numeri, senza nome e senza volto, ai quali non viene riconosciuta dignità di identità.
Fra le donne rilasciate c’è una irriconoscibile Khalida Jarrar, la cui salute è tutt’altro che buona. Parlamentare e dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), è stata arrestata più volte per la sua attività a difesa dei diritti palestinesi. Negli ultimi sei mesi è stata sottoposta a isolamento in una cella di 2 metri per 1,5 e ad altre misure punitive imposte per i prigionieri politici palestinesi dal ministro israeliano per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, come misura ritorsiva dopo l’attacco del 7 ottobre. Arrestata nel dicembre 2023 con l'accusa di "sostegno al terrorismo", è stata trattenuta in detenzione amministrativa senza processo.
Un'altra è la giornalista di Watan News, Rula Hassanein, arrestata dalle forze israeliane il 19 marzo 2024 – nel corso di un raid notturno durante il quale sono stati effettuati arresti di massa -, con l’accusa di incitamento alla violenza sui social per post che, a quanto si dice, manifestavano la sua frustrazione per la sofferenza dei palestinesi a Gaza. Il video in cui Hassanein, con le lacrime agli occhi, riabbraccia la figlia che era stata costretta a lasciare quando aveva solo 8 mesi, non risulta sia stato diffuso dai media mainstream.
Abdelaziz Atawneh, un ragazzo di 19 anni, arrestato il 21 ottobre 2023, ai giornalisti ha detto: "Ho lasciato l'inferno e ora sono in paradiso. Siamo tutti fuori dall'inferno. Ci violentavano, ci picchiavano, ci lanciavano gas lacrimogeni". Il più giovane fra gli scarcerati, Mahmoud Aliwat, ha 15 anni.
Secondo la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e degli ex detenuti e la Società dei prigionieri palestinesi, sono 10.400 i palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, escludendo quelli arrestati a Gaza negli ultimi 15 mesi di guerra, di molti dei quali si sono perse le tracce. Tra questi, il caso emblematico è quello del dottor Hussam Abu Safiya, primario di pediatria e direttore del Kamal Adwan Hospital di Beit Lahiya, arrestato dall’esercito israeliano il 27 dicembre 2024 insieme ad altro personale medico e alcuni pazienti, durante l’attacco che ha distrutto l’ultima struttura ospedaliera parzialmente funzionante nel nord della Striscia. La foto che lo ritrae, solo, col camice bianco, mentre avanza su una montagna di macerie verso i carri armati israeliani, ha fatto il giro del mondo.
Da allora, sono state lanciate decine di petizioni per chiederne il rilascio, compresa una di Amnesty International, ma di lui non si sa più nulla. "Arrestandolo arbitrariamente, rifiutando di rivelare dove si trovi e di concedergli l’accesso a un avvocato, le forze israeliane hanno commesso gravi violazioni del diritto internazionale, compreso il reato di sparizione forzata", ha scritto Amnesty Italia in un post su Instagram, cinque giorni fa.
Il problema non è solo il trattamento differenziato fra "prigionieri" e "ostaggi", ma la complicità dei media nel perpetuare una narrativa distorta. Non si tratta di semplici errori, ma di una negligenza grave che alimenta la retorica della "legittima difesa" israeliana, ignorando la violenza sistematica inflitta a milioni di palestinesi sotto occupazione. Le accuse contro molti prigionieri includono il lancio di pietre o la partecipazione a manifestazioni politiche. In che misura queste attività possono essere definite terrorismo?
Il doppio standard non è solo nelle parole, ma permea immagini, retorica e discorsi pubblici. La narrativa israeliana viene adottata acriticamente anche quando distorce concetti fondamentali. Si ripete, per esempio, che "Israele ha il diritto di esistere", e chi lo contesta? Israele esiste dal 14 maggio 1948, è riconosciuto a livello internazionale. Il punto cruciale è un altro: è la Palestina ad avere il diritto di esistere, e il suo popolo ad autodeterminarsi.
L’incapacità di una fetta considerevole dei media, e dei politici, di analizzare il contesto fa sorgere il dubbio si tratti di una strategia mirata a sostenere l’occupazione e delegittimare la lotta palestinese. Ogni narrazione che equipara oppressori e vittime contribuisce al caos e camuffa la verità. Ma la verità, per quanto scomoda, è l’unica strada verso una giustizia reale, un dialogo costruttivo e una pace duratura. Come diceva Nelson Mandela nel 1977, "Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza quella dei Palestinesi".
3.1.25
La battaglia giusta Cecilia Sala e il silenzio complice sui 141 giornalisti uccisi da Israele a Gaza Storia di Umberto De Giovannangeli Unita.it
Per i giornalisti abbattuti come quaglie in Palestina, silenzio di tomba ; per una "svampita" secondo molti detenuta in Iran, ricevimenti a Palazzo Chigi e consigli di ministri a spron battuto.Insomma, un pochino di equilibrio non farebbe male.Giustamente, (lo riscriviamo in maiuscolo: GIUSTAMENTE) le prime pagine dei giornali riportano la drammatica vicenda di una giornalista coraggiosa, che fa onore alla nostra tanto, e spesso a ragione, vituperata categoria. In Iran Cecilia Sala cecava di raccontare un Paese che ama, che conosce come pochi altri. Giornalista libera, con la schiena dritta. Per questo invisa dal regime teocratico-militare iraniano. Free Cecilia, Subito, è un impegno da ottemperare, innanzitutto
da chi ha responsabilità di Governo.Ma i giornalisti non sono invisi solo nei Paesi retti da regimi marcatamente autoritari. I giornalisti, quelli davvero indipendenti, sono testimoni scomodi, da neutralizzare, anche in Paesi che la nostrana stampa mainstream continua a narrare come l’”unica democrazia in Medio Oriente”, cioè Israele. Mai, come in questo conflitto, rimarca Daniele Mastrogiacomo per Professione Reporter, sono morti tanti giornalisti. Nemmeno durante i due conflitti mondiali. “Da quando è iniziata la guerra a Gaza”, conferma Carlos Martinez de la Serna, direttore del Programma Cpi, “i nostri colleghi hanno pagato il prezzo più alto, la vita, per i loro reportage. Senza protezione, equipaggiamento, presenza internazionale, comunicazioni, cibo e acqua, continuano a svolgere il loro lavoro cruciale per dire al mondo la verità”. Mai, come accade a Gaza, è stato vietato l’ingresso alla stampa internazionale, che dal 7 ottobre 2023, giorno della strage di Hamas nei kibbutz del sud di Israele, ancora oggi è costretta ad affidarsi alle notizie fornite dai colleghi che si trovano all’interno della Striscia. Un divieto imposto da Israele, su un territorio che non è il suo, sulla base di criteri di sicurezza che servono a tenere all’oscuro il mondo su quanto accade.È grazie ai giornalisti, operatori, fotografi e blogger palestinesi se abbiamo potuto vedere, non solo ascoltare o leggere, ma vedere con i nostri occhi il lento sterminio che sta avvenendo. Dietro ognuno di quei 202 operatori dell’informazione ci sono dei visi, dei nomi e delle storie. Ci vorrebbe un libro per raccontarle tutte. Qui possiamo solo ricordare quanto riporta il Cpi alla data del 20 dicembre 2024: 141 giornalisti e operatori dei media uccisi, di cui 133 palestinesi, due israeliani e sei libanesi. Feriti altri 49, due scomparsi, 75 arrestati. Senza considerare le aggressioni, le minacce, gli attacchi informatici, la censura, gli omicidi dei familiari, per ritorsione o vendetta. In un video messaggio, la giornalista Madlin Shaqaleh, 39 anni, ha dichiarato ad ActionAid: “La sfida più grande per noi è che abbiamo perso le nostre case e i nostri cari. Ho perso mia sorella e mia nipote e non ho potuto vederla né dirle addio. Questa è stata una grande sfida che mi ha fatto decidere di continuare la mia carriera giornalistica e di parlare della sofferenza dei giornalisti e della nostra sofferenza come cittadini e delle circostanze in cui viviamo, che sono davvero eccezionali. Le persone mi chiedono: perché continui ancora a lavorare? Ma io sento che, anche se un giorno mi aspetterà la morte, devo dar seguito al mio percorso, al messaggio, alla mia profonda fede e alla mia causa”.Riham Jafari, coordinatrice delle attività di advocacy e comunicazione di ActionAid Palestina, ha dichiarato: “Se non fosse per l’eroismo e il coraggio dei giornalisti palestinesi che lavorano in condizioni incredibilmente pericolose e difficili, il mondo sarebbe quasi del tutto all’oscuro della terribile situazione a Gaza. Le autorità israeliane devono consentire ai reporter internazionali un accesso libero e senza restrizioni a Gaza e garantire la sicurezza a tutti i giornalisti. L’entità della crisi è schiacciante: è necessario un cessate il fuoco immediato e permanente, per porre fine alle uccisioni e consentire l’ingresso di aiuti nel territorio”. Un appello da sostenere, quello lanciato da Paola Caridi, giornalista, scrittrice, profonda conoscitrice della realtà d’Israele e della Palestina.Cinque giornalisti uccisi. In un soffio. In un solo attacco aereo mirato. Bruciati vivi nel pulmino che recava la scritta Press ben in vista. Stampa. Stampa che documenta il massacro, i massacri. È stata superata quota 200. Oltre 200 giornalisti e operatori dell’informazione palestinesi uccisi a Gaza dalle forze armate israeliane dall’ottobre 2023. È una cifra in difetto, quota 200. Non comprende i familiari uccisi assieme ai giornalisti. La giustizia verrà, anche per quello che è a tutti gli effetti un crimine di guerra. Nel frattempo, vorrei che si levasse alta e all’unisono la condanna da parte di tutti noi giornalisti. Alta, all’unisono, compatta: mai nella Storia sono stati uccisi così tanti giornalisti e giornaliste in un solo territorio, in così poco tempo. Mai. Non è una richiesta corporativa. I giornalisti palestinesi sono i nostri occhi e la nostra voce. Testimoniano i fatti, documentano il genocidio in corso a Gaza. Ammazzarli significa tentare di coprire i crimini con il silenzio. La loro uccisione riguarda tutti.”Hai ragione, Paola. Riguarda tutti. O almeno dovrebbe. Un appello che va sostenuto, rafforzato, con la stessa determinazione con cui oggi diciamo alto e forte Free Cecilia.
25.11.24
C'é bisogno di fare una differenza tra :ebreisionisti, e enbreinonsionsti questa differenza deve iniziare dagli ebrei stessi.
30.9.24
Cosa è il sionismo e perché essere critici? E poi quali sarebbero le idee di Segre e Crosetto da “odiare”?
Antonio DeianaProviamo a rispondere
Cosa è il sionismo e perché essere critici?
E poi quali sarebbero le idee di Segre e Crosetto da “odiare”?
5.9.24
se israele continua con la sua politica logico ed ovvio che ci saranno altre sparatorie o peggio come quella d'oggi a monaco
Giornata drammatica quella che sta vivendo la Germania. Dopo la notizia di una sparatoria con morti e feriti a Berlino, anche a Monaco di Baviera accade la stessa cosa. Stavolta nei pressi del consolato israeliano. Il video diffuso sui social è impressionante.
Leggi anche: Berlino, sparatoria in strada: un morto e due feriti
Il video della sparatoria al consolato israeliano
Secondo quanto si apprende, un uomo armato ha aperto il fuoco nei pressi del consolato israeliano a Monaco. Secondo l’emittente pubblica Kan, inoltre, non ci sarebbero feriti nell’attacco e l’uomo armato è stato “neutralizzato”. L’attacco armato è avvenuto proprio nel giorno dell’anniversario dell’attacco terroristico alle Olimpiadi di Monaco del 1972.
fin quando israele e le frange più estremiste dei loro abitanti non la smetteranno con la sua politica sui palestinesi e di bombare l'odio verso il loro popolo sarà ancoira maggiore e gli attentati aumenteranno . Infatti
da https://www.fanpage.it/
“Abbiamo dato ai palestinesi un motivo per odiarci”: il racconto di un ex soldato israelianoUn ex soldato israeliano, oggi membro dell’organizzazione Breaking The Silence, racconta il momento in cui tutte le sue certezze sulle IDF e sull’occupazione dei territori palestinesi sono crollate: “Me ne sono reso conto guardando negli occhi dei bambini palestinesi, durante una missione notturna vicino Jenin”.
A cura di Annalisa Girardi
Joel Carmel ha una trentina d'anni, è originario del Regno Unito ma da tempo vive a Gerusalemme, in Israele. Ed è un ex soldato delle IDF, le forze di difesa israeliane. Oggi fa parte di Breaking The Silence, un'organizzazione di veterani che ha deciso di raccontare la realtà dell'occupazione in territorio palestinese.Durante il primo anno di servizio militare è stato mandato al confine con la Striscia di Gaza, al valico di Erez, per poi essere trasferito in Cisgiordania, nella regione di Jenin. Si occupava di gestire le richieste sui permessi dei palestinesi che volevano entrare in territorio israeliano, per lavorare, fare una visita medica o qualsiasi altro motivo.“Tutti noi siamo arrivati a Breaking The Silence dopo aver avuto una specie di epifania, un momento che ci ha fatto vedere le cose in maniera diversa – ci racconta, in una lunga intervista – Io ero piuttosto critico dell’occupazione, anche prima di entrare nell’esercito, ma pensavo che sarei potuto diventare un buon soldato. E pensavo che, trattando bene i palestinesi, sarei potuto essere una buona influenza anche su chi mi stava attorno. Ma con il tempo è diventato sempre più chiaro che non esiste un modo “buono” per fare quello che facevamo”.“Posso essere gentile e amichevole quanto voglio, ma è l’occupazione come fatto in sé che crea una situazione in cui ci sono delle persone che vengono costantemente oppresse e tenute sotto controllo. Non c’è un modo buono, morale, per gestirla”.
La realtà dell'occupazione israeliana, il racconto dell'ex soldato delle IDF
Il momento in cui Carmel lo ha realizzato è stato durante una cosiddetta “mapping mission”. Non sapeva molto di cosa accadesse in queste missioni, che avvenivano sempre nel bel mezzo della notte, così una volta ha chiesto di partecipare. Faceva parte di una sezione amministrativa dell’esercito, quindi non era solito stare sul campo, ma è stato comunque incoraggiato a partecipare.
“Era inverno, all’inizio del 2015. Sono salito su una jeep del convoglio militare, era circa l’una di notte e abbiamo iniziato a guidare attraverso questo villaggio palestinese vicino a Jenin. Quando siamo scesi ci hanno dato una lista di coordinate, che non erano altro che gli indirizzi di alcune persone. Ci siamo divisi in squadre, ricordo una fortissima adrenalina. Siamo andati verso la prima casa e il comandante ha iniziato a battere forte sulla porta.Un uomo ci ha aperto, era chiaramente sorpreso e spaventato di vedere un gruppo di otto o nove soldati, pesantemente armati, alla sua porta. Il comandante gli ha chiesto di svegliare il resto della famiglia e di portarli tutti di sotto, all’entra
ta. Di colpo mi sono trovato questa famiglia davanti. C’erano bambini molto piccoli, sei o sette anni. Il comandante ha iniziato a fare una serie di domande molto semplici, di base è questo che si fa durante una ‘mapping mission’. L'obiettivo è appunto quello di mappare un villaggio o una comunità: si va nelle case delle persone, si fanno delle perquisizione, delle domande, a volte si disegna proprio una mappa schematica della casa oppure si mettono in fila contro il muro i componenti della famiglia e si scattano alcune foto. L’idea è quella di raccogliere quante più informazioni possibili su un determinato luogo, così se in futuro c’è bisogno di prendere il controllo di quel villaggio, si hanno già tutte le informazioni che servono.
Ricordo che guardavo i bambini, erano terrorizzati. Pensavo che lo fossero perché non sapevano cosa stessimo facendo lì. Non potevano sapere che non avevamo alcuna intenzione di fare loro del male, nessuno glielo aveva detto. Non parlo arabo, non avevo alcun modo di comunicare con loro, ma volevo dirgli che era tutto ok. L’unico modo per farlo era sorridergli. Così ho sorriso. Ma loro non mi hanno sorriso a loro volta, continuavano a guardarmi con un misto di odio e di paura.Lì mi è crollato tutto addosso, in quel preciso momento. Da quando sono piccolo – e soprattutto poi, durante il mio addestramento nell’esercito – mi era sempre stato ripetuto che tutto ciò che facevano le IDF era per mantenere le persone al sicuro. Per questioni di sicurezza, per fare in modo che possiamo vivere in Israele tranquillamente. Dicevano che a volte potevano esserci dei momenti difficili, in cui bisognava fare cose delle cose spiacevoli, ma che tutto accadesse per ragioni di sicurezza. In quel momento, mentre guardavo quei bambini e loro guardavano me, ho realizzato che non era vero niente. Nulla di quello che stavamo facendo aveva qualcosa a che fare con la sicurezza, con il fatto di tenere le persone al sicuro. Semmai il contrario: ho pensato che magari quei bambini si stessero radicalizzando in quel momento. Forse eravamo proprio noi a creare un problema di sicurezza, perché non so che cosa pensassero quei bambini prima di quella notte, ma noi gli stavamo sicuramente dando una ragione per odiarci, per odiare Israele e l’esercito israeliano. Alla fine della missione il comandante ci ha detto una cosa. Ci ha spiegato che non ci stessimo presentando lì nel bel mezzo della notte sulla base di qualche sospetto, mentre tutti dormivano per non farci vedere. Stavamo andando lì in piena notte per fare vedere loro chi comandasse. In quel momento non stavamo svegliando solo quella famiglia, stavamo tirando giù dal letto un intero villaggio, dimostrando così a tutti che potevamo farlo, che eravamo noi al comando. Eravamo noi che controllavamo tutto quello che succede nel villaggio e che potevamo decidere a che ora svegliare tutti quanti. Siamo andati lì per raccogliere informazioni. E questo ci serviva per rafforzare il nostro controllo: sapevamo dove vivevano, a che ora si svegliavano, in che letto dormiva ogni singola persona. Era il modo di tenere i palestinesi costantemente consci del fatto che saremmo potuti arrivare in qualsiasi momento”.
Mantenere una pressione costante
Una volta lasciato l’esercito Carmel è entrato a far parte di Breaking The Silence e si è reso conto che missioni come quella a cui aveva partecipato nell’inverno del 2015 venivano fatte di continuo. Era solo una parte di una strategia molto più ampia, che consisteva (e consiste ancora oggi) nel far percepire perennemente la presenza dell’occupante.
“L’unico modo per tenere sotto controllo milioni di persone, e questo va avanti da oltre cinquant’anni in Cisgiordania, è quello di intimidirle incessantemente, tenendole in uno stato di paura continua e di violenza, in modo che non alzino mai la testa, che non facciano mai qualcosa che possa anche solo lontanamente rappresentare una minaccia. Come scrivere un semplice post su Facebook, l’obiettivo era di spaventare le persone talmente tanto da farle diventare costantemente terrorizzate delle potenziali ripercussioni che avrebbe generato anche il più piccolo segnale di resistenza o di disobbedienza”, ha raccontato.
Breaking The Silence ha raccolto moltissime testimonianze di cosa voglia dire vivere nella Cisgiordania occupata e non sentirsi più al sicuro all’interno di casa propria. Alcune sono state pubblicate in un report – redatto insieme ad altre due ong, Yesh Din e Physicians for Human Rights Israel – che si chiama “A Life Exposed – Military invasions of Palestinians Homes in the West Bank”. Subito dopo le IDF hanno detto che non avrebbero più condotto queste "mapping missions". Una notizia che ha sorpreso, quantomeno. Di solito l’esercito israeliano non interrompe le sue pratiche militari solo perché è stato pubblicato un report di denuncia. E infatti non era quello il motivo dello stop: semplicemente queste missioni non erano più necessarie, perché lo stesso risultato si poteva ottenere con la tecnologia.
Quando la tecnologia svolge i compiti degli esseri umani
“Da quel momento a Breaking The Silence abbiamo iniziato a ricevere delle testimonianze sull’utilizzo di un’app, Blue Wolf. Dei soldati ci hanno raccontato di aver ricevuto in dotazione dei telefoni dall’esercito, che disponeva di questa applicazione che non era altro che un modo diverso di sorvegliare i palestinesi”, ha sottolineato Carmel.
Questa applicazione – di cui ha parlato anche Amnesty International in un dettagliato report – abbina le foto dei palestinesi scattate dai soldati israeliani a un gigantesco database, dove sono contenuti i loro dati. Una sorta di Grande Fratello dove tutti vengono schedati. Non solo: alcuni militari hanno raccontato che tra le funzionalità dell’app, una lancia di fatto una competizione. Vengono mostrati quanti match ogni squadra riesce a fare e il numero appare poi in una classifica generale: chi ha ottenuto più abbinamenti vince un premio, ad esempio una licenza più lunga nel fine settimana. Una conseguenza? I soldati sono incentivati a scattare quante più foto possibili e a trovare sempre più corrispondenze all’interno della banca dati.
“Le IDF, da parte loro, dicono che Blue Wolf sia un vantaggio anche per i palestinesi, perché rende tutto più efficiente – ha spiegato Carmel – A un checkpoint, per esempio esempio, non devono più aspettare che il soldato controlli manualmente i loro dati, cercando riscontro al database per sapere chi ha davanti, visto che è direttamente l’app a fare tutto in tempo reale. Ma quello che le IDF non ammetteranno mai è che tutto questo serve ad aumentare il controllo, ad avere sempre più dati senza che i palestinesi abbiano alcuna voce in capitolo. Quindi non è che una violazione dei loro diritti”.
L'automatizzazione del controllo su una popolazione è un processo disumano, non c'è dubbio. Questi stessi meccanismi applicati alla guerra sono ancora più tragici.
L'IA durante la guerra
Dal 7 ottobre diverse inchieste giornalistiche hanno raccontato l'orrore del conflitto automatizzato, in cui i sistemi di intelligenza artificiale non rispondono a necessità "etiche e morali" – semmai questo sia possibile in un contesto di guerra – per cercare di limitare l'entità della distruzione e delle vittime civili. Al contrario, l'intelligenza artificiale verrebbe usata meramente al servizio dell'obiettivo militare, per colpire i nemici e neutralizzare le minacce, mettendo semplicemente in conto che degli innocenti diventino danni collaterali.Un software di intelligenza artificiale non ha valori o principi morali, se non quelli che gli vengono insegnati. Una guerra automatizzata è qualcosa di tragico, dove un massacro di civili può avvenire in qualche secondo, al di fuori del controllo umano. Dove potenzialmente è una macchina a decidere chi uccidere, senza che nessuno sia responsabile di quella decisione.E questo sarebbe accaduto anche nella Striscia di Gaza, soprattutto nelle settimane subito dopo il 7 ottobre. Un'inchiesta di +972 Magazine e Local Call ha raccontato come nella prima fase del conflitto sia stato un sistema di intelligenza artificiale a individuare gli obiettivi da colpire, e uccidere.Da quando è scoppiata la guerra a Gaza, diversi soldati hanno contattato Breaking The Silence per raccontare la loro testimonianza: alcune sono in fase di verifica, altre non possono ancora essere pubblicate. L'unica cosa che ci ha potuto dire Carmel, quando gli abbiamo chiesto dell'inchiesta, è stata: "Ha senso che le cose stiano così. Pensiamo all’occupazione: la tecnologia è sempre stata usata per mantenere il controllo su un territorio e una popolazione. Ed è per questo che si cerca di essere sempre un passo avanti con le tecnologie”.
“È molto semplice fare affidamento alla tecnologia, perché ci risulta convincente. Ma commette errori. Lo faceva anche con Blue Wolf. Le tecnologie di riconoscimento facciale, per esempio: più una persona ha la pelle scura, più è probabile che il sistema non la riconosca e la confonda con un’altra. E quando avviene questo, può succedere che qualcuno venga scambiato per un altro e arrestato, anche se non ha fatto nulla. In un contesto di guerra, l’errore ovviamente rischia di fare molti più danni”.Secondo il governo di Hamas nella Striscia di Gaza, dal 7 ottobre sono state uccise oltre 40 mila persone. Mentre la comunità internazionale chiede il cessate il fuoco e il rilascio immediato degli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani, una tregua sembra lontanissima.
“Il 7 ottobre è stato traumatico. A Breaking The Silence abbiamo perso delle persone, che sono state uccise quel giorno. Tutto quello che è accaduto poi a Gaza è semplicemente terrificante. E rende più difficile pensare che ci possa essere la pace in futuro: già prima lo era, con l’occupazione, ma ora è peggio. Allo stesso tempo credo che ora si sia aperto uno spazio di discussione, perché è diventato evidente, almeno dal nostro punto di vista, che questo conflitto non si risolve con la forza militare", ha commentato Carmel.
Per poi spiegare: "Dal 1967, ogni governo che si è succeduto ha messo sempre più risorse, sforzi, soldi nell’occupazione. Perché si è sempre pensato che fino a quando si riusciva a mantenere il controllo da un punto di forza, fino a quando non si fossero fatte concessioni, sarebbe andato tutto bene. Ma quello che noi cerchiamo di dire da sempre, e il 7 ottobre l’ha dimostrato, è che non si può pensare di gestire un conflitto del genere per sempre, perché è come una pentola a pressione. Più pressione si mette, più è vicino il momento dell’esplosione. E alla fine questa esplosione c’è stata, va avanti tutt’ora e continuerà a farlo se non si troverà una soluzione a lungo termine che assicuri a tutti libertà, diritti e giustizia".
Infine, il veterano ha concluso: "È molto difficile fare questo tipo di discorsi in circostanze così traumatiche, ma ora abbiamo l’opportunità di convincere la nostra società e la comunità internazionale che l’unica via perché sia gli israeliani che i palestinesi vivano in pace e sicurezza è una soluzione politica”.
31.3.24
Israele, polemiche per lo scatto di una vittima di Hamas che vince il premio "Foto dell'anno" -
Apprendo internet stamattina leggo che una foto del 7 ottobre 2023 Sta suscitando polemiche in Israele. il premio vinto dal fotografo palestinese Ali Mahmoud ( foto sotto a destra ) per la foto ( foto al centro )
4.12.23
ancora per quanto tempo dovremo leggere storie come queste “Voleva solo fare musica”: se ne va anche Yonatan, il dj rapito da Hamas o di vittime dei bombardamenti israeliani
entrambe vittime della follia della guerra a tutti i costi . Quando il terrrismo si può combattere in altri modi . Cosi si crea un circolo vizioso e lo si alimenta di più .
È morto a Gaza Yonatan Samerano, 21 anni di Tel Aviv, preso in ostaggio da Hamas dopo essere stato ferito durante l’attacco del festival Nova a Re’im il 7 ottobre.

La famiglia della vittima è stata informata dalle autorità israeliane. Samerano stava partecipando come Dj al rave vicino a Re’im la mattina dell’attacco ed è fuggito nel vicino Kibbutz Be’eri dove è stato ferito e rapito. «Jonathan era un ragazzo magico, circondato da amici, un Dj che voleva solo fare musica, crescere, essere felice e viaggiare. Aveva tanti sogni», hanno detto i membri della sua famiglia. Jonathan ha lasciato i due genitori, Kobi e Ayelet e un fratello, Yair.
Leggi anche: La mamma di Noa, rapita da Hamas: “Ho un cancro in stadio terminale, fatemi riabbracciare mia figlia”
Leggi anche: Hamas diffonde video del padre di Kfir che apprende della sua morte e accusa Netanyahu:”Hai bombardato la mia famiglia”

I raid israeliani nel sud della striscia di Gaza
Intanto, la notte fra il 3 e il 4 dicembre è stata una notte di pesanti bombardamenti israeliani anche al sud della striscia, preparando il terreno a una nuova incursione di terra, come riportato dall’Idf. Lo ha confermato domenica pomeriggio uno dei portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, che in una conferenza stampa ha detto che Israele sta ampliando le operazioni miliari contro Hamas «in tutta la Striscia di Gaza».
Nella notte almeno 13 persone sarebbero morte in raid su un edificio residenziale vicino Rafah e presso l’ospedale di Jabalia, secondo fonti palestinesi citate da Al Jazeera.
22.7.17
Criticate Israele per quel che fa. Non per ciò che è Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam

25.6.12
il gay pride non sono solo esisbizionismo od ostentazione
15.3.09
Per non dimenticare.... - 1
Rachel Corrie
16 marzo 2003 ore 16:57 - Gaza
Io vissi in una terra
la mia terra lo stesso mare
La "Terra del Sole" lo stesso cielo
La "Terra Santa" lo stesso mare
Da noi la chiamano MAFIA
" ...A corromperlo fu la fede nelle menzogne,
un delirante autoinganno la regola di vita."
Da voi non potete nemmeno chiamarla. Se dite Israele non è giusto se li chiamate ebrei non è vero, il MALE il CRIMINE l'INFAMIA non ha stato non ha bandiera non è mio non è tuo nostro è il sangue, nostro il dolore le lacrime.
Lo stesso sole sotto lo stesso cielo e lo stesso mare che ci bagna ...........
Per non dimenticare Rachel Corrie.
In mezzo a questo gruppo di eroi c'è una faccia che segna la vergogna
Di un'occupazione brutale che nega i diritti di un popolo
Ed il coraggio di una giovane donna che lottava contro corrente
Migliaia di grida intorno al mondo,
Pace e Giustizia nei nostri tempi
Da Olympia alla Palestina, dove trovò la sua tragica fine
Nella piccola città di Rafah in un fatidico pomeriggio
Un grande bulldozer in movimento, che stava demolendo un'altra casa
Le stesse cose accadono ogni settimana, da Betlemme a Ramallah
Bambini assassinati sul terreno per il crimine di aver gettato pietre
Soldati ai checkpoint, che tengono le persone lontane dalla propria casa
Quel bulldozer le passò proprio addosso, e sbattè il suo corpo a terra
L'hanno portata all'ospedale, dove è morta quella notte
E i suoi genitorni l'hanno pianta ogni giorno ma ancora continuano la lotta
Tiene i bambini lontani dalle scuole e i contadini lontani dai campi
Adesso spetta a voi e a me, altrimenti Rachel sarà morta invano.
Lotteremo insieme per tentare di porre fine al dolore?
POWER POINT: Rachel Corrie volontaria uccisa dall'esercito israeliano
le paure ed i dubbi inutili , insieme al complottismo e disinformazione fanno aumentare le opposizioni alla donazione di organi
E' notizia di questi giorni che : << Le opposizioni alla donazione degli organi continuano ad aumentare Da gennaio il 4...

-
Come già accenbato dal titolo , inizialmente volevo dire Basta e smettere di parlare di Shoah!, e d'aderire \ c...
-
https://www.cuginidicampagna.com/portfolio-item/preghiera/ Una storia drammatica ma piena di Amore.Proprio come dice la canzone Una stor...
-
Dopo aver smontato l'anno scorso ( qui il post ) nonostante le accuse ( che mi scivolano via ) di negazionismo \ revisi...