25.12.21

Contro i complottismi No Vax: cosa c’è di vero sugli effetti avversi dei vaccini

  editorialedomani del   25 dicembre 2021 • 11:42

Contro i complottismi No Vax: cosa c’è di vero sugli effetti avversi dei vaccini


Chi non vuole vaccinarsi dice che sono provocati dalla proteina spike contenuta nei vaccini, uguale a quella del virus.

  • C’è chi dice i vaccini anti Covid provocano molti più effetti collaterali e morti di quelli che ci dicono, perché ce li nascondono, ma non è vero.
  • Tutte le reazioni avverse e le morti segnalate che avvengono dopo una vaccinazione non è detto che siano state da essa causate.
  • Chi dice che I vaccini provocano reazioni avverse perché contengono la stessa proteina Spike del virus originario si sbaglia.

Chi si oppone ai vaccini afferma: «I vaccini anti Covid provocano molti più effetti collaterali e morti di quelli che ci dicono, perché ce li nascondono!» Questa frase l’ha ripetuta anche un mio amico. Al che io gli ho risposto: «Chi lo dice? Hai le prove?» E lui: «Guarda qui»: mi ha mostrato un documento ufficiale del ministero della Salute britannico dove erano elencati gli eventi avversi avvenuti dopo la vaccinazione Astrazeneca.

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse 29 Novembre 2021 Roma (Italia) Continua la campagna di vaccinazione in vista delle festivit\u00E0 natalizie
Foto Cecilia Fabiano/LaPresse 29 Novembre 2021 Roma (Italia) Continua la campagna di vaccinazione in vista delle festività natalizie

«Solo in Gran Bretagna ci sono state decine di migliaia di eventi avversi, e 1138 persone sono morte a causa di questo vaccino!” Effettivamente, in questo documento dal titolo “Analisi del vaccino anti-Covid-19 Astrazeneca” c’è scritto: «Totale: 238mila reazioni avverse e 1138 morti». »Un documento ufficiale del governo inglese? Strano modo di nascondere la verità!», ho obiettato al mio amico, che però non è il solo a pensarla così. Nelle chat dei no-vax circola un altro documento dal titolo «Analisi cumulativa degli eventi avversi dopo vaccinazione Pfizer», che sarebbe la prova del complotto per occultare la verità da parte delle grandi multinazionali del farmaco.«Ci nascondono la verità!», commenta online uno di loro. «C’è scritto che negli Usa dopo la vaccinazione Pfizer si sono verificate quasi 30 mila reazioni avverse e 1223 morti».

Eppure anche quello è un rapporto ufficiale – e pubblico - della Food and Drug Administration, l’agenzia di sorveglianza dei vaccini statunitense. Qualche settimana fa a Piazza Pulita, su La7, persino il professore di filosofia Massimo Cacciari ha rilanciato: «C'è una censura sui casi avversi? Certo!».

Foto Claudio Furlan/LaPresse 30-10-2021 Milano (VA) - Italia News Manifestazione No Greenpass nel centro di Milano
Foto Claudio Furlan/LaPresse 30-10-2021 Milano (VA) - Italia News Manifestazione No Greenpass nel centro di Milano

In realtà, non c’è nessun complotto per nascondere la verità, e gli effetti avversi dei vaccini sono fortunatamente rarissimi e perlopiù lievi. Prendiamo il documento inglese, l’«Analisi del vaccino anti-Covid-19 Astrazeneca». È stato redatto dal Ministero della Salute del Regno Unito, che si occupa della cosiddetta farmacovigilanza passiva dei vaccini. In che cosa consiste? Il ministero della Salute inglese gestisce il cosiddetto «Sistema delle cartoline gialle». Come spiegano sul sito del ministero: «Le cartoline gialle sono un meccanismo attraverso il quale ciascuno può segnalare volontariamente ogni sospetta reazione avversa o effetto collaterale del vaccino».Si chiama così perché puoi compilare una cartolina di colore giallo o un modulo online, anch’esso giallo. Lo può fare chiunque: il soggetto vaccinato, i suoi familiari, i medici che hanno eseguito la vaccinazione o che lo hanno in cura: capite che però che in questo modo di segnalazioni ne arrivano tantissime, alcune giustificate dal punto di vista medico, altre no. Difatti il sito del ministero avverte: «È molto importante notare che la segnalazione attraverso cartolina gialla non significa necessariamente che il vaccino abbia causato quella reazione o quell’evento. Molte reazioni avverse sospette riportate non hanno relazione alcuna con il vaccino, ma si tratta solo di sintomi che per coincidenza avvengono a più o meno breve distanza di tempo dalla vaccinazione». Più chiaro di così? Nei suoi report settimanali il ministero della Salute elenca tutte le reazioni avverse e le morti segnalate che sono avvenute dopo una vaccinazione, ma ciò non significa che esse siano state da essa causate. C’è chi segnala dolori, febbri, o trombosi avvenuti poche ore o giorni dopo la vaccinazione, ma anche chi segnala morti per infarto avvenute tre mesi dopo, chi riferisce reazioni avverse assurde come fratture ossee, fallimento della dieta, morsi di ragno e punture d’insetto, herpes genitale, eiaculazione precoce, alito cattivo, intossicazione da alcol, flatulenza e molti altri.

Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved.
Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved.

Ovviamente, gran parte degli eventi avversi e delle morti sono semplicemente avvenute dopo il vaccino e non sono stata da esso provocate. E come si fa a capire quali sono provocate dal vaccino e quali no? Con la cosiddetta vigilanza attiva. Medici, scienziati ed esperti prendono in esame tutte le segnalazioni arrivate, ma soprattutto quelle riportate da altri medici ed esperti perché più attendibili, controllano cartelle cliniche e referti dei vari casi, e poi vagliano le cosiddette correlazioni statistiche. Ovvero, dato che in tutti i paesi vengono vaccinate milioni di persone di ogni età, è lecito attendersi che casualmente, ogni giorno, settimana, o mese, si verifichino eventi avversi lievi, gravi, o persino morti in individui che hanno da poco fatto la vaccinazione.Compito degli statistici è stabilire quali e quanti siano gli eventi attesi in un determinato periodo di tempo e identificare i cosiddetti outlier, ovvero gli eventi avversi che si sono verificati in più rispetto alle attese, e controllarli. E così che per esempio si sono identificate le trombosi atipiche causate dal vaccino Astrazeneca: gli scienziati norvegesi si sono accorti che nel giro di poche settimane in giovani donne vaccinate s’erano verificati cinque o sei casi di rare trombosi dei seni venosi cerebrali, la cui frequenza attesa era di un caso per milione all’anno, così hanno avviato un’indagine e hanno compreso che c’era un legame causale tra quel vaccino e quelle trombosi - peraltro curabili, che per fortuna hanno provocato poche morti. Così, il ministero della Salute britannica può dichiarare che fino ad oggi nel paese ci sono state solo «quattro morti causati direttamente dal vaccino», perlopiù shock anafilattici, e non migliaia come insinuano gli antivaccinisti.IL SISTEMA STATUNITENSE

Negli Stati Uniti il sistema delle segnalazioni avverse funziona allo stesso modo. Il Center for Disease Control e la Food and Drug Administration, entrambe agenzie governative, gestiscono il VAERS, ovvero il Sistema di Segnalazione degli Eventi Avversi da Vaccino: chiunque può volontariamente segnalare una reazione avversa o una morte avvenuta dopo una vaccinazione, ma ciò non significa che siano avvenute a causa della vaccinazione. «È un cavallo di battaglia degli antivaccinisti», mi racconta il mio collega Jeffrey Morris, epidemiologo dell’Università di Pennsylvania. «Prendono i documenti ufficiali con tutte le segnalazioni di eventi avversi, e ti dicono: vedete, ci sono migliaia di morti da vaccino! Ma quelle sono le reazioni avverse e le morti avvenute dopo il vaccino, non a causa di esso. Io ho fatto uno studio statistico sulla popolazione, e ho concluso che qui negli Usa, considerando i tassi di mortalità, ci potremmo aspettare che tra i vaccinati muoiano in maniera casuale 7 mila individui il giorno stesso della vaccinazione, 49 mila nella settimana successiva e 210 mila nel mese successivo, anche se il vaccino fosse perfettamente sicuro». È difficile accettarlo, ma inevitabilmente molte persone moriranno poco tempo dopo la vaccinazione solo per l’opera del caso. Come giustamente avverte il sito del VAERS: «Accettiamo la segnalazione di ogni evento avverso che accada dopo la vaccinazione, ma ciò non significa che il vaccino abbia causato o contribuito all’evento avverso o alla malattia». E anche in Italia chiunque può segnalare all’Aifa una reazione avversa al vaccino, checché ne dicano i dubbiosi.
USE  Da cosa sarebbero causate queste reazioni avverse? Anche qui circola una leggenda. I vaccini provocano reazioni avverse perché contengono la stessa proteina Spike del virus originario, che è responsabile dei danni provocati dalla malattia. E se li fa il virus li deve fare per forza anche il vaccino. Dice Paolo Bellavite, medico omeopata guru dei no-vax: «È una proteina bastarda questa Spike. Il problema del vaccino è che si comportano come quelle del virus, queste Spike si trovano nel sangue, vanno dappertutto e non stanno nel posticino dove avevano previsto». Falsissimo. I vaccini - sia quelli a vettore virale come Astrazeneca sia quelli a RNA come Pfizer e Moderna - iniettano l’istruzione per la proteina Spike nelle nostre cellule muscolari e connettivali vicine al punto di inoculazione, e queste si mettono a produrla: ma la proteina Spike resta attaccata alla loro membrana, e in poco tempo scompare, quindi di danni in giro per il nostro corpo non ne può fare.

Cosa c'è che non va nella testa dei no-vax ?

editorialedomani 

Giuseppe A. Veltri

22 dicembre

Qualche giorno fa è uscito sul New York Times un articolo che metteva in relazione le credenze fortemente radicate sulla medicina tradizionale e gli atteggiamenti anti-Covid nella provincia autonoma di Bolzano. L’inchiesta giornalistica conferma ciò che sappiamo da diversi studi fatti nelle scienze sociali che, come al solito, sono ignorati da istituzioni e politica. Il quadro che emerge piuttosto chiaramente è che i no-vax siano caratterizzati da un certo tipo di stile cognitivo nel valutare il rapporto tra uomo, natura e la sua salute. Questo modo di pensare tende all’essenzialismo, vale a dire al mantenere una immaginata purezza e ‘naturalità’ dell’uomo. Negli anni passati abbiamo visto fiorire movimenti e credenze sul ritorno alla natura, spesso basati su una versione idealizzata di cosa fosse la vita in condizioni pre-moderne, che cercano di dare identità e sollievo esistenziale alle persone che ascrivono a questo modo di pensare. A questo si aggiunge la contrapposizione infondata tra scienza e sapere scientifico e natura. La valutazione dei rischi e dell’impatto di un qualcosa come il Covid-19 è elaborato soprattutto in modo intuitivo ed emotivo. Persone con questo stile di pensiero sono presenti tra tutti i strati socio-economici della popolazione e non sono, quindi, legati a particolari caratteristiche demografiche. Al di là dei processi che interessano il singolo individuo, le dinamiche sociali di questi gruppi tendono a rafforzare queste identità e renderle separate dal resto, impermeabili dall’esterno. Le tradizionali strategie di intervento come le campagne di sensibilizzazione sono inefficaci perché agiscono sul mero fronte di fornire informazioni adatte ad uno stile di pensiero che è loro alieno e che vengono prontamente ignorate in modo selettivo, ci si informa soltanto tra individui che la pensano in modo uguale. Le valli della provincia di Bolzano, un luogo ad altissima qualità della vita e reddito, sono da molto tempo caratterizzate da una forte relazione tra identità locale e conservazione dello stile di vita ‘naturale’. L’enfasi sulla natura è diventato anche marketing territoriale ma già ai tempi delle vaccinazioni pre-Covid aveva provocato problemi, quei territori avevano un basso tasso di vaccinazione prima dell’introduzione dell’obbligatorietà. Non era difficile prevedere che alcuni territori, quelli con i tassi di vaccinazione pre-Covid, più problematici avrebbero ricreato simili resistenze nel caso del vaccino contro il Covid19.Un fattore di moderazione dell’ostilità anti-vax dovrebbe essere il livello di istruzione delle persone, ma questo è vero soltanto in parte. Le ragioni di questo sono complesse ma appare evidente che un titolo di studio non è sempre associato ad una maggiore conoscenza e soprattutto alla capacità di utilizzare forme di ragionamento analitico efficaci per comprendere la complessità che ci circonda. Ancora molto del nostro sistema di istruzione, anche a livello universitario, è basato su una idea di trasferimento di nozioni piuttosto che la costruzione di un capacità analitica più complessa e in grado di automigliorarsi. I gruppi No-vax andrebbero affrontati con il sapere scientifico che abbiamo sulle società umane, questa conoscenza è disponibile ma largamente non utilizzata.


23.12.21

L’ultimo zampognaro .,La fattoria che salva gli alberi di Natale., Il rider è anche il capo. E il delivery diventa etico.,

     inizio  questo post    con  due  storie   una storia  a metà  fra  natrale  e  post  natale e   ne  approfitto per  farvi 



  Ma  veniamo  alla  storie     in questione  

  da  https://www.ioacquaesapone.it/

L’ultimo zampognaro

A Scapoli, in Molise, a casa del maestro Franco Izzi che ha scelto di vivere costruendo zampogne

Lun 06 Dic 2021 | di Testo e foto di Roberto Gabriele | Bella Italia


Dicembre è il mese di Natale e, mentre la tradizione anglosassone porta l’immaginario collettivo tra renne e abeti innevati accompagnati dal suono di jingle e campanelle, le atmosfere italiane sono caratterizzate da presepi, paesini
illuminati e dal caratteristico e inimitabile suono delle zampogne.
Il cui regno è in Molise: qui, infatti, si trova Scapoli, il paese delle zampogne dove persino la musica di attesa del centralino del Comune è suonata con la zampogna.
Scapoli è il tipico paesino appenninico adagiato sul costone della montagna. 
Ci troviamo in provincia di Isernia, ai piedi del Monte Marrone, della catena delle Mainarde, teatro dell’omonima battaglia del 31 marzo 1944 che servì a far indietreggiare la linea Gustav dell’esercito tedesco arroccatosi sulla cima. Oggi solo 600 anime popolano questa piccola località che in 20 anni si è quasi dimezzata per numero di abitanti.
Scapoli è un luogo fuori dal tempo che cerca di resistere alla fuga dei giovani verso le città: il centro storico ha solo una strada che è il corso del paese, l’ufficio postale, il Comune e due bar che sono il vero centro di aggregazione sociale degli Scapolesi. Ovviamente c’è la chiesa, un minimarket e un camioncino che porta la frutta fresca in piazza ogni giorno.
Alla sommità del paese ci sono i bastioni fortificati della città vecchia e il Cammino di Ronda che ancora oggi costituiscono le passeggiate da fare nelle sere d’estate.
A metà aprile a Scapoli può anche nevicare: siamo alti in quota e siamo lontani dal mare, le stradine sono deserte, silenziose e tra i suoi vicoli si sentono solo i garriti delle rondini che riempiono il cielo, nessuna voce, nessuna auto, nessuna musica: a Scapoli si può perdere l’equilibrio.



DUE EVENTI L’ANNO
Due volte l’anno ci sono eventi speciali e il paese acquista un nuovo ritmo e suono: il primo è a Carnevale, quando cade la festa del Raviolo Scapolese, e d’improvviso il paese si riempie di migliaia di persone che vengono a mangiare questa specialità che non ha uguali nella cucina italiana: si tratta di un raviolone enorme, tanto che la porzione normale ne prevede solo 3 in un piatto. Il secondo è a fine luglio quando c’è il Festival Internazionale della Zampogna (da due anni sospeso a causa del Covid), il quale raccoglie ancora più persone che arrivano per
partecipare a questo evento unico al mondo. 
Poi di nuovo il silenzio e la vita tranquilla con i ritmi di una volta.
LA ZAMPOGNA SUL FRANCOBOLLO 
Nel 2014 alla zampogna di Scapoli è stato persino dedicato un francobollo di Poste Italiane proprio per celebrare il valore culturale di questo strumento musicale. Da segnalare il Museo Internazionale della Zampogna, purtroppo anche questo al momento è chiuso a causa della pandemia e per successivi lavori di ristrutturazione che promettono saranno finiti nella primavera 2022.
TRA UOMO E GREGGI
Ma la zampogna non va vista in una bacheca, va ascoltata, va vissuta come i pastori, insieme ai pastori: è uno strumento che non può prescindere dalle sue origini. Strumento usato già dagli antichi romani (che all’epoca lo chiamavano utriculus ossia “otre”), la zampogna è parte integrante del rapporto tra l’uomo e le sue greggi. L’esperienza più straordinaria alla quale si possa assistere è, infatti, ascoltare il suono della zampogna in montagna, con i musicisti vestiti da pastori con i loro gilet di pelliccia, i camicioni bianchi o a quadri, i pantaloni di velluto alla zuava infilati nei calzettoni di lana e con le tipiche “ciocie” ai piedi e annodate sui polpacci: una scarpa che qui un tempo era così diffusa da dare il nome di ciociari a tutti quelli che le indossavano e anche alla Ciociaria, un’area che comprende la provincia di  Frosinone.
Ma, al di là dei ricordi di un passato lontano, c’è chi questi ricordi continua a renderli vivi: è il Maestro Franco Izzi, l’ultimo zampognaro rimasto che ha deciso di vivere costruendo zampogne, non come fosse un hobby, ma come scelta radicale di vita.


Con lui ho trascorso qualche giorno e ho potuto conoscere questo uomo forte e deciso, di solidi principi e dal carattere apparentemente introverso, scoprendo presto, dietro la sua coriacea  scorza da pastore e montanaro, una grandissima voglia di socializzare e di condividere il suo sapere, la cultura popolare nella quale è cresciuto e della quale è un vero ambasciatore.
L’ho compresa subito la sua natura quando, al mio arrivo, mi ha accolto come un vecchio amico invitandomi a pranzo: un indimenticabile pranzo frugale e straordinario di quelli che si organizzano solo con i famigliari più stretti!
Ho capito subito che c’era molto da imparare da quest’uomo. L’ho capito dalle grandi mani, dal modo in cui tagliava il pane. 
La sua casa un fortino senza tempo, con un calendario in cucina fermo al dicembre 1956: pietre a vista sui muri, un tavolo, le sedie, una poltroncina e il caminetto che, oltre a riscaldare l’ambiente, ci è servito per cucinare la bistecca. Davanti a noi i suoi quattro cani, ordinatamente seduti sul divano.
Per un po’ abbiamo parlato di tanti argomenti, mi ha mostrato casa, abbiamo pasteggiato raccontandoci episodi del passato, come due vecchi amici. Poi si è allontanato e, quando è tornato, era vestito da zampognaro. Ha cominciato così a parlare di toni, semitoni, ottave e chiavi, mi ha spiegato come funziona la zampogna, la sua storia, le dimensioni, le difficoltà per suonarla e gli accorgimenti per costruirla. Mi ha parlato di bordone e di canto, di otre e di campana… L’ho ascoltato a lungo, ho compreso poco, ma mi è arrivata tutta la sua esperienza e passione. Anche quando mi ha parlato con comprensibile orgoglio del suo "Bordone Modulabile" da lui inventato e poi brevettato a Campobasso: un’innovazione che ha portato la zampogna a diventare uno strumento completo, cioè con la possibilità di avere tutto il giro armonico della propria tonalità. Una lezione di musica, di scale, di tonalità e armonie…
NELLA BOTTEGA 
Nel corso del pomeriggio, poi, mi ha portato nella bottega alla quale si accede direttamente dalla scala interna di casa.
E mentre io impazzivo in quella bottega profumata di essenze di legno stagionato e per quella luce con intensità variabile “a zone” diversa in ogni  angolo della stanza… Franco mi ha mostrato con le sue mani forti tutti i procedimenti costruttivi delle sue zampogne: dalla realizzazione dell’ancia alla tornitura delle canne, i suoi legnami invecchiati per otto lunghi anni prima di poterli lavorare per farli diventare canne o bordoni di una zampogna.
Poi mi ha portato fuori, nel vicoletto, si è messo nascosto dietro una delle finestre del Cammino di Ronda che fa da cassa armonica e, abbracciando la sua zampogna da 32, ha iniziato a suonare riempiendo delle sue note tutta la valle.
Il giorno dopo quella magia si è riaccesa ancora un volta. è accaduto al Monumento ai Caduti di Monte Marrone dove l’ultimo zampognaro ha voluto suonare solo per me. Così si è arrampicato a diversi metri di altezza su una serie di blocchi di cemento sovrapposti (uno per ciascuna Regione Italiana) e da lì ha iniziato a suonare per me e quel pubblico in alto tra le nuvole.                                                  


Sulle Prealpi vicentine c’è un parco dove gli abeti vivono tra una festività e l’altra, rispettando i criteri di sostenibilità ambientale. E dove il legno è protagonista 

 di Nicola Saccani



Il rider è anche il capo. E il delivery diventa etico
                     Giulio Schoen

Sette fattorini di Firenze hanno deciso di mettersi in proprio: è nata Robin Food, una coop che propone un modello alternativo ai colossi internazionali delle consegne


Un puzzle di fossili: così si ricompone il dinosauro


Alla scoperta del laboratorio Zoic di Trieste, uno dei più importanti al mondo nelle preparazioni paleontologiche: da qui è passato anche Big John, il triceratopo record
di   Simone Modugno

di 

22.12.21

In Spagna, una coppia gay ha adottato due bambini. Durante un'intervista, entrambi hanno espresso la loro contrarietà verso la pratica dell'utero in affitto, respingendo così la retorica del sangue patriarcale.

   ringrazio  https://www.facebook.com/rosalia.alocco  per avermi fatto conoscere questa storia presa da

17 dSifcm9ceumcbre a0iul990le or5eo 138h:ha37  In Spagna, una coppia gay ha adottato due bambini. Durante un'intervista, entrambi hanno espresso la loro contrarietà verso la pratica dell'utero in affitto, respingendo così la retorica del sangue patriarcale.

Ai loro figli hanno spiegato che sono nati da una MADRE, senza raccontare storielle orribili su "portatrici" e "ovini magici". Questi due uomini hanno accettato il loro limite biologico, rifiutando la pretesa egoistica di strappare due neonati alle madri sulla base di una goccia di sperma, e oggi sono due splendidi genitori. Grazie per la vostra preziosa testimonianza, ragazzi. Siete un esempio da seguire, a differenza di chi si riempie la bocca di parole come "amore" e "diritti", per poi commissionare neonati e neonate nelle cliniche statunitensi, recidendo a tavolino il legame materno. Finalmente, qualcuno che vive la mia soggettività ha capito che non si nasce né da un desiderio né da un progetto, bensì dal corpo di una donna. Dire la verità ai bambini e alle bambine è un atto di grande maturità che supera quelle illusioni che non saranno mai realtà. Storie che fanno sperare.

Da fattorini a rider SO-DEIl delivery etico è possibile?


discutendo   con  un amico   sui rider   ho  trovato cercando  online    quest  articolo    diu  https://www.linkiesta.it/


Una riflessione sul passato e sul futuro delle consegne a domicilio, per capire la centralità di questo servizio nel presente e immaginare soluzioni per renderlo sostenibile nei prossimi anni

                    Aldo Palaoro

Il dibattito sul delivery dura da tempo. Gli ingredienti della miscela che compongono questo servizio la rendono, da sempre, potenzialmente esplosiva, ne abbiamo scritto più volte anche su queste pagine. É un servizio che, già prima della pandemia che l’ha reso spesso imprescindibile, era amato e conosciuto dai clienti, che ne facevano ricorso per comodità, perché poco abili in cucina, o per concedersi qualche piccolo lusso senza uscire di casa, perché soli, per convivere con ritmi lavorativi stringenti. Dunque, la domanda dei consumatori si può considerare il primo ingrediente ormai ineluttabile. Il secondo è l’offerta e non è una novità, infatti, già nell’era analogica, ossia prima dell’avvento delle piattaforme di delivery digitali, si poteva alzare la cornetta e chiamare un esercizio pubblico, il più delle volte una pizzeria di quartiere, e farsi recapitare a casa una pizza da un fattorino dello stesso locale. Fattore, dunque, da registrare come positivo dal momento che, non solo aumenta i ricavi e i margini dell’impresa, ma permette di garantire posti di lavoro. Terzo ingrediente, emerso, appunto, con la nascita delle società di delivery, terze rispetto ai servizi di consegna svolti in proprio da dipendenti dei ristoranti, è lo sviluppo esponenziale delle possibilità che questa nuova modalità offre, sia ai ristoratori sia ai clienti. I primi possono approfittare di un servizio a costi variabili, aumentando, così, la propria offerta senza incidere sui costi fissi. I secondi possono allargare a tutto il territorio cittadino la varietà di ristoranti e cucine dove ordinare un pasto. Già su questo ingrediente, però, qualche naso che si storce da parte dei ristoratori ci sarebbe, infatti, nel breve tempo in cui questi servizi hanno preso piede, le società che gestiscono i cosiddetti rider, che prima, nella fase ancora autarchica del servizio, si chiamavano fattorini, hanno gradualmente, ma inesorabilmente, aumentato i propri margini di guadagno, con punte di sgradevole speculazione nel periodo che stiamo vivendo, quando le frequenti situazioni di quarantena che i vari decreti governativi o regionali impongono, hanno aumentano a dismisura la domanda. Alcuni ristoratori, vedendo diminuire al limite della convenienza in propri margini, si stanno ribellando e stanno pensando ad alternative per la consegna  . L’ingrediente, però, forse più dibattuto e che agita le coscienze di molti, è l’attività dell’ultimo anello di questa catena, che, non a caso, definiamo così, perché, nello sfruttamento di cui i rider sono vittime, si rivedono alcuni dei comportamenti eticamente inaccettabili che, in piena rivoluzione industriale, prima che dell’introduzione delle tutele minime per la dignità di ciascun lavoratore, erano proprie della catena di montaggio di un qualsiasi reparto di una fabbrica.Il dibattito è aperto da tempo perché sul piatto della bilancia ci stanno due fattori di cui è difficile capire l’equilibrio: da una parte, innegabilmente, quello del rider è un lavoro, tuttavia, a oggi, la dignità di questo lavoro è ben al di sotto della soglia di tolleranza, così molti clienti vivono nel dilemma, contrastante e lacerante, di essere parte di un sistema che, al contempo, ripaga e sfrutta il lavoratore. Come uscirne ? Tra i primi a sottolinearne le storture, nonché i rischi per la salute e la sicurezza personale dei lavoratori delle piattaforme di Food Delivery, furono gli ideatori del gruppo di opinione chiamato “DOOF, l’altra faccia del food”, un team di persone esperte del settore ristorazione guidati da Valerio Massimo Visintin, critico gastronomico del Corriere della Sera, che, in diversi convegni di settore, affrontarono l’argomento cercando di ipotizzare una soluzione che garantisse tutti i soggetti coinvolti, a partire dai lavoratori, pagati il giusto e tutelati nei propri diritti essenziali, ai ristoratori e agli intermediari beneficiati di un equo guadagno, fino ai clienti rassicurati di svolgere la propria parte senza essere e, soprattutto, sentirsi complici di un’ingiustizia. In questo contesto si arrivò a coniare il termine DOOF Delivery, quasi a voler ribaltare, con l’uso delle parole, i termini della questione, trovando, finalmente, una soluzione etica che potesse rispondere a tutti i dilemmi esposti e annullare il carico esplosivo della miscela degli ingredienti, trasformandola in un vantaggio positivo per tutti i protagonisti. Un servizio, ipotizzarono allora Visintin, Samanta Cornaviera e il sottoscritto, che avesse anche un côté solidale, magari impiegando personale che avesse perso l’impiego o che, comunque, per un qualsiasi motivo, si trovasse in difficoltà economica. Sono passati alcuni anni e la pandemia, avendo fatto esplodere il mercato del delivery – oggi non più solo legato al cibo –  se da una parte ha estremizzato le situazioni già al limite della sopportazione generando proteste e accentuando ingiustizie, dall’altra ha permesso che la creatività e la lungimiranza di alcune istituzioni stimolassero la nascita di qualcosa che a quel servizio di Doof Delivery immaginato a tavolino assomigliasse. In questi giorni il Comune di Milano ha selezionato alcuni progetti dal bando del Crowfundig Civico, una nuova modalità, messa a punto per finanziare progetti sociali e culturali nei quartieri dove il Comune, gli enti non profit e i cittadini uniscono le forze per migliorare la città.  In pratica, attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”, chiunque può contribuire sostenendo i diversi progetti accolti. Ogni realtà selezionata ha 60 giorni per raccogliere una parte delle risorse (il 40%) attraverso piccole donazioni dei cittadini. Il Comune finanzierà il resto dei costi (il 60%) con un contributo a fondo perduto fino a 60.000 Euro.  Tra questi progetti uno è proprio dedicato alla consegna a domicilio; nasce a Dergano, un quartiere della periferia nord di Milano, un luogo che ha dimostrato in questi anni grande fermento e sensibilità, promuovendo realtà come le social street o associazioni che hanno avuto come scopo creare uno spirito di comunità e solidarietà che, guarda caso, proprio durante i periodi di quarantena pubblica forzata, ha contribuito a fornire servizi essenziali a tutti i cittadini, in particolare quelli più fragili alleviando i tanti disagi vissuti. In questo contesto virtuoso è nata SO-DE (Social, Solidale, Sostenibile –  DElivery), non tanto lontano da quel Doof Delivery, ma, giustamente adeguato a tutti i servizi che questa neonata attività vuol fornire, partendo dalla consegna di cibo, fino a libri, piante, abbigliamento, insomma qualsiasi cosa trasportabile, ma non solo, anche una rappresentazione teatrale mobile. Non è, però, importante ciò che si offre, anche se dare lavoro anche ad artisti, colpiti duramente dallo stop di questi mesi, vale molto; è fondamentale, invece, l’aspetto legato alle tutele dei lavoratori che beneficeranno di un contratto di lavoro subordinato vero, con tutte le tutele, corso di formazione compreso, finalizzato a gestire al meglio il proprio mestiere, imparando a fare piccole riparazione al mezzo di trasporto, a conoscere il codice della strada, a migliorare le proprie competenze in materia di relazioni interpersonali, nonché apprendere le basi delle norme sulla sicurezza del lavoro. Il progetto, inoltre, essendo immaginato per un quartiere, ha l’ambizione di far diventare questi “So-De-Rider”, selezionati, peraltro, nelle categorie più fragili, un persona di famiglia, un po’ come quei portieri dei grandi palazzi dei film americani che conoscono tutto degli abitanti e, spesso, nella narrazione cinematografica sono degli angeli custodi. Non c’è che augurarsi che questa scintilla alimenti un fuoco rigoglioso e spinga anche le multinazionali del delivery a rivedere le proprie pratiche, magari capendo che l’etica col tempo le farà guadagnare di più, cancellando i sensi di colpa che attanagliano ristoranti e clienti.

 

21.12.21

La "Giovanna d'Arco"Apache e altre coraggiose donne native americane del XIX secolo.



Nel mondo di oggi, pochi sono i gruppi di persone che hanno un passato e una cultura così affascinanti come i nativi americani. Ma, sebbene la loro storia risalga a molti secoli fa, non si sa molto delle donne native americane e del loro ruolo di guerriere e capi di tribù in quanto la  maggior  parte  della storici ed  appassionati  del farwest   le  attribuiscono o ruoli   secondari  o  non e  parlano  
Quando si  parla  di famose donne native americane, i  primi pensieri corrono probabilmente a Pocahontas o Sacajawea.La realtà è che queste donne sono famose solo dalla prospettiva e dalle storie delle persone che non erano native  vere  e   proprie  .Infatti    i  << Personaggi femminili -- come  afferma  quest ottimo ed  interessante  articolo di  https://darkgothiclolita.forumcommunity.net  -- nativi americani del XIX secolo sono di solito raffigurati attraverso le loro relazioni con i coloni e non attraverso le loro esperienze e realizzazioni individuali.>>Ciò è in parte dovuto al fatto che la maggior parte delle notizie sulle battaglie che hanno avuto luogo nel "Nuovo Continente" sono state scritte da storici europei. E gli europei di quel periodo consideravano la guerra qualcosa che coinvolgeva solo gli uomini. Questo è probabilmente il motivo per cui le donne guerriere native che hanno partecipato alle battaglie fianco a fianco dei loro uomini sono state menzionate raramente. Io credo  come suggerisce  l'articolo  ,   che si meritino un posto importante e quindi ho voluto dedicare loro questo post  d'oggi  articolo  ,   della  pagina   https://www.facebook.com/emozionidivita/posts/5013458508665241   e  approfondito    con   https://darkgothiclolita.forumcommunity.net/?t=61436815

Ecco alcune di quelle coraggiose donne guerriere dei nativi americani del XIX secolo ... Lei è Lozen , Straordinaria capotribù Apache. E mentre Toroseduto o Geronimo. sono notissimi celebrati difensori eroici dei territori indigeni, lei è pressoché sconosciuta. Coraggio, abilità militare e dedizione al suo popolo, Lozen era una sciamana che ha combattuto contro le forze messicane e americane per 30 anni, con il soprannome di "Giovanna d'Arco Apache". Andava a cavallo e sparava; era magica nel localizzare gli invasori. Era un'alleata fidata di Geronimo e sorella del capo Apache Victorio che di lei diceva:“Forte come uomo, più coraggiosa della maggior parte di loro e straordinaria nella strategia. Lei è uno scudo per il suo popolo". Vita straordinaria la sua. Finita sotto la custodia americana, Lozen viaggiò come prigioniera di guerra verso Mount Vernon, nello stato dell'Alabama. Come molti altri guerrieri Apache tenuti prigionieri, morì in carcere di tubercolosi, il 17 giugno 1889.





Buffalo Calf Road Woman



La battaglia di Rosebud, combattuta il 25 giugno 1876, è l'avvenimento che ha fatto guadagnare la fama e il rispetto a Buffalo Calf Road tra la sua gente e ha cementato per sempre il suo posto nella storia dei nativi americani come una delle guerriere più coraggiose.
Fu in quel particolare giorno che mostrò le sue feroci capacità di battaglia contro le forze del governo degli Stati Uniti che minacciavano la sovranità del popolo Cheyenne.



Buffalo Calf Road Woman è meglio ricordata per il fatto di aver salvato suo fratello, Comes In Sight, dopo essersi ritrovato intrappolato dietro le linee nemiche.
L'atto coraggioso non è passato inosservato ai suoi compagni guerrieri che ne furono fortemente ispirati a continuare a combattere e alla fine hanno vinto la battaglia.
Ma questa non è l'unica battaglia in cui Buffalo Calf Road Woman ha lasciato il segno.
Ha anche combattuto al fianco di suo marito nella "Battaglia di Little Bighorn" ed è accusata di aver ucciso il tenente colonnello George Armstrong Custer.

Dahteste


Dahteste nel 1886.

Se pensate che solo gli uomini Apache fossero abili guerrieri, maestri inseguitori e ottimo cavalieri, allora sappiate che vi sbagliate di grosso. La storia di Dahteste che vi racconterò vi dimostrerà di avere torto.Il fatto che questa donna nativa americana fosse sposata e avesse figli non servì ad impedirle di partecipare a numerose incursioni al fianco di suo marito.
Più tardi nella sua vita, si unì al leggendario Geronimo, insieme a un'altra famosa donna guerriera chiamata Lozen.
Oltre ad essere una coraggiosa e abile guerriera, era in grado di parlare fluentemente inglese e fece da messaggera e traduttrice per gli Apache. Dahteste divenne un mediatore tra la cavalleria degli Stati Uniti (a volte fungendo da loro scout) e Geronimo.Ha giocato un ruolo importante nella sua resa finale nel 1886.
ulteriori news in inglese https://en.wikipedia.org/wiki/Dahteste

Lozen

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Lozen (1840 ca.-17 giugno 1889) era una donna guerriera e profeta della tribù Chihenne Chiricahua Apache.
Un'altra guerriera nativa americana e alleata del famoso Geronimo fu una donna di nome Lozen, il cui coraggio e interesse per l'arte della guerra diventarono leggenda nel corso dei decenni.
Conosciuta tra gli storici come "la Giovanna d'Arco Apache ", questa guerriera della tribù Chihenne Chiricahua Apache era la sorella di Victorio, un noto capo degli Apache, che descriveva Lozen come la sua mano destra aggiungendo che era "forte come un uomo, più coraggiosa della maggior parte, e dotata di astuzia e strategia. Lozen è uno scudo per il suo popolo. ”

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Oltre ad essere una delle guerriere più coraggiose, era anche una leader spirituale della sua gente, una grande stratega e donna di medicina.
Secondo le leggende e le storie che circondano il suo nome, fu in grado di usare i suoi poteri spirituali in battaglia.
Richiamò il favore degli dei per imparare la posizione e il movimento del nemico.
Ha partecipato a numerosi combattimenti sulla San Carlos Reservation in Arizona insieme a suo fratello.
Durante quelle lotte, aiutò molte donne e bambini a fuggire dalle mani del nemico ed evitò di farsi catturare.
Secondo una guerriera di nome Kaywaykla, era una delle più abili degli Apache: “Poteva cavalcare, sparare e combattere come un uomo; e penso che avesse più abilità nella pianificazione della strategia militare di Victorio. ”Lozen prese parte a molte battaglie. Ha anche combattuto al fianco di Geronimo nell'ultima campagna della guerra degli Apache .
https://en.wikipedia.org/wiki/Lozen


Woman Chief (Pine Leaf) (Capo donna (foglia di pino)

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Illustrazione di "Pine Leaf", forse identificato con Woman Chief, dall'autobiografia di James Beckwourth

Il suo vero nome rimane un mistero per gli storici, ma ciò che si sa è che era una guerriera e il capo del popolo della tribù CROW (Corvo), che la chiamava Capo donna (Woman Chief -Bíawacheeitchish).
In alcuni registri si dice che probabilmente è la stessa persona di Pine Leaf.
Quando aveva 10 anni, un gruppo di indiani Crow la prese dalla sua tribù (i Gros Ventres) e un guerriero Crow la adottò.
Fin da piccola, dimostrò particolare interesse per l'equitazione, il tiro a segno e il combattimento e non ci volle molto per diventare una delle donne guerriere più conosciute nella storia dei nativi americani.
Woman Chief fu riconosciuta come guerriera durante un'incursione del Blackfoot su un forte che proteggeva Crow e le famiglie bianche.
Secondo le storie, è riuscita a difendere il forte da molti degli aggressori e ha svolto un ruolo chiave nel respingere il raid.
Più tardi riuscì a radunare un gruppo di suoi guerrieri e attaccare gli insediamenti di Blackfoot.
Come ricompensa per i suoi successi, le fu dato un posto nel Consiglio dei Capi sotto il nome di Bíawacheeitchish (Capo Donna).Riuscì persino a diventare terza tra le 160 logge del Consiglio.



Siti consultati


20.12.21

ci sono , beate loro, ancora persone che vedono le istituzioni come punto di riferimento il caso della signora Francesca Bombarda, morta nel marzo scorso lascia quasi 3 milioni d'euro al comune di Torino

 da  https://torino.repubblica.it/cronaca/2021/12/20/news/


Se ci fossero tante signore Francesca Bombarda, il Comune di Torino probabilmente risolverebbe i suoi problemi di bilancio. È questo il nome della torinese che, prima di morire, ha lasciato in eredità a Palazzo di città ben 2,3 milioni di euro e un appartamento di sei stanze in via Albenga, in zona Stadio Filadelfia. Di lei si sa davvero poco. Aveva 79 anni, i capelli corti e doveva essere stata una bella donna. È venuta a mancare a marzo scorso. Si sentiva molto sola dopo che, anni prima era rimasta vedova. Non aveva figli, né fratelli. Le tenevano compagnia i suoi due cani e qualche amica che frequentava di tanto in tanto.

 


Chi l’ha conosciuta ha avuto l’impressione che fosse una donna amareggiata dalla vita, come se le fosse successo qualcosa di molto brutto, un evento traumatico. Era comunque sempre gentile, vestiva con giacche con ricami in lana e abiti che ricordavano quelli delle contestazioni degli anni Sessanta e non portava gioielli. Credeva che la sua eredità potesse essere utile alla collettività.
Di lei si sa poco. Cosa faceva nella vita e suo marito? La loro casa era modesta, senza alcun lusso, e chi ha conosciuto la signora non immaginava potesse disporre di tale cifra sul conto corrente. Adesso il Comune, appurata l’inesistenza di debiti, accetterà l’eredità e potrà usarla senza alcun vincolo. Di questo si è parlato oggi in commissione comunale Bilancio.
Una commissione a margine della quale la presidente Anna Borasi ha auspicato che si possa dedicare alla signora Bombarda una targa in modo che il suo nome venga ricordato. La vicesindaca Michela Favaro parla di segnale importante di fiducia alle istituzioni: “Il gesto di questa donna è un segno di attaccamento alla città in cui ha vissuto. E' la prova che esistono ancora persone che vedono le istituzioni come punto di riferimento".

Giacomo Rossi ha 31 anni e difende la porta dell'Ads Geotermica di Larderello (Pisa) in prima categoria batte l'imbattibilità di Gigi Buffon

   da   https://firenze.repubblica.it/sport/2021/12/20/


C'è un sussurro nel silenzio di Larderello, una frazione del comune di Pomarance in provincia di Pisa. Campo di calcio di Prima Categoria, dove la capolista Geotermica sta affrontando Caldana. Giacomo Rossi, 30 anni, sta difendendo i pali della squadra di casa. Dalle sue parti arrivano pochi tiri, merito della difesa e in generale dei suoi
compagni. Che attaccano, tengono il pallone lontano dalla loro area di rigore. Da questa posizione un portiere portiere può osservare tutti i movimenti dalla distanza. "Giacomo, manca poco ormai". "Ancora due minuti". "Ok, ce l'hai fatta", la cronaca in diretta di un dirigente che si era appostato proprio dietro la sua porta. Giusto un attimo, quello che ha diviso il portiere dei dilettanti da una leggenda del calcio italiano: Gianluigi Buffon. 990 minuti senza mai prendere un gol, ovvero 11 partite di fila nelle quali Geotermica ha messo in serie nove vittorie e due pareggi. E' Rossi il portiere imbattibile d'Italia. Certo, siamo in altre categorie e il paragone non può reggere. Ma i numeri non mentono. Buffon, con la maglia della Juventus, nella stagione 2015/16 si era fermato a 973 minuti di imbattibilità in Serie A. Prima di lui un altro Rossi, Sebastiano, che nel 1993/94 col Milan era arrivato a 929'.

Quando gli dicono del record, sognato per settimane, si distrae soltanto un attimo per realizzare. La gara termina 4-0 e lo speaker annuncia: "Complimenti al nostro portiere che supera il record di un certo Buffon". Non ci credeva, Giacomo. Ma era soltanto l'inizio della festa. "Sono piccole grandi soddisfazioni ma il merito non è soltanto mio - ripete con grande umiltà questo ragazzo che anche stamattina, come gli altri giorni della settimana che non siano la domenica, è in giro per lavoro - faccio il corriere e sto consegnando pacchi anche adesso". Un corriere nella vita, un record man tra i pali.

"All'inizio non ci pensavamo nemmeno, andavano in campo per vincere ma poi abbiamo iniziato a prendere atto che non subivamo gol - racconta Rossi - col passare delle partite lo score aumentava e iniziava a diffondersi la notizia. Ci abbiamo preso gusto e così il gruppo è sceso in campo ancor più forte. La nostra è una squadra costruita per vincere. Anche nell'ultima partita, zero tiri in porta da parte degli avversari". Uno squadrone, insomma. Certo, l'accostamento con Buffon mette un po' i brividi. "Non ho mai avuto l'onore di conoscerlo e certo, mi farebbe molto piacere incontrarlo. Non capita tutti i giorni - continua Rossi - ma non credo si interessi a noi, alla nostra squadra". E' consapevole che tutto, nella vita, scorre senza interruzione. E un giorno anche il suo record non resisterà più. "E' una vita che gioco a calcio, sempre in queste categorie. Mi diverto. Conta questo". Ha un pensiero anche per il suo allenatore, Claudio Ballerini. "Dico sempre che non è un mister ma un amico, ed è fondamentale in queste categorie un rapporto così tra giocatori, allenatore e società. Siamo tutti una famiglia". Rossi avrà ripensato anche ai suoi inizi nella squadra del suo paese, Guasticce. A 16 anni arriva in prima squadra, ragazzino in mezzo a tanti più esperti. Non lascia più la sua porta, gira la Toscana sempre tra Promozione e Prima Categoria. E il segreto, è semplice: "Fare il portiere in una squadra che prende decine e decine di tiri è facile, puoi sempre metterti in mostra - racconta - ma in una che subisce pochissimi tiri come la nostra, è davvero difficile. Noi non andiamo in campo per non prendere gol ma per vincere la partita. Poi siamo più forti e riusciamo a non subire gol. Lavoriamo per un unico obiettivo, quello di vincere il campionato. Ci aiutiamo, ci sosteniamo. La squadra è davvero forte e il segreto è il gruppo. Poi certo, ci metto anche del mio: altrimenti che mi hanno preso a fare?", sorride in maniera autentica mentre aumenta il passo per un'altra consegna in giro per la provincia di Pisa. Quando ha superato il record di Gianluigi Buffon e Sebastiano Rossi, lo speaker del campo sportivo di Larderello (frazione del comune di Pomarance, provincia di Pisa) l'ha annunciato a tutti gli spettatori. E lui, tra i pali concentrato ed emozionato, ha pensato subito a quei due portieri che è riuscito ad eguagliare e poi superare. Si chiama Giacomo Rossi, ha 31 anni e gioca in Prima Categoria all'ASD Geotermica. La sua squadra è in testa dopo 11 giornate di campionato: 9 vittorie, 2 pareggi. E lo "zero" sotto la casella dei gol subiti.  Infatti Rossi, che durante la settimana lavora come corriere prima di infilarsi i guanti da portiere, non prende gol da 11 gare di fila. Ovvero 990 minuti totali. Meglio di Sebastiano Rossi (929 minuti di imbattibilità) e Gigi Buffon (973 minuti). Giacomo gioca in Prima Categoria, dunque tra i dilettanti. Ma quando si è tra i pali, conta difendere la porta. Difendere il risultato. Giocare di squadra. Non è un caso, allora, se il suo primo pensiero è stato rivolto proprio al resto della squadra. Perché conta il collettivo e tutti cercano di fare il meglio.  L'ASD Geotermica nasce nel 2005 dalla fusione fra il GS Serrazzano e l'AC Valdicecina. La squadra allenata da Claudio Ballerini guida il girone G della Prima Categoria, con quattro punti di vantaggio sull'inseguitrice Massa Valpiana. E da oggi può contare su un portiere dei record: Giacomo Rossi.

Meloni e company facessero leggi più serie anzichè Vietare le parole «handicappato» e «diversamente abile» nei documenti ufficiali. un linguaggio più inclusivo non si fa per via legislativa

  se invece  di  fare  una legge  per una   cosa di poco conto   visto che  la  sostanza  non cambia   facessero leggi  o  almeno modificase...