2.7.08

A oriente, una stella

Mi piacerebbe che a parlare compiutamente della donna (anzi, delle donne) fossero anche uomini. Non che ciò non avvenga in assoluto: anzi, quando ad aver diritto di parola erano soltanto i maschi, miriadi di libri sono stati scritti, soprattutto per dimostrare, prima filosoficamente, poi teologicamente, poi… scientificamente, che la subordinazione femminile era giusta, se non necessaria.




Come reazione, nel recentissimo passato le femministe hanno rivendicato l’esclusivo diritto di dissertare su di sé. Ora che anche tale periodo sembrerebbe superato (e lo è di fatto) avviene l’inquietante, anacronistico e intollerabile fenomeno per cui il razzismo, la globalizzazione del pianeta ecc. vengono avvertiti come problemi di tutta l’umanità, mentre la “donna” rappresenta ancora una sorta di enclave protetta (?). C’è la “pagina della donna”, che l’uomo ovviamente non legge – anni fa un periodico femminile lanciò addirittura il quotidiano per la donna, lasciando capire, anche dall’eloquentissima pubblicità che lo corredava, che i quotidiani “seri” li leggono solo gli uomini -, e c’è la cultura delle donne, considerata comunemente una sub-cultura o, al più, qualcosa d’élitario.

Di fatto, la Cultura per eccellenza continua a essere maschile, sessuata e sessista, ma non ce ne accorgiamo più. Al contrario di quanto affermava il delirante testo d’un infelice autore, sesso e potere non vanno affatto d’accordo, non in società immature come la nostra, dove certi temi erano un tempo tabù e adesso – distorta in malafede l’ansia liberatoria del ’68 – è neutralizzato da una mercificazione borghese, di cui fanno naturalmente le spese le donne e che non merita né comprensione, né rispetto. Il potere è invece sessuofobo, in quanto, come ordine costituito, non tollera la carica dirompente, l’originalità e l’irrazionalità di ogni atto sessuale. Se non può cancellarlo, lo incasella entro limiti ben definiti e guai a superarli. Pur nato da una volontà sessuata, il potere, il sentire maschile ha cercato, e vi è riuscito, di apparire “neutro”, per assurgere alla dignità di sentire umano universale.




Ora, possiamo riflettere su una donna di cultura prescindendo dal fatto che sia donna? Si dovrebbe, lo so, ma è possibile, specialmente se si tratta di una donna del passato? Il Novecento italiano ha conosciuto una fioritura di scrittrici più o meno valide, ma tutte accomunate da una sofferenza. È vero che, nei secoli, la fantasia femminile è rimasta isterilita e come raggelata, ma il suo nucleo interiore, benché ripetutamente disprezzato dagli uomini come prova di fragilità, ancora sopravvive. La scrittrice sarda Grazia Deledda [foto in alto], recentemente rivalutata dalla critica, è stata testimone di questa sofferenza, ma anche di un’ansia di riscatto. I suoi personaggi cono quasi tutte donne che vivono in un Sud arcaico e profondo, esse stesse misteriose ed enigmatiche, che lottano, e per lo più perdono, per affermare – anche inconsapevolmente, ed è questo, in fondo, che affascina di più – il diritto a esistere. Anche ad amare, certo: ad amare e a godere.


Non vi riescono non per punizione divina, né per un “tradimento” di stampo verghiano, ma, assai più laidamente, per un contesto storico ostile. Se molte di queste donne, semplici, quasi elementari, a volte, aspirano a una felicità terrena e sensuale, il concetto dell’inferiorità supinamente accolta subisce un colpo mortale. La Deledda amava profondamente gli uomini, voleva sposarsi e ci riuscì, pur con qualche difficoltà; eppure, nel postumo Cosima, scrisse: “Ci sono molte donne che vivono nel ricordo di un amore fantastico, e l’amore vero è per esse un mistero grande e ineffabile come quello della divinità”. Tristemente, l’amore non gestito “alla pari” ha creato un’idolatria per l’uomo (maschio). Con le povere e spuntate armi dell’amore senza sesso, dell’amore-sacrificio o goffo romanticume, le donne hanno saputo giungere al Duemila. Forse, se oggi ammiriamo con rispetto lo splendido pube femminile che l’uomo Courbet ritrasse un secolo fa [a destra], lo dobbiamo anche alle inquiete isolane di Grazia Deledda.




Daniela Tuscano

 

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