8.9.06

Senza titolo 1432




In questi. giorni durante la festa    cittadina pr amria bambina  
chiaccherando con gli amici  i di uomini e donne. Mi viene in mente  la Ursula Hischmann, vissuta a Berlino negli anni '20. Era straordinaria. Ecco perché .
Come  afferma nell'
ultimo  numero del  inserto settimanale  D  ( qui  la versione online  )  del  gruppo repubblica  - espresso    la   bravissima Concita de  gregorio  : << Le donne contengono, gli uomini espellono. Le donne conservano ogni cosa insieme, gli uomini distinguono e archiviano per parti separate. Le donne - anche per morfologia, per il ruolo che è loro assegnato dal corpo - condividono, agiscono dentro. In generale accolgono. Gli uomini per la stessa ragione selezionano, temono la contaminazione e ne diffidano non conoscendo -che privazione - l'incanto originario delle vite che si mescolano e che nello scambio si arricchiscono, crescono. Procedono per analisi, protesi in fuori, difettano nella sintesi. Si faceva in tarda estate questo gioco un po' frivolo un po' no, una sera in terrazza, il gioco di generalizzare semplificando e di trovare però nelle categorie astratte ciascuno il suo privato riscontro: perciò di ridere e di godere del potere evocativo delle parole, poi rincorrere ognuno i suoi segreti pensieri. Qualcuno ha detto: esempi, adesso. Storie di uomini e donne illustri a conferma e, meglio, a smentita. Non era così pertinente ma per qualche ragione mi è tornata in mente la storia di Ursula Hischmann. Una storia non particolarmente nota se non alla cerchia stretta di chi l'ha condivisa, non proprio una vita illustre nel senso corrente del termine: piuttosto, si sarebbe detto allora, una vita "normale" per quanto sia difficile oggi rintracciare l'idea di normalità nella Berlino degli anni Venti, l'esperienza della fuga e dell'esilio, la cospirazione e il carcere, il confino di Ventotene, gli amori e i figli in un paese che non è il tuo, l'essere senza patria, averne molte e nessuna, conservare con tenacia il senso della propria identità senza avere un posto dove catalogarla: conservarlo dentro . >>
lo so che  sembrerò  sessista  , ma   non ho mai trovato   almeno per il momnento ,  in nessun uomo 
una storia non particolarmente nota se non alla cerchia stretta di chi l'ha condivisa, non proprio una vita illustre nel senso corrente del termine: piuttosto, si sarebbe detto allora, una vita "normale" per quanto sia difficile oggi rintracciare l'idea di normalità nella Berlino degli anni Venti, l'esperienza della fuga e dell'esilio, la cospirazione e il carcere, il confino di Ventotene, gli amori e i figli in un paese che non è il tuo, l'essere senza patria, averne molte e nessuna, conservare con tenacia il senso della propria identità senza avere un posto dove catalogarla: conservarlo dentro.
Infatti 
Eva-MariaThüne  in  Sagarana    afferma  : << (....)  Per Ursula Hirschmann l’impulso a raccontare della sua vita nasce dal desiderio di entrare in regioni più profonde di se stessa, dando di volta in volta parola ad un’immagine che si presenta “importante, piena di significato da scoprire, urgente: poi man mano si dissolve, diventa debole e insignificante e non ho più la forza di formarla” (Ursula Hirschmann, Noi senzapatria, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 17).
La sfida in questa scoperta di se stessa è la relazione con la lingua, in cui Hirschmann riesce o non riesce ad afferrare qualcosa che giace nell’ombra del non-detto, che può chiarirsi oppure rinchiudere l’energia che deriva da questa relazione. Hirschmann, che dal 1935 ha vissuto in Italia, scopre in questa situazione la forza inerente alla sua lingua materna:
“[...] l’unica mia forza elementare, che però diventa a poco a poco più debole, è la mia capacità di dire nella mia lingua materna tedesca quel che vedo e sento. Prima che essa sia completamente inaridita, voglio fissare le immagini. Perché? Per chi? Io stessa non lo so. Forse sarà più chiaro alla fine” (Ursula Hirschmann, Noi senzapatria, cit.).
Quello che Hirschmann delinea in modo esplicito è l’esperienza di parlare un’altra lingua – nel caso della Hirschmann l’italiano – che viene sentita come lingua di copertura. Parlo di copertura, perché la lingua straniera copre la libertà di muoversi nella lingua, intesa come forza elementare che conferisce la capacità di uscire dalle forme linguistiche pre-date dai cliché linguistici, imitate e spesso avvertite come svuotate di significato quando si vuole comunicare l’intensità, i colori di un’esperienza. Diventando italiana Hirschmann sperimenta una forma d’assimilazione in cui apparentemente continua a parlare una lingua e ad avere un comportamento, modi di fare diversi da quelli delle sue amiche italiane, ma l’adattamento va più in profondità, perché copre la differenza che non trova espressione. Finché la Hirschmann non scoprirà la sua madrelingua come una forza che le conferisce la possibilità di dire la sua esperienza questa diversità sparirà nell’adattamento, appare a volte solamente inquietudine, malinconia, senso di estraneità.( qui il resto dell'articolo  ) >>

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