4.2.17

per certe storie non è mai tardi e non hanno data Venezia, destini incrociati di due donne in ospedale In fuga dai nazisti, l'infermiera riconosce la paziente: "i miei nonni salvarono la sua famiglia"

ecco che certe storie non hanno non dovrebbero avere, come da titolo , date fisse o di scadenza e vanno raccontate sempre . Ecco perchè nei tag sulla giornmata della mmoria metto 27 gennaio sempre


da http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca  del  4/2\2017 

Venezia, destini incrociati di due donne in ospedale
In fuga dai nazisti, l'infermiera riconosce la paziente: "i miei nonni salvarono la sua famiglia"

di Vera Mantengoli





Daniela Foà e la madre Egeria Banon

VENEZIA. «La famiglia Foà riconoscente». Per anni questa frase, incisa nel retro di un ciondolo raffigurante una Madonnina, ha accompagnato la famiglia Sartori di Pianiga. La scritta era un dono della famiglia veneziana Foà ai Sartori per ringraziarli di averli salvati dai campi di concentramento.
Se nel primo dopoguerra i rapporti tra i Foà e i Sartori erano continuati, lentamente poi si sono diradati fino a perdere ogni contatto. Un mese fa, per coincidenza o destino, le famiglie si sono incrociate.
L’attrice e casting director veneziana Daniela Foà, classe 1947, figlia dell’allora giovane coppia Enrico Foà ed Egeria Banon, è stata operata al cuore all'ospedale all'Angelo
Il giorno prima di essere dimessa, Catia Sartori, operatrice sanitaria del reparto di Cardiochirurgia, le ha chiesto timidamente se per caso appartenesse a una famiglia di origine ebraica. «Sapevo dell’esistenza di questa famiglia da una scritta su un ciondolo che mia nonna non si toglieva mai» racconta la donna, 53 anni, nipote di Federico Sartori e Margherita Testolini, i contadini (suoi bisnonni) che durante la guerra avevano ospitato la famiglia di Enrico Foà, sedici persone. «Ho sempre saputo di avere due padrini, uno cattolico e uno ebreo. Quello ebreo è Enrico Foà, il papà della nostra paziente Daniela» racconta Catia Sartori «Non è mai stato un problema quello delle due religioni, per noi era normale».



I bisnonni di Catia Sartor: salvarono la famiglia ebrea di Daniela Foà dai nazisti
Il giorno prima di essere dimessa, Catia Sartori, operatrice sanitaria del reparto di Cardiochirurgia, le ha chiesto timidamente se per caso appartenesse a una famiglia di origine ebraica. «Sapevo dell’esistenza di questa famiglia da una scritta su un ciondolo che mia nonna non si toglieva mai» racconta la donna, 53 anni, nipote di Federico Sartori e Margherita Testolini, i contadini (suoi bisnonni) che durante la guerra avevano ospitato la famiglia di Enrico Foà, sedici persone. «Ho sempre saputo di avere due padrini, uno cattolico e uno ebreo. Quello ebreo è Enrico Foà, il papà della nostra paziente Daniela» racconta Catia Sartori «Non è mai stato un problema quello delle due religioni, per noi era normale».



Catia Sartori, operatrice sanitaria all'Angelo

Daniela e Catia non hanno mia vissuto sulla loro pelle la fuga da Venezia, ma Egeria Banon, oggi 96enne residente al Lido, ricorda tutto. «Il 5 dicembre 1943» racconta la figlia Daniela «i miei ebbero una soffiata: quella notte sarebbero arrivati i nazifascisti al Ghetto. All’epoca avevano circa 22 anni e, nonostante fossero fidanzati da tempo, non potevano fuggire senza matrimonio. Così, in fretta e furia, si sposarono e poi scapparono con mezzi di fortuna rifugiandosi a Pianiga». A dar loro ospitalità furono appunto Federico e Margherita, genitori di Guido Giuseppe Sartori e Maria Lorenzi, i nonni di Catia. «Avevano paura di essere scoperti» spiega «Mio nonno lavorava come muratore a Venezia e forse si erano conosciuti così. Ogni giorno faceva Pianiga e Venezia in bicicletta. Mia nonna Maria non si è mai tolta quel ciondolo. Sono cresciuta con questa storia che ho sempre sentito vicina, soprattutto perché oggi abito nella stessa casa, dove il ricordo di quella famiglia è sempre vivo anche tra le mie zie Gianna, Giuseppina e Anna. Mi piacerebbe che anche mia figlia che ha 27 anni li conoscesse».


                                                      Egeria Banon


Per la famiglia Foà quei ricordi appartengono a un periodo buio. In sedici hanno dovuto affrontare molte prove, inclusa la volta che Egeria era stata fermata dai nazisti. «Cercavano una donna ebrea che le assomigliava» ricorda Daniela Foà «Mia mamma aveva un passaporto falso, ma si è vista la morte in faccia». Non ha rischiato solo quella volta. Egeria dopo un anno è rimasta incinta. Una levatrice veneziana si è offerta di nasconderla da lei fino al parto del primo figlio Franco, avvenuto di nascosto in una casa in Campo della Bragora. «Dopo è tornata in campagna» prosegue Daniela «Non potevano fare molto. Di giorno andavano nei campi a rubare le verze per mangiare. Alla sera arrivavano dei partigiani e si faceva filò tutti insieme attorno al fuoco. Avevano tutti paura di essere scoperti. Hanno patito il freddo, ma sono sopravvissuti».
Dopo due anni arrivano gli americani. «C’erano anche i marocchini con gli Alleati» racconta Daniela «I miei genitori avevano finito tutti i loro risparmi. Tornati a Venezia vennero ospitati dalle sorelle Lina e Amalia Navarro, sopravvissute ad Auschwitz». «Credo che questa storia abbia lasciato qualcosa a tutti i membri della mia famiglia» spiega Catia Sartori «Quando ho portato mia figlia a Venezia siamo andate al Ghetto e abbiamo preso qualche biscotto. Mia nonna mi diceva che i Foà ce ne mandavano sempre in occasione delle feste». Uscita dall’ospedale Daniela ha postato un pensiero su FB: «Senza l’aiuto di quelle persone probabilmente non sarei mai nata. C’è da riflettere? Io credo di sì».













6 Febbraio Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili


https://it.wikipedia.org/wiki/Mutilazioni_genitali_femminili
https://it.wikipedia.org/wiki/Infibulazione
https://actionaid.ch/attualita/news/le-mutilazioni-genitali-femminili

Lo so che avevo già parlato   dell'infibulazione e delle mutilazioni  femminili  da  qualche parte  nel blog   ma  mi limitavo  a definirla  pratica  barbara fatta  da  fondamentalisti   ma  sentendo   tale documentario 


 

e leggendo   questi due dossier 
 e questo articolo di http://27esimaora.corriere.it/

non immaginavo che  sia  l'infibulazione  sia  la sunnah nota come “infibulazione dolce” o rituale” creasse dei simili "sconquassi " fisici e psicologici sulle donne .
Non bisogna   limitartisi  solo   ad  indignarsi  

come  si  fa  in questi commenti  presi  un video su  youtube  contro  l'infibulazione 

Che vergogna non ho parole povere bambine che mostruositá ! La vecchia donna mi fa schifo speriamo che il destino le faccia pagare caro il male che fa . Anche se la " cultura " propone una cosa del genere l'aumento potrebbe astenersi nel praticar la di fatto ..invece lo fa e sembra che le piaccia pur consapevole della ferocitá! Mah che dire ..speriamo che tutto questo finisca .





che vergogna...io rimango senza parole...

e  senza provare o  a capire   il perchè  lo si fa  e la  debolezza  ( vedere  le testimonianze  di ex  infibulartici   di quel video  documentario di http://uncutproject.org/ ) delle donne  in una società 
patriarcale   e  religiosa .
Lotta contro culturale     quindi non solo da  parte delle donne  ma anche  di  noi uomini ,  e   delle  autorità civili e religiose   per   debellare    tale piaga   e  i cosiddetti FALSI MITI

dall'articolo del corriere della sera citrato prima


[...] «Il taglio» sottintende l’ineguaglianza tra uomo e donna e l’ossessione per il controllo della sessualità femminile. E sono tanti i miti che girano intorno alla Mgf, come racconta nel dettaglio il progetto «Uncut» che, oltre al documentario che sarà proiettato domani, è anche un webdoc e una mostra fotografica. I Nyaturu della Tanzania, per esempio, pensano che la malattia lawalawa (un’infezione del tratto urinario) sia una maledizione degli antenati, estirpabile solo attraverso la mutilazione. Sempre in Tanzania, nel distretto di Tarime, alle ragazze non tagliate è proibito aprire i recinti delle vacche poiché porteranno sfortuna a chi vi entrerà dopo di loro. In certe comunità del Ghana si dice che il clitoride della partoriente renderà cieco il neonato, mentre nelle foreste della Costa d’Avorio si crede che il clitoride racchiuda in sé un grande potere, che va estirpato dal corpo femminile per essere donato agli spiriti. 

ma  sopratutto  più prevenzione ed  impegno  per  evitare  che   tale orrenda    pratica  diventi   clandestinità 

3.2.17

Concerto nazista per le foibe alla palazzina Liberty di Milano proprio un " bel modo " per ricordare la giornata delle foibe


Si avvicina il Giorno del Ricordo, la giornata dedicata alle vittime delle foibe, ed il Municipio 4 del Comune di Milano ha deciso di patrocinare un'iniziativa che già sta suscitando molta polemica . Infatti nella Palazzina Liberty il 13 febbraio sosterrà una manifestazione che, denuncia la sinistra milanese, avrà come protagonisti "personaggi dichiaratamente vicini all'ultradestra neofascista di Lealtà e Azione e a tesi revisioniste  "  e negazioniste .


Ecco perchè  come dico    tutti  gli anni nel  giorno del ricordo (cioè il 10' febbraio )  ricordo le  le  foibe e  l'esodo partendo  dalle  " pulizie  etniche "  prima di Tito (  Impero austro ungarico , fascismo , nazismo )  e dell'esodo . onde evitare  che materia  cosi delicata sia usata  da  tale feccia neonazista  e  negazionista  oltre  che  a senso unico .
Ora   sempre  secondo ---  milano repubblica  del  2\02\2017 --- La  maggioranza di centrodestra del Municipio, guidato dal leghista Paolo Bassi, ha concesso il logo istituzionale a una serata dedicata alla tragedia delle foibe, invitando sul palco anche il cantante Federico Goglio, in arte Skoll, "rappresentante di spicco del cosiddetto ‘rock identitario’ italiano, ovvero formazioni musicali di ultradestra vicino a Lealtà e Azione" denuncia il gruppo consiliare di Sinistra x Milano.La sinistra di maggioranza ricorda anche che Goglio "ha il poco nobile merito di essere finito sotto processo (e poi assolto) per apologia di fascismo; l’accusa era di aver fatto il saluto romano insieme ad altri camerati durante la ‘marcia’ per Sergio Ramelli del 2015. All’epoca dichiarò che anche in caso di condanna non si sarebbe mai pentito del gesto. Con il cantante di estrema destra il Municipio 4 ha invitato anche Tito Lucilio Sidari, sindaco del ‘libero Comune di Pola in esilio’, vicino a Casa Pound e a Lealtà e Azione, noto per le sue teorie revisioniste". Sidari, in realtà, fa sapere di essere solo il vice del sindaco ma soprattutto di essere estraneo a Casa Pound e Lealtà e Azione.
Attacca Sinistra x Milano: "Riteniamo che il legittimo ricordo delle vicende istriane e dalmate in quegli anni di atroce scontro tra popoli e regimi non possa essere strumentalizzato per dare spazio a persone che si riconoscono e fanno esplicito riferimento a teorie e pratiche neofasciste, ed è ancora più grave che questo avvenga nella Palazzina Liberty, dove Dario Fo e Franca Rame fondarono nel 1974 il collettivo teatrale La Comune, e a Milano, città medaglia d’Oro per la Resistenza". La richiesta, quindi, è esplicita, e arriva dalla capogruppo Anita Pirovano: "Il Municipio 4 tolga il sostegno all'iniziativa". Richiesta che il presidente Bassi respinge al mittente: "Sarà una serata in ricordo dell’esodo e del dramma degli infoibati, in cui ci sarà spazio per le memorie degli esuli istriano-dalmati e canzoni a tema legati a quel periodo”. Anche Roberto Cenati di Anpi attacca: "Chiediamo che il Municipio 4 revochi il patrocinio a questa iniziativa, visto che sono stati invitati personaggi legati all'organizzazione di estrema destra ‘Libertà e azione’ la cui ideologia si pone in netto contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza”.
Nell'ottobre scorso, quando è morto Dario Fo, è nata l''idea di intitolargli la Palazzina Liberty. Lo ricorda, ma per polemizzare, il consigliere regionale di Fratelli d'Italia Riccardo De Corato: "La Palazzina non è intestata a Dario Fo, né è di proprietà della sinistra, è un bene di tutti. Ormai gli esponenti della sinistra vedono 'fascisti' da tutte le parti, ne sono ossessionati, a sentir loro ce ne sono più oggi che nel Ventennio".  (  ....) . 
Quindi  anch'io  mi unisco  alla  richiesta  della   sinistra per  milano  ----- da   http://www.milanotoday.it/cronaca/foibe-palazzo-liberty.html da  cui è tratta  la foto sopra  ---- “Riteniamo che il legittimo ricordo delle vicende istriane e dalmate in quegli anni di atroce scontro tra popoli e regimi non possa - la tesi del partito arancione - comunque essere strumentalizzato per dare spazio e agibilità a persone che si riconoscono e fanno esplicito riferimento a teorie e pratiche neofasciste”. 

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non è mai tardi per chiudere i conti con il passato Vicenza, l'abbraccio tra la figlia del podestà e il partigiano che le uccise il padre


La figlia del podestà abbraccia il partigiano che uccise suo padre.
Schio, il 7 luglio del '45 l'eccidio in cui morirono 54 persone, 72 anni dopo vittime carnefici firmano la pace: "Il nostro gesto sia d'esempio ai giovani"


                          di STEFANO FERRIO


La pace è paziente, e per affermarsi può aspettare anche 72 anni. Ne è la prova l’atto di riconciliazione che firmeranno stamattina, davanti al vescovo di Vicenza Beniamino Pizziol, il partigiano e la figlia del podestà. A porre i loro autografi in calce a una dichiarazione di pace saranno l’operaio in pensione Valentino Bortoloso, nome di battaglia “Teppa”, classe ‘23, e Anna Vescovi, psicoterapeuta, vent’anni più giovane. Di comune accordo hanno voluto che sia la Chiesa, intesa come ente morale, a sancire la riconciliazione.
“Teppa”, 94 anni, era fra chi comandava i partigiani che, nella notte fra il 6 e il 7 luglio 1945, due mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale, fecero irruzione nel carcere di Schio, nell’Alto Vicentino, per compiere l’eccidio in cui morirono 54 persone, uomini e donne tra i 18 e i 74 anni: fascisti, ma anche detenuti comuni. Arrestato e processato, con altri 4, per questa strage in tempo di pace, fu condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo, ed estinta dopo dieci anni di detenzione. Anna è figlia di una delle vittime, Giulio Vescovi, allora 35enne podestà di Schio, dopo esser stato pluridecorato capitano della divisione corazzata Ariete. Hanno scritto, e firmeranno oggi, un messaggio di poche righe, in cui Teppa si presenta come uno degli esecutori materiali di un eccidio «che oggi possiamo considerare inutile e doloroso», mentre spetta ad Anna rivelare che «è il momento di pacificare le tragiche contraddizioni della stessa Storia di 70 anni orsono».
Alla vigilia di questo passo storico, eccoli insieme a casa di Valentino. Sul tavolo le lettere che hanno iniziato a scambiarsi la scorsa estate. Frutto di un percorso sofferto, sono le tappe di una pace fortemente voluta da entrambi, per porre fine alla guerra iniziata a Schio il giorno dopo il massacro e protrattasi per settant’anni di veleni, ingiurie, illazioni. Da una parte, chi difende le ragioni dei partigiani. Dall’altra, i parenti delle vittime dell’eccidio e i loro sostenitori.



A poco è servito, finora, il “Patto di Concordia” firmato in Comune nel 2005. Discordia regnava ancora l’estate scorsa, quando giunse notizia della Medaglia della Liberazione assegnata a Teppa dal ministero della Difesa per i meriti acquisiti durante la Resistenza. Un riconoscimento caldeggiato dall’Anpi, contestato dal sindaco di centrodestra di Schio, Valter Orsi, e infine revocato dal ministero. Con un nuovo, fatale innesco di reciproche accuse. «A quel punto — spiega Anna, che bambina fece in tempo a vedere papà ferito a morte — ho sentito risuonare in me le parole del Salmo: misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Allora ho detto basta, e ho scritto a Teppa». «Quando ho aperto la busta e ho letto quel “Caro Valentino” — ricorda Teppa — ho sentito sparire il macigno che avevo portato nel cuore per tanto tempo. E ho subito voluto risponderle».
Scrive Anna: «Lei ed io siamo gli ultimi testimoni di quel mare di dolore che si è riversato su di noi nel luglio ‘45, e che in altri tempi e luoghi continua a riversarsi. È mia convinzione che il Destino ci abbia legati, io e lei, ineluttabilmente, affinché cogliamo la possibilità di trasmettere un autentico messaggio di conciliazione ». Risponde Valentino: «La ringrazio, date le circostanze dolorose che gravano in modo diverso sulle nostre spalle, di avere avuto la forza e il coraggio di rivolgersi a chi, pizzicati entrambi negli ingranaggi mostruosi della guerra, Le ha tolto il padre».
Teppa aggiunge qualcosa a voce: «Vescovi, quella notte, fu l’unico a tentare una mediazione. Ma in quel momento della Storia noi e lui non potevamo comunicare. Erano successe troppe cose, è difficile immaginare quanta rabbia ci spinse in quel carcere...». «E non c’erano mandanti, c’eravamo solo noi», precisa, smentendo le voci di una vendetta pilotata in quel dopoguerra da resa dei conti. La rabbia riaffiora dal racconto della “sua” guerra: «Prima la ritirata di Russia, dov’ero andato carabiniere: 800 chilometri nella neve, inciampando sui corpi dei compagni. Poi il ritorno a casa per fare la guerra in montagna. Altro sangue, altri amici morti. Questo ero io, nel luglio ‘45». Nel 2017, è un vecchio comunista che confessa di avere smarrito la fede cristiana dell’infanzia, quando era il primogenito di 11 figli di una famiglia operaia. Ma s’illumina quando Anna gli assicura che «non so come, ma in questa storia c’è un Altrove che ci guida entrambi».
Mentre i due chiacchierano di ricette a base di verza, come amici di lunga data, risuonano le parole di Danilo Andriollo, presidente dell’Anpi Vicenza, su questa riconciliazione: «Anna e Valentino sono Speranza in carne e ossa grazie a cui, arrivando da un passato così crudele, indicano a tutti un futuro di pace».

 



2.2.17

Vasto divisa dopo la tragedia. Arcivescovo: "Con una magistratura più veloce si poteva evitare"

non giudico come ho già detto nel   finale    del post precedente ma condivido in pieno quello che riporto sotto dopo   questi  url che riassumono la  vicenda  


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 Dramma Vasto, Recalcati: Dramma Vasto, Recalcati: "Se l'uomo eleva la vendetta alla dignità della giustizia"

   repubblica   02 febbraio 2017


L'avvocato Cerella: "D'Elisa non si era mai neanche scusato. Tre mesi dopo aveva ottenuto il permesso di guidare la moto". Il procuratore della città: "Clima d'odio e un'incomprensibile campagna di Giustizia". Di Lello in carcere. Il capo d'imputazione sarà formalizzato domani dopo l'interrogatorio del pmdi KATIA RICCARDI

Da sinistra: Italo D'Elisa, Roberta Smargiassi e Fabio Di Lello







VASTO - ll giorno dopo una vendetta resta solo il vuoto. Tre famiglie distrutte, ognuna ha perso un figlio. Roberta Smargiassi morta a 34 anni, investita da Italo D'Elisa, il 22enne che non si era fermato al semaforo rosso, ucciso ieri da Fabio Di Lello, marito di lei, che l'ha freddato con tre colpi al cuore. Era distrutto da un dolore che niente è servito a lenire.
"Con un intervento rapido della giustizia e una punizione esemplare" la tragedia si sarebbe potuta evitare, dice l'arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte: "La magistratura deve fare il suo corso ma nel modo più rapido possibile. Una giustizia lenta è un'ingiustizia".
La città che si era stretta intorno a Di Lello oggi legge la cronaca nera dei giornali, domani seppellirà i suoi morti. Fa spallucce, innocente per non aver premuto il grilletto della semiautomatica che Di Lello ha abbandonato sulla tomba della moglie. Ma c'era stata una campagna di odio intorno a D'Elisa. Subdola, silenziosa, partita dalla rete e solidale solo nel voler spingere avanti chi, infine, ha sparato sperando di trovare sollievo. Nessuna giustizia, solo vendetta. "Non c'è vendetta che può essere ritenuta giustizia. La vendetta è un atto immorale", conclude l'arcivescovo.
Restano i commenti, tentativi innaturali di trovare giustificazioni. Ha fatto bene, ha fatto male. Chiacchiere da social network, domande, facili risposte che dividono l'opinione pubblica, i Montecchi e i Capuleti di Vasto e Roccavivara. Da lì viene la famiglia del ragazzo ucciso. "Italo D'Elisa, dopo l'incidente, non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito di Roberta. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi" dice a Radio Capital, l'avvocato Giovanni Cerella, già legale di parte civile per il procedimento che riguardava l'incidente e ora difensore di Fabio Di Lello.

Omicidio Vasto: legale Di Lello: "D'Elisa non ha mai chiesto scusa"



"D'Elisa - dice l'avvocato - tre mesi dopo l'incidente aveva ottenuto il permesso per poter tornare a guidare la moto, perché gli serviva per andare a lavorare". "Fabio era sotto shock, era depresso per la perdita della moglie, andava molto spesso al cimitero, pensava giustizia non fosse stata fatta ma incontrandolo non ho mai avuto l'impressione che stesse ipotizzando una vendetta. Sono rimasto sbalordito quando ho saputo. Lui non aveva dimestichezza con le armi".
L'ex difensore diventato attaccante, è in carcere. Il capo d'imputazione sarà formalizzato domani dopo l'interrogatorio del pm Gabriella De Lucia, alla presenza del suo legale. Di Lello al cimitero c'è andato anche ieri, subito dopo l'omicidio, per appoggiare la pistola sotto la lapide che visitava ogni giorno promettendo giustizia a un ricordo. Il rinvio a giudizio per D'Elisa, accusato di omicidio stradale, era stato firmato alla fine del 2016 e a breve ci sarebbe stata la prima udienza dinanzi al gup di Vasto. Ma a 22 anni, senza precedenti, senza omissione di soccorso, senza guida in stato di ebbrezza, e col dubbio che Roberta avesse il casco messo male, non sarebbe finito in prigione. Infine, sulla tesi difensiva di D'Elisa l'avvocato Cerella chiarisce: "Tutte sciocchezze. C'è una perizia che ha fatto piena luce sulle responsabilità".

Fabio Di Lello era stato calciatore di buon livello nei tornei dilettantistici abruzzesi fino ai primi anni del Duemila. Nella sua carriera ha indossato le maglie di diverse formazioni regionali, come quelle del Casoli, della Virtus Cupello, del S.Paolo Calcio Pro Vasto e del Vasto Marina. Aveva esordito ancora minorenne nel campionato nazionale di serie D con la Vastese
Nel dicembre scorso, il legale di D'Elisa, l'avvocato Pompeo Del Re, puntualizzava che il suo assistito non era "un pirata della strada" in quanto "subito dopo il sinistro, pur essendo anch'egli ferito e gravemente scosso, non ha omesso soccorso, ma ha immediatamente allertato le autorità competenti e chiesto l'intervento del personale medico-sanitario". Inoltre, affermava che gli esami "medici e ospedalieri avevano accertato "che il medesimo non guidava in stato di ebbrezza, né con coscienza alterata dall'uso di sostanze stupefacenti", concludendo "come la dinamica del sinistro evidenziasse una serie di fatalità non imputabili all'indagato".
Fatalità non è una parola appagante. È solo caso, non un semaforo rosso. E le frasi della difesa avevano offeso ancora. La famiglia di Roberta Smargiassi aveva replicato tramite Cerella: "Il capo di imputazione a carico dell'uomo è omicidio stradale aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale relative all'eccessiva velocità e al mancato rispetto del segnale con luci rosse dell'impianto semaforico". E ancora. "Le responsabilità dell'accaduto sono chiaramente ed unicamente riconducibili all'indagato".
L'avvocato Cerella già allora insisteva sul punto delle scuse: "Nessun componente della famiglia del 21enne, indagato compreso, ha espresso pentimento", le dichiarazioni fatte dalla famiglia del giovane erano inoltre ritenute dai congiunti di Roberta "offensive e dolorose". E la rete, Internet, Facebook, hanno propagato l'onda di rabbia, impotenza, dolore. Per il procuratore della Repubblica di Vasto Giampiero Di Florio è grave. Parla di clima di odio, ingestibile per una mente indebolita da una perdita del genere. "Claque di morbosi - dice Di Florio - che ha portato avanti un'incomprensibile campagna di Giustizia in assenza di un procedimento entrato nell'aula del Tribunale e quindi di una discussione indirizzata. Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, invece hanno alimentato il suo sentimento della vendetta ogni giorno".
Il luogo dove è stato ucciso Italo D'Elisa, di fronte al Drinkwater Café



1.2.17

Dramma Vasto, Recalcati: "Se l'uomo eleva la vendetta alla dignità della giustizia"







I carabinieri di Vasto, provincia di Chieti, hanno cercato Di Lello per alcune ore dopo aver trovato la pistola semiautomatica in una busta di plastica sulla tomba della moglie. Lui si è costituito nel tardo pomeriggio. È stato portato in caserma, guardato a vista, è in stato di fermo. Lo assistono gli avvocati Giovanni Cerella e Pierpaolo Andreoni.
 
Vasto, spara al giovane che investì la moglie: lascia pistola sulla tomba e si costituisce

Prima di consegnarsi Fabio Di Lello ha chiamato un amico dicendogli che aveva ucciso l'assassino di sua moglie e che stava andando al cimitero per salutare la sua Roberta. Lo faceva ogni giorno da quando era scomparsa, passava per un minuto, a volte per ore. Dicono che ogni tanto si fermasse perfino a mangiare davanti la tomba. Una volta lì, ha chiamato l'avvocato indicandogli dove si trovava. La Scientifica ha effettuato i rilievi, sul posto è arrivato anche il procuratore capo della Repubblica Giampiero Di Florio.
 
Vasto, spara al giovane che investì la moglie: lascia pistola sulla tomba e si costituisce
Il luogo del delitto.

"È una tragedia nella tragedia, questo è lo sconforto" dice il procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale, Giampiero Di Florio. Da poco è stata rimossa la salma del 21enne Italo D'Elisa, trasferita all'obitorio dell'ospedale San Pio da Pietrelcina
L'incidente in cui Roberta Smargiassi aveva perso la vita era accaduto i primi giorni dello scorso luglio. All'incrocio tra corso Mazzini e via Giulio Cesare, era stata investita in scooter da una Fiat Punto guidata da D'Elisa che non si era fermato al semaforo rosso. Dopo l'urto la Punto era finita contro una Renault Clio nella corsia opposta. Lo scooter invece su uno dei semafori all'incrocio e il corpo della donna era rotolato sull'asfalto. Roberta lavorava nel panificio del suocero, una delle panetterie più rinomate di Vasto. La sera dell'incidente, un venerdì sera, stava andando dai genitori in corso Mazzini. Era quasi a casa. "Mamma sto arrivando", l'ultima telefonata.
Per lei non c'era stato niente da fare, le ferite erano troppo profonde ed era morta pochi minuti dopo il ricovero in ospedale, aveva 34 anni. Solo pochi mesi prima si era sposata con il calciatore Fabio Di Lello, atleta del San Salvo e del Cupello. Sul suo profilo Fb le foto della loro storia, le mani intrecciate, le fedi nuove, il vestito bianco, i sorrisi.
L'episodio aveva destato l'attenzione dei cittadini che avevano chiesto giustizia. La magistratura di Vasto aveva aperto un fascicolo per omicidio stradale. Sarebbero dovute essere le telecamere della videosorveglianza a chiarire chi fosse il responsabile. L'indagine era stata chiusa a fine novembre. D'Elisa a breve avrebbe avuto la prima udienza dal gup. Dopo l'incidente era stato sottoposto a tutte le analisi e non era stato trovato né in stato alcolico né sotto effetto di sostanze. Ma da quel giorno, anche per il fatto che l'imputato della morte della moglie era a piede libero, gli 'scontri' sui social e tra le varie fazioni si erano fatti pesanti.
 
Vasto, spara al giovane che investì la moglie: lascia pistola sulla tomba e si costituisce

Attorno a papà Nicolino, mamma Silvana, ai fratelli Simone e Michele e al marito Fabio si era stretta l’intera città. Centinaia di persone avevano reso omaggio alla salma nella camera ardente allestita all’obitorio del San Pio e partecipato al corteo funebre verso la parrocchia dell’Incoronata dove sono stati celebrati i funerali. Una quindicina di giorni dopo l'incidente, una fiaccolata era partita proprio dall'incrocio dove Roberta era stata travolta. In prima fila il marito, il papà, gli altri familiari. Il corteo aveva percorso corso Mazzini per raggiungere l'incrocio con via Ciccarone con destinazione l'area davanti l'obitorio dell'ospedale 'San Pio da Pietrelcina' dove la ragazza era morta.
 
Vasto, spara al giovane che investì la moglie: lascia pistola sulla tomba e si costituisce

"C'è stata una campagna di odio da parte dei familiari di questa ragazza. Ora ne vediamo le conseguenze. Vedevamo manifesti dappertutto. Continui incitamenti anche su internet a fare giustizia, a fare giustizia. Alla fine c'è stato chi l'ha fatta. Si è fatto giustizia da sé. Tra l'altro dopo tempo, quindi una premeditazione". A parlare per la famiglia D'Elisa è l'avvocato Pompeo Del Re. "Il percorso della giustizia stava andando avanti. Italo D'Elisa sarebbe dovuto comparire nei prossimi giorni davanti al gup. C'era stata notificata - prosegue il legale - la fissazione di udienza preliminare, nel corso della quale si sarebbe dovuto decidere se disporre o meno il rinvio a giudizio". "Ma a quanto pare - conclude Del Re - Italo è stato seguito, sono stati seguiti i suoi spostamenti e alla fine è stato ucciso. Sono stati esplosi più colpi di proiettile. È chiaro l'intento e la premeditazione da quanto si era verificato l'incidente".
 
Vasto, spara al giovane che investì la moglie: lascia pistola sulla tomba e si costituisce

In rete si era innescato un clima d'odio nei confronti di D'Elisa. "Non mi parlate di Internet - dice il procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale, Giampiero Di Florio - perché sono assolutamente contrario a tutte queste forme di comunicazione. Vedo una gioventù malsana che non parla più e si affida a questi commenti spregiudicati. Sono forme di violenze anche quelle. Sono veramente stufo di queste comunicazioni in rete dove cova l'odio"
Fabio Di Lello è molto conosciuto a Vasto e nel mondo sportivo abruzzese per essere stato calciatore di buon livello nei tornei dilettantistici abruzzesi fino ai primi anni del Duemila. Nella sua carriera ha indossato le maglie di diverse formazioni regionali. Fra queste, quelle del Casoli, della Virtus Cupello, del S.Paolo Calcio Pro Vasto e del Vasto Marina. Partito come difensore per poi diventare attaccante, aveva esordito ancora minorenne nel campionato nazionale di serie D con la Vastese. Oggi ha deciso di farsi giustizia. Su Facebook, la foto del suo profilo è quella della moglie e la scritta 'Giustizia per Roberta', l'immagine di copertina quella del film Il gladiatore, la storia di Massimo Decimo Meridio che, tornato dalla guerra, scopre la sua famiglia massacrata per vendetta.
 << Il gesto violento "che riempie il vuoto creato dal lutto, dalla mancanza dell'amato". L'uomo "che eleva la vendetta alla dignità della giustizia cercandosi un'altra giustizia e si paragona sui social al Massimo Decimo Meridio del film 'Il Gladiatore".  >> sempre secondo    Lo psicoanalista Massimo Recalcat che  riflette sul delitto di Vasto, << la storia de giovane sposo che ha sparato all'investitore della moglie e poi si è consegnato ai carabinieri. E ricorda cosa spiegava Freud: "La vita diventa vita umana se è in grado di rinunciare alla violenza e l'esistenza della legge sancisce il non esercizio della violenza in cambio dell'appartenenza alla comunità degli uomini >>





  concordo   oltre   ciò che dice  Lo psicoanalista Massimo Recalcati nel  video  sopra   anche quanto  commenta 
Giuseppe Palmucci
Quante chiacchiere da quattro soldi. Se avesse ottenuto giustizia non avrebbe ucciso nessuno. Invece chiedetevi a quello livello d'inciviltà è arrivato lo Stato. Tutti siamo esasperati dalla mancanza di giustizia. Siccome questi problemi non toccato i tanti potenti d'Italia, a nessuno importa nulla. Se lo stato rinuncia alla pretesa punitiva pubblica, come detto altrove, è inevitabile che la giustizia privata prenda il suo posto. 
 Secondo alcuni

 posso solo immaginare il dolore di quest'uomo, 3 vite distrutte per un semaforo rosso non rispettato è assurdo da credere, lui ha sbagliato a vendicarsi cosi, questa non era la soluzione, anzi ha ammazzato un ragazzo di 20 anni che aveva ancora una vita intera davanti a se ...

Anche la vittima aveva una vita davanti e probabilmente voleva bambini e una famiglia con cui vivere

Quella non gliela porta indietro nessuno, purtroppo.  Questo atto, spinto sicuramente dalla disperazione, porta solo altra  sofferenza. La soddisfazione della vendetta dura molto poco, probabilmente è già passata. E chi dice che la moglie avrebbe voluto vedere suo marito marcire in carcere per 20 anni come omicida ed è "fiero di lui"... chi vorrebbe questo per la persona che ama??


Io   non me  la sento  nè  di  giudicare  nè di criticare   perchè



 ma  soprattutto   perchè non riesco  a mettermi nei suoi panni   cio+ a  fare  come dic e la canzone ci ta   prima  : << (....) non mi aspettavo un vostro errore \ uomini e donne di tribunale \se fossi stato al vostro posto...\ma al vostro posto non ci so stare\ se fossi stato al vostro posto...\ ma al vostro posto non ci sono stare.(...) >>

IL VARCO È QUI di © Daniela Tuscano Maschi smarriti. Di quello smarrimento cieco, tremebondo, ostinato e violento.


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Maschi smarriti.
Di quello smarrimento cieco, tremebondo, ostinato e violento.
Maschi che vedono il loro trono vacillare. Che fremono per non potervi più accedere.
Nel primo caso, a Nord, un introverso. Uno che ha alimentato la sua impotenza per anni. Offeso, schiaffeggiato dall'intraprendenza di donne irraggiungibili, non più disposte a farsi sottomettere. 
Si era così rifugiato nelle nostalgie neonaziste. I suoi post grondavano di frasi contro gli immigrati, l'Islam, il multiculturalismo. Ma pure di misoginia. Acuta, rabbiosa.
Quando ha deciso di passare all'azione, non ha però scelto donne bianche come lui. Per viltà, razzismo? Certo. Ma, anche, per un surplus d'odio. Il suo bersaglio erano le musulmane. Una donna islamica in preghiera gli era addirittura più insopportabile d'una femminista laica. 
Lo spaventava, non v'ha dubbio, una umanità semplice. Una fede "altra" e serena. La diversità, ecco.
Nel secondo caso, a Sud, un prolifico patriarca. Il quale ha sacrificato, sull'ara del suprematismo para-religioso, la sua ultima bambina, ancor piccola, inconsapevole, dai vivaci occhi neri. Prima dei droni l'ha uccisa lui, educandola nell'odio. Quell'odio che già aveva annientato, tempo prima, il fratello sedicenne. 
Il primo, per un caso fortuito, non è riuscito nel suo intento, malgrado abbia mietuto altre vittime innocenti. Il secondo ha fatto scontare alla figlia il suo delirio assassino.
Il razzista bianco e il jihadista mediorientale. Due apici, due volti d'uno stesso mondo disgregato. Rantoli d'una società basata sulla gerarchia e, conseguentemente, sul disprezzo delle donne. Il varco è qui...
E il peccato originale si ripresenta ogni volta, puntuale, in qualsiasi efferatezza, dietro tutte le ideologie di morte.
Ma preferiamo ignorarlo.

                                  © Daniela Tuscano

non sempre le fedi \ religioni diffondono l'odio gli ebrei canadesi consegnano agli islamici le chiavi della loro sinagoga dopo l'incendio della moschea



L'Huffington Post | Di Selene Gagliardi 1/2/2017




Venire discriminati per le proprie idee, la propria etnia e la propria religione è un qualcosa che lascia un segno profondissimo nella storia di una comunità e di ogni individuo, ma dà anche la forza di immedesimarsi nei dolori e nelle storie altrui. Lo hanno capito bene gli ebrei residenti a Victoria, un piccolo paesino del Texas, che hanno visto turbato l'equilibrio della zona dalla distruzione della locale moschea e hanno deciso di agire con un gesto di profonda solidarietà.
La struttura del Victoria Islamic Centre è stato spazzato via sabato 28 gennaio da un incendio doloso appiccato per motivi discriminatori, in base a quanto sospettato dagli inquirenti. L'episodio è stato un duro colpo per il piccolo paesino, tanto che la comunità ha sentito la necessità di reagire e far capire che la maggioranza degli abitanti non appoggia minimamente l'atto criminale.
In particolare, i credenti ebraici hanno voluto fare un gesto di grande fratellanza, abbattendo qualsiasi tipo di muro ideologico e religioso. Grazie a loro, infatti, i musulmani avranno un luogo di culto in cui pregare in attesa della ricostruzione della moschea: la locale sinagoga (o, meglio, il tempio Bnai Israel).

L'immagine può contenere: notte e spazio all'aperto
Come spiega il rabbino Robert Loeb, tra l'altro, "qui tutti conoscono tutti. Io, poi, sono amico di molti membri della moschea e noi stiamo soffrendo per quanto accaduto loro. Quando succedono certe cose, bisogna essere unti".
Del resto, a Victoria la comunità ebraica è minoritaria rispetto a quella islamica. Tuttavia, gli ebrei d'America godono di ampi spazi nella cittadina del Texas: "Siamo all'incirca 25 o 30 persone, mentre la comunità islamica conta più o meno 100 membri. Abbiamo molti fabbricati per un numero ridotti di ebrei" ha specificato il rabbino.
"I fratelli ebrei sono venuti a casa mia dopo l'incendio" racconta Shahid Hashmi, uno dei fondatori del Victoria Islamic Centre. "Mi hanno consegnato le chiavi della sinagoga" ricorda poi. Per la ricostruzione della moschea è stata anche lanciata una campagna di raccolta fondi online, che in pochissime ore ha portato alla donazione di quasi un milione di dollari.
Omar Rachid, l'uomo che ha lanciato la campagna sulla piattaforma GoFundMe, si è detto incredulo per tanta solidarietà: "I nostri cuori sono pieni gratitudine per il grandissimo supporto che stiamo ricevendo" specifica. "Amore, parole di incoraggiamento, mani che aiutano e contributi finanziari sono esempi del vero spirito americano" precisa poi Omar.
Tutto questo sta infatti accadendo in una nazione che ha ospitato veementi proteste contro il Muslim Ban voluto da Donald Trump e contro la stretta oltranzista della presidenza a stelle e strisce. Nel vicino Canada, poi, la comunità islamica è stata scossa dalla strage alla moschea di Qebec City. Un periodo davvero negativo nell'estremo Occidente per chi è di fede islamica, ma che a Victoria stanno cercando di rendere più lieve.

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31.1.17

La bufala di Libero sulle “museruole islamiche” Scrive in prima pagina di una nuova "trovata degli estremisti musulmani", ma è una storia completamente inventat

le fogne non finiscono mai di eruttare liquami e fare disinformazione la notizia che riporto sotto è l'ultimo di casi Va bene andare contro corrente ed esprimere un dubbio su una cosa perchè Persone che ancora si pongono domande e dubbi non accettando le verità precostituite sono quelli\e che rendono il pianeta più umano . Va bene anche dare una tua interpretazione su una cosa ma caspita farlo in modo corretto riportando come ha fatto blognews la versione ufficiale . Non unendola ai soliti luoghi comuni .


da http://www.blog-news.it/ che riprende il http://www.ilpost.it






Oggi il quotidiano Libero ha pubblicato [  lunedì  30 gennaio  2017  ] in prima pagina il richiamo a un articolo intitolato “L’evoluzione dell’Islam, dal burqa alla museruola”. L’articolo parla di un nuovo strumento che si starebbe diffondendo in alcuni paesi musulmani sunniti, e che servirebbe a impedire alle donne di parlare: una sorta di “museruola”, come la chiama il quotidiano. È una storia completamente inventata: quella fotografata non è una museruola, non è una nuova moda e non è usata in un paese sunnita, ma è un’antica tradizione tipica di una piccola popolazione che abita nel sud dell’Iran, un paese sciita, e ha tutt’altri origine e senso.



Il box in prima pagina rimanda a un articolo a pagina 4 scritto da Souad Sbai, ex parlamentare del Popolo della Libertà oggi iscritta alla Lega, dal titolo “L’Islam si evolve: dal burqa alla museruola”. Il sommario dice: “L’ultima trovata degli estremisti musulmani è un attrezzo in ottone per azzittire e umiliare le proprie donne, il tutto nel completo silenzio della stampa occidentale che preferisce continuare a straparlare di tolleranza”. Accanto ci sono altre fotografie con la descrizione:
Nelle immagini in alto due esempi su come togliere alle donne anche la voce e zittirle per sempre. Dopo il burqa, infatti, è arrivato il momento di mettere la museruola. Una “moda” che sta prendendo piede nei paesi dove dominano i fondamentalisti salafiti.
I salafiti sono una corrente dell’Islam sunnita particolarmente conservatrice e ortodossa. Sbai aveva già raccontato la stessa storia in un post su Facebook pochi giorni fa, in cui riprendeva una fotografia scattata da un’opinionista francese di solito molto critico con l’Islam.
Le fotografie usate da Libero, invece, sono state prese da un servizio del fotoreporter Eric Lafforgue in cui viene raccontata la tradizione del “boregheh”, una maschera utilizzata dai Bandari, una popolazione che vive nel sud dell’Iran. Le fotografie sono state scattate in alcuni villaggi rurali dell’isola di Qeshm, che si trova nello stretto di Hormuz. Il servizio è stato acquistato anche dal sito del Daily Mail, che a febbraio dell’anno scorso ha pubblicato il servizio riportando correttamente tutta la storia. I Bandari sono una piccola popolazione che parla un dialetto iraniano e ha tradizioni molto diverse dal resto del paese. Per esempio le donne utilizzano abiti molto colorati al posto del chador nero, e sul volto, al posto di un velo, indossano maschere di stoffa o di ottone, spesso molto decorate.
Le maschere non impediscono di parlare e sono utilizzate dagli abitanti dei villaggi sciiti, ma anche dai sunniti. In genere sono indossate solo dalle donne più anziane e, come tradizione, stanno oramai scomparendo. Versioni simili, con nomi diversi, sono utilizzate anche dall’altro lato del Golfo Persico, in Oman. In un altro servizio fotografico realizzato sui Bandari e pubblicato pochi giorni fa sul sito di BBC, il fotogiornalista Rodolfo Contreras, spiega che la tradizione dei “boregheh” è vecchia di secoli: «Nessuno ne conosce l’origine anche se alcuni sostengono che iniziò durante la dominazione portoghese, quando le donne cercavano di nascondersi agli schiavisti che andavano a caccia di donne di bell’aspetto». La maschera doveva servire a simulare la presenza dei baffi.

E  poi    dicono  non siamno  razzisti   .. bah 


30.1.17

Chiedi alla polvere Un popolo nomade in cammino al confine con l’Etiopia, una nuvola nel paesaggio arido, una foto per portare un po’ di loro con sé.ed altre storie



Rivedendo il catalogo  della mostra  genesi ( che è un estensione del  film  documentario il sale della terra /  ) di Sebastião Salgado vista a Genova l'anno scorso  mi è ritornato alla mente   questo articolo letto  durante  il mio cazzeggio nei meandri della rete e  che non il perchè l'avevo salvato   di ANDREA SEMPLICI giornalista e fotografo per il http://www.messaggerosantantonio.it  04 Gennaio 2017






Gente afar in cammino. Donne afar in cammino. Una piccola carovana femminile ai confini dell’Etiopia. In Dancalia, terra arida, difficile. Un clan familiare si muove, nei primi giorni del nostro nuovo anno, lungo la strada che va verso le montagne di Gibuti. Per loro, il calendario dei mesi non ha importanza: valgono le stagioni, le piogge, i pascoli. Non so perché stiano viaggiando: si spostano per cercare nuovi pascoli, acque per dissetare gli animali, seguono il ritmo delle scarse piogge. Gli uomini sono avanti con i greggi delle capre. I bambini più piccoli sono stati «imprigionati» sulla gobba dei dromedari, protetti da una gabbia di legni ricurvi. Altri bambini sono appesi ai seni delle giovani madri. Altri ancora vengono strattonati quando non riescono a tenere il passo.
Le capanne a cupola degli afar sono smontabili, i legni degli architravi sono sui fianchi degli animali. Camminano veloci, queste donne.
Strana sensazione: da molti anni vado in Dancalia, ho «amici» laggiù. So sempre dove trovarli. Gli esperti mi dicono del nomadismo circolare degli afar. Ma in questi anni non ho mai visto le persone che conosco spostarsi di mezzo metro. So dov’è la loro casa, il loro piccolo accampamento. Poi, all’improvviso, m’imbatto in questa carovana, nel suo vortice di polvere, nel suo andare. Sono un intruso, cammino con loro per poche centinaia di metri. Per fotografarli. Nessuna lingua ci unisce. So di essere un fastidio incomprensibile. Queste donne non mi guardano, non si voltano nemmeno un istante, la donna piega il volto verso terra e accelera il passo a capo basso. Vorrei dire: voglio venire con voi, almeno per queste ore che mancano al tramonto. L’incontro non è possibile, posso solo fermarmi, lasciarli andare via.
Scatto una foto, mi giustifico e dico che si scattano da sole. No, non è così, sono io che scatto, che mi intrometto, che voglio «qualcosa» da riportare a casa. Da mostrare, da pubblicare. Da tenere nelle mia mente. Mi fermo, guardo la carovana andarsene in un orizzonte grigio e senza colori. Mi prendo addosso tutta la loro polvere.

 concludo   con quest'altro  " viaggio  "

A passeggio sulle... acque, anzi sulla sabbia del fiume Po in secca


BORETTO. Domenica insolita quella trascorsa da un gruppo di amici nella Bassa reggiana. Grazie alla siccità che dura da due mesi, e che ha ridotto il fiume Po a una sorta di... torrente, i ragazzi hanno potuto camminare sulla sabbia, percorrendo centinaia di metri là dove, nel novembre scorso, c'era una piena importante (video di Ermes Lasagna).