3.9.21

Paralimpiadi, l’eccellenza bolognese che realizza le protesi dei campioni

   corriere  dela sera  ed  Bologna  3 settembre 2021 (modifica il 3 settembre 2021 | 15:33)

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Paralimpiadi, l’eccellenza bolognese che realizza le protesi dei campioni

Il Centro Protesi Inail a Vigorso di Budrio è dietro alle vittorie di tanti atleti italiani, da Zanardi a Bebe Vio. Gregorio Teti (Area tecnica): «Noi facciamo lo 0,5% del lavoro»

La lavorazione di una protesi
La lavorazione di una protesi

L’ultima in ordine di tempo è quella di Martina Caironi, bergamasca di nascita e bolognese d’adozione che ha vinto l’argento nel salto in lungo, ma nell’infinito bottino di medaglie alle Paralimpiadi di Tokyo 2020 – superato il record di Seul1988 – c’è lo zampino di un’eccellenza tutta bolognese come il Centro Protesi Inail che ha sede a Vigorso di Budrio. Da lì sono passati tutti i grandi nomi dello sport paralimpico italiano: da Alex Zanardi a Bebe Vio, fino appunto a Martina Caironi. E in questi giorni a Tokyo c’era anche Gregorio Teti, direttore dell’area tecnica del Centro di Vigorso, che era sul campo per seguire nove dei 113 atleti della spedizione in Giappone.

Gregorio Teti
Gregorio Teti

Direttore Teti, la spedizione azzurra alle Paralimpiadi sta andando alla grande. Quanto c’è del vostro lavoro in questi successi?
«Innanzitutto c’è grande gioia: in questi anni si è costituita una sorta di famiglia molto allargata con diverse atlete, tra cui Martina Caironi, Monica Contrafatto, Ambra Sabatini e Veronica Plebani, bronzo nel triathlon. É vero che noi mettiamo la competenza tecnica nella costruzione dei dispositivi protesici, ma senza i giusti feedback da parte degli atleti non avremmo il materiale su cui fare analisi e studi per migliorare le performance dell’atleta stesso. É un grosso lavoro d’equipe, ma nei risultati lo 0,5% viene da noi e il 99,5% dagli atleti: è come in Formula 1, a parità di mezzo tecnico vale la qualità del pilota».

Il lavoro che fate con gli atleti migliora anche le protesi dei vostri pazienti?
«Assolutamente. Non tanti sanno che l’atleta è l’attore principale del team non solo per lo sforzo fisico, ma anche per il lavoro sulla protesi: ci dà le sue sensazioni, i feedback sull’arto e poi sta a noi mettere in campo le varie soluzioni e le tecniche progettistiche che, tramite filmati e analisi, ci consentono di verificare il miglioramento atteso. É proprio la sensibilità dell’atleta che, insieme al lavoro di allenatore e preparatore, ci dà le strade giuste per migliorare il dispositivo tecnico: lo sviluppo del prototipo per un atleta agonista si riversa successivamente sui cicli di produzione per i\ dispositivi di normale uso quotidiano e va appannaggio di tutti gli assistiti che accedono al nostro centro protesi, che siano pazienti Inail o invalidi civili».

In questi giorni era a Tokyo, che lavoro fate «sul campo»?
«Siamo intervenuti domenica scorsa sul dispositivo di Ambra Sabatini e martedì proprio su quello di Martina Caironi con cui ha gareggiato e vinto l’argento nel salto in lungo. Siamo a completa disposizione degli atleti: li seguiamo sia sui campi di allenamento sia su quelli di gara. Come Inail abbiamo un accordo quadro di stretta collaborazione con il Cip, il Comitato Paralimpico, che impegna entrambe le parti a rispettare determinate norme per supportare gli atleti e collaborare con le varie istituzioni. Come istituto statale non abbiamo finalità di lucro e la nostra opera tocca sia la prevenzione che la ricerca: la nostra anima tecnica consente sia l’attività di ricerca sia quella riabilitativa».

Gli atleti paralimpici sono esempi di forza di volontà, ma quanto sono stati d’ispirazione per chi ha avuto gravi menomazioni? A Vigorso qualcuno ha iniziato ad interessarsi allo sport paralimpico vedendo il lavoro che fate con gli atleti?
«Tutti gli atleti agonisti passano per una sorta di limbo, un approccio allo sport di tipo amatoriale: per chi ha subito un’amputazione o un grave trauma lo sport è rimettersi in gioco, è voglia di superarsi. Una sfida con se stesso e un’occasione di integrazione con gli altri. Chi accede al centro, una delle maggiori realtà a livello mondiale, vive quel mondo e vuole mettersi alla prova, testarsi nonostante la condizione di sfavore dovuta a un grave trauma: è una rivincita personale, per far vedere che al mondo si può andare oltre la disabilità. E il nostro obiettivo come Centro è ricostruire sempre il paziente anche a livello personale: non c’è solo il lavoro sull’arto ma è una presa in carico totale per supportarlo a livello psicotico, medico e fisioterapico grazie alla nostra equipe».

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