15.10.24

DIARIO DI BORDO N 82 ANNO II Dalla parte dei disperati: don Mattia “salvato dai migranti”., Mi sono laureata in ospedale mentre assistevo mia figlia"., fratelli siamesi salvi dopo un anno in ospedale: la storia a lieto fine di Amari e Javar ., Da Afghanistan e Irak ai 3mila delle Dolomiti".,

Bologna, 13 ottobre 2024 – Squilla il telefono, è una videochiamata su Whatsapp. L’utenza è quella di uno delle centinaia di uomini e donne incontrati sui barconi in balia delle onde. Don Mattia Ferrari, 31 anni, originario di Formigine nel Modenese, sacerdote da cinque anni sulla nave Mediterranea Saving Humans come
cappellano, è un po’ titubante ma risponde. Sullo schermo appare Sami, un giovane migrante che lui non conosce. Lo hanno riportato in Libia dopo un respingimento. È stato torturato a lungo e poi abbandonato nel deserto. Inutile attivarsi, si affretta a dire il suo contatto, Sami sta morendo, e infatti la chiamata è spirituale. Don Mattia trova le parole giuste, lo benedice, ne sente il fiato debole, vede un abbozzo di sorriso. Morirà poco dopo. A quel punto del libro (Salvato dai migranti, edizioni Edb) ci si ferma necessariamente a pensare, atei o cattolici che siamo, a cosa possa voler dire ricevere sul telefono, in ogni momento, il dolore altrui.
Eppure nelle 276 pagine agili di questo libro – è un tascabile – ogni cosa è raccontata con l’energia di un trentunenne che nella vita fa ciò che gli piace, per cui si sente vocato, è il caso di dirlo. “Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare persone meravigliose”, scrive don Mattia. E queste persone sono disperati che ributtiamo in mare, che mettiamo ai margini delle nostre città, che lasciamo indietro. Ma sono anche centri sociali che accolgono chi non ha spazio, case occupate che diventano ancore di salvezza, vescovi e un papa (che scrive la prefazione del libro) al suo fianco contro i benpensanti e in certi casi la magistratura. Non è retorica la sua, lo si intuisce. Don Mattia è davvero cresciuto grazie a queste situazioni al limite, creando ponti in quei punti del percorso in cui nessuno si sarebbe sognato neppure di passare. Il suo libro, nella sua semplicità, è una finestra spalancata al sole. 

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"Mi sono laureata in ospedale mentre assistevo mia figlia"


©Avvenire


Sull’Appennino Tosco-Emiliano - fra boschi, sentieri e antiche strade romane - si snoda un percorso di trekking dal suggestivo nome di “Via degli Dei”. Ad affrontarlo, sono in tanti. Fra loro, in questi giorni, vi è anche un nutrito gruppo di “camminatori” che da Bologna a Firenze stanno condividendo un viaggio davvero speciale. Lo zaino che portano sulle spalle è la metafora di un peso ben più faticoso da sostenere: quello delle paure e delle difficoltà che gravano su un genitore che deve fronteggiare la malattia di un figlio. È anche l’immagine, però, del bagaglio di esperienza, passione ed energia della Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald, che quest’anno festeggia 25 anni di attività in Italia.
Nata negli Stati Uniti nel 1974, la Fondazione offre accoglienza e supporto alle famiglie che attraversano un percorso difficile e delicato com’è quello della cura di un bambino in un ospedale lontano da casa. In Italia, dal 1999, nelle Family Room (situate all’interno dei principali ospedali italiani) e nelle Case Ronald (posizionate nelle loro vicinanze), sono stati accolti più di 54mila bambini insieme ai loro genitori. E a tutti loro è stata data la possibilità di rimanere uniti e di sentirsi “a casa” anche quando casa è lontana, circondati dall’affetto e dalla disponibilità di operatori e volontari. Per affrontare insieme - proprio come sta accadendo lungo la “Via degli Dei”, in un cammino che unisce la Casa Ronald di Bologna a quella di Firenze - un percorso faticoso e impervio, ma mai solitario.
Un percorso dove la famiglia è sempre al centro e lungo il quale si condividono timori e speranze, lacrime e sorrisi, incombenze quotidiane ed eventi straordinari. Com’è successo a Giusy, la mamma di Aurora, che a Firenze, a Casa Ronald, ha finito per discutere anche la sua tesi di laurea…“Aurora stava male da tempo. Aveva spesso febbre e raffreddore e la notte faticava a dormire, perché non respirava bene. E poi c’erano le otiti, sempre più frequenti. La situazione era complicata e si era reso necessario un intervento, per togliere tonsille e adenoidi. Purtroppo, dove abitiamo (Giusy vive in Sicilia, n.d.r.), i tempi d’attesa erano lunghi. Non potevamo aspettare troppo, però, perché un timpano era già compromesso e non dovevamo correre il rischio che i polmoni o i bronchi entrassero in sofferenza”.
Giusy, allora, contatta un medico dell’ospedale Meyer di Firenze che, dopo aver visitato Aurora, fissa la data dell’intervento. “Non conoscevo Casa Ronald ma quando me ne hanno parlato in reparto, ho avuto subito una sensazione positiva. E per fortuna ho trovato accoglienza lì, perché le cose, nel frattempo, si erano complicate”. Poco prima di partire per la Toscana, infatti, Aurora ha un incidente con la bicicletta. “La ferita al piede si faceva ogni giorno più brutta e non riusciva quasi più a camminare. Sono arrivata a Casa Ronald tenendola in braccio. Dopo pochi minuti, però, mi avevano già trovato un passeggino… Poi, ci hanno mostrato la nostra camera. E ci siamo sentite “a casa”. Non avevamo la nostra famiglia accanto a noi - mio marito era rimasto in Sicilia, con Luigi, il nostro bimbo più piccolo - ma ci siamo subito rese conto che c’erano molte persone che ci avrebbero sostenute e confortate. La cosa che più mi ha colpito è stato l’affetto che ho letto negli occhi di operatori e volontari: ti accolgono con un sorriso, ti dedicano tempo e attenzione. E li senti subito amici, “famiglia”. Ero preoccupata per l’intervento di Aurora e mi mancava tantissimo Luigi.
Se mi fossi ritrovata sola, in una camera d’albergo, sarebbe stato tutto più difficile da affrontare, sia da un punto di vista pratico che, soprattutto, emotivo. La solitudine fa sempre male – prosegue Giusy - e lo fa ancor di più quando sei in un momento di fragilità. Casa Ronald, però, è un’oasi felice dove la solitudine non esiste. Se hai bisogno di conforto, c’è sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere, a cui confidare i tuoi timori, con cui condividere le tue speranze, con cui sorridere anche, per stemperare le tensioni. Ognuno racconta un po’ di sé e insieme si trova la forza per andare avanti. Nei giorni successivi all’operazione, Aurora è stata davvero male. Era debole, non riusciva a mangiare, faticava a bere e a parlare. Ero molto spaventata e stavo sempre accanto a lei. C’era chi si prendeva cura di me, però, mi sosteneva e mi dava piccoli ma preziosi consigli”.
Pian piano, Aurora riprende le forze, ma ancora non può lasciare Firenze, perché la lesione al piede, che si è rivelata peggiore del previsto, ha bisogno di cure.
“Lei era felicissima di rimanere a Casa Ronald, però. Aveva fatto delle amicizie e i volontari le proponevano ogni giorno qualche cosa di nuovo. I clown, le treccine colorate, la gita in città, la visita in una fattoria didattica…”. Per Giusy, intanto, c’è un appuntamento importante che si avvicina: la discussione della sua tesi di laurea magistrale. E la conferma della data arriva quando lei è ancora a Firenze. “Di nuovo, in mio aiuto, sono arrivati i volontari. Si sono occupati di Aurora mentre io discutevo online la mia tesi. E poi, mi hanno organizzato una bellissima festa, con tanto di torta e corona d’alloro. Mi sono stati tutti vicini in un modo che mai avrei potuto immaginare. Dopo un mese dal nostro arrivo, quando è stato il momento di partire, Aurora era davvero triste. E un po’ lo ero anch’io, lo confesso. Casa Ronald è stata fondamentale per dare coraggio a mia figlia e farle affrontare tutto nel modo migliore. Fra le sue pareti si è sentita serena, al sicuro. È un luogo felice, che resterà per sempre nel suo cuore”.
E anche nel cuore di Elisabetta Casa Ronald avrà per sempre un posto speciale, perché è nella Family Room dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna che Giovanni e Michele, i suoi due gemelli, nati lo scorso agosto, hanno “annunciato” il loro arrivo. “Durante la gravidanza, abbiamo scoperto che i bambini, per una sindrome molto rara, erano in pericolo di vita, perché in un sacco amniotico c’era troppo liquido e nell’altro troppo poco. Ci siamo rivolti al Sant’Orsola, dove ci hanno spiegato che per interrompere il malfunzionamento dei vasi della placenta sarebbe stato necessario un intervento molto delicato. Sono stata operata alla Clinica Mangiagalli di Milano e, per fortuna, tutto è andato bene. Salvo la rottura della membrana che separava i due sacchi amniotici. I bambini si sono così trovati a dover “condividere” un unico sacco. Questo ha messo a rischio il normale decorso della gravidanza e ha richiesto dei controlli ecografici sempre più frequenti. Dapprima una volta a settimana, poi una volta al giorno e a quel punto si è reso necessario il ricovero a Bologna.
Io mi sentivo bene, però, e l’idea di entrare in ospedale mi metteva un po’ in ansia. È stato allora che il primario del reparto di ginecologia mi ha parlato di Casa Ronald. La Family Room – prosegue Elisabetta - mi ha fatto subito sentire a mio agio, soprattutto perché Marco, mio marito, ha sempre potuto rimanere accanto a me. La mattina scendevamo in ospedale per le visite e gli esami. Poi, tornavamo “a casa”, dove potevamo prepararci il pranzo, rilassarci, chiacchierare con altri genitori. E quando Caterina, l’altra nostra bimba, veniva a trovarci con i nonni, stavamo con lei in uno spazio accogliente, dedicato al gioco. Intimità, familiarità, sostegno, solidarietà, amicizia: la bellezza di Casa Ronald, per me, è racchiusa in tutte queste parole. È un luogo dove si affrontano insieme i momenti belli e quelli brutti, dove ci si fa compagnia e ci si sostiene, dove si piange e si ride, dove c’è sofferenza e allegria. E dove non si è mai, mai soli”.
Per Elisabetta e Marco i giorni si susseguono nella routine dell’attesa. Fino a che una sera, un po’ in anticipo sui tempi previsti, Giovanni e Michele “decidono” che è arrivato il momento di nascere. “La casa era tranquilla e silenziosa. Eravamo in camera e ci stavamo preparando per andare a dormire. E all’improvviso, mi si sono rotte le acque. Siamo scesi al Pronto Soccorso con un po’ di agitazione, perché mancavano ancora una decina di giorni alla data in cui era stato programmato il cesareo. Ad accogliermi, però, c’era una ginecologa che conoscevo e che mi ha subito tranquillizzato. E la mattina dopo, Casa Ronald si è svegliata con una bella sorpresa… Elisa, la House Manager, è venuta a trovarmi in reparto, con dei regalini per i bimbi, e ha continuato a prendersi cura di noi. Nemmeno per un attimo ci siamo sentiti soli. È una cosa che mi ha colpito molto e che porterò sempre nei miei ricordi: mai avrei immaginato di poter sentire intorno a me così tanta vicinanza, tanto affetto, tanto amore. I bambini sono stati per un po’ nel reparto di neonatologia e per noi restare a Casa Ronald è stato importante, perché ci ha permesso di essere sempre vicini ai nostri figli senza che io fossi costretta ad affrontare ogni giorno un viaggio che, nelle mie condizioni, sarebbe stato faticoso. Ora siamo tornati a casa e Giovanni e Michele crescono e stanno bene. Torniamo in ospedale per i controlli di routine. E ogni volta, passiamo a fare un saluto in Family Room. Per noi sarà sempre un posto speciale, perché è lì che, simbolicamente, abbiamo appeso il primo fiocco per annunciare la nascita dei nostri bimbi”.


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Fratelli siamesi salvi dopo un anno in ospedale: la storia a lieto fine di Amari e Javar

                                              Amari e Javar© Internet (altro)

Dopo oltre un anno trascorso in ospedale, i fratelli siamesi Amari e Javar sono finalmente tornati a casa. La storia di questi due gemelli è iniziata con una scoperta choc: durante la dodicesima settimana di gravidanza, i genitori hanno scoperto che avrebbero avuto due figli siamesi. Fino a quel momento, la madre, Shaneka Ruffin, pensava di essere incinta di un solo bambino.
La decisione di non interrompere la gravidanza
Dopo la diagnosi, i medici avevano consigliato alla coppia di interrompere la gravidanza. Tuttavia, Shaneka e il marito Tim, insieme da sei anni e già genitori di due figli, hanno deciso di ascoltare un secondo parere medico. Hanno scelto di portare avanti la gravidanza e dare alla luce i due gemelli. Questa decisione coraggiosa li ha portati a Philadelphia, dove sono stati seguiti da uno degli ospedali pediatrico più specializzati degli Stati Uniti, uno dei pochi centri che eseguono interventi di separazione dei gemelli siamesi.
Il ritorno a casa dopo un lungo calvario
Dopo un lungo percorso fatto di cure, interventi e tanta speranza, i fratelli siamesi sono tornati finalmente nella loro casa, accolti con grande emozione dai loro genitori. «Non ci possiamo credere», ha dichiarato Shaneka, la madre, raccontando a People quanto sia stato emozionante vedere finalmente i suoi figli a casa. Anche il padre, Tim, ha espresso il suo sollievo: «Il viaggio è stato lungo, ma ora mi sento sollevato», ha dichiarato.

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"Da Afghanistan e Irak ai 3mila delle Dolomiti"

Quella di Luca Fois, sottufficiale delle Forze speciali, è una storia che inizia con un inganno. Vuole fare il militare, ma non ha le carte in regola e così, durante le visite mediche, decide di mentire: «Ero l'anti soldato per eccellenza, non sapevo fare niente, pesavo 68 chili e mi mancavano cinque diottrie. Per entrare nell'Esercito ho dovuto mentire, ma solo perché ci tenevo davvero a indossare la divisa. E così ho piegato le ginocchia e, subito dopo la missione in Libano, ho fatto il laser. Ero un nerd, assolutamente non idoneo, però ci tenevo».

Inizia così un percorso che lo porta prima al 186esimo Reggimento Folgore («avevo amici paracadutisti che mi raccontavano storie incredibili e che erano stati in giro per il mondo»), poi con il 185esimo Rao e, infine, con il Nono Col Moschin che diventa la sua seconda famiglia. «Il training da operatore era propedeutico a quello che avresti potuto affrontare: quando ho sostenuto il corso si usava ancora sangue vero, si somministravano piccole inoculazioni di stress fino a far diventare i soldati resistenti al trauma».Il Nono gli dà tutto e Fois prende tutto: «Ho imparato a studiare nelle forze speciali e parlo sia della tecnica di studio sia dell'organizzazione. Si generava un meccanismo per cui chi era più bravo in una materia, diventava il supporto per gli altri. Si riproponeva lo stesso modus operandi anche all'interno dei distaccamenti: chi era responsabile di una branca, diventava esperto e a prescindere dal grado aiutava gli altri. Le forze speciali premiano le capacità del singolo rispetto al grado».Ci sono le missioni all'estero, in Afghanistan, contro i talebani e in Iraq. E altre, la gran parte, delle quali non può parlare. Nemmeno insistendo c'è nulla da fare. La risposta è sempre la stessa: «Legge 198/2015, segreto di Stato». Perché la vita degli incursori è soprattutto nascosta, non solo quando sono in teatro, ma anche in Patria. E, quando si ha famiglia, non sempre è facile conciliarla col lavoro. Fois diventa papà e, complici le lesioni provocate durante il servizio, lascia il Nono e va a vivere ad Agrate Brianza. Non è più un soldato. Ora è un semplice civile. Reinventarsi non è facile. Proprio per questo motivo, qualche anno prima, Luca aveva fondato con alcuni commilitoni un'associazione - Non dolet - per aiutare i veterani. La «transizione», come viene chiamata in gergo, lo porta al suo grande amore (oltre alla moglie): la montagna. «Ho chiamato un mio collega dicendogli che volevo fare un record, scalare tutti i 4mila delle Alpi, ma era già stato fatto. Non c'è un record delle Dolomiti sopra i 3mila, mi dice un altro amico. Che prosegue: Le cime sarebbero 120, anche se sono state ridotte a 86». Nasce così l'idea di realizzare un record che fosse però anche al servizio della comunità: «Quelli delle Dolomiti non sono percorsi difficili per ragioni di quota, ma perché si stanno ritirando i ghiacciai. Molte vie sono pericolose perché la roccia è marcia e quindi ho pensato, visto che non ci sono dati aggiornati, di raccoglierli io». E così Fois, oltre ai primi sponsor, ottiene anche l'appoggio dell'Associazione nazionale Alpini e insieme a due amici e veterani, Michael Turconi ed Emanuele Chessa, scalerà le 86 cime. «Ora mi sto allenando e l'obiettivo è realizzare il record nel 2025. Raccoglieremo dati, tracciature gp e faremo fotografie. Poi se il Guiness riconoscerà quello che faremo sarà un onore per me, in caso contrario produrrò comunque un buon report aggiornato. E utile per la comunità»

manuale di autodifesa di antonio bianco\ settimanale giallo IV puntata nel supermercato , in ufficio , a casa fatevi rispettare

mi sucuso . ma non sono riuscito a trovare il pdf e il cartaceo su cui ho scattato la fotro sotto riportata era pessimo

14.10.24

MUSICA FRA LE STELLE L’astronauta Sarah Gillis è diventata la prima persona a suonare il violino nello spazio

 
La musica di Star Wars nell'orbita terrestre a bordo della navetta Crew Dragon protagonista della missione Polaris Dawn. A suonarla al violino è Sarah Gillis, protagonista con Jared Isaacman della prima passeggiata spaziale di privati.


Il silenzio dello spazio è rotto da una nota musicale, un suono inaspettato in un ambiente così ostile.

Tra le stelle e le infinite distese del cosmo, un gesto artistico inedito si compie per la prima volta : il suono di un violino risuona oltre l’atmosfera terrestre. 
A rendere questo evento ancora più straordinario è il fatto che l’artefice di questa magia musicale sia un’astronauta, una scienziata che ha saputo fondere la passione per la musica con la sua ambizione di esplorare lo spazio.
L’immagine di un violino che fluttua in assenza di gravità sembra quasi uscita da un racconto di fantascienza, ma la realtà è spesso più affascinante della finzione. In un’epoca in cui l’uomo si spinge sempre più lontano dal nostro pianeta, la fusione tra scienza e arte diventa simbolo di ciò che l’umanità può realizzare. 

 
Suonare uno strumento nello spazio rappresenta non solo una sfida tecnica, ma anche un atto di pura creatività.Dietro questo incredibile evento, però, non c’è solo la voglia di sorprendere. L’astronauta che ha compiuto questo gesto ha una storia personale che riflette dedizione e passione. Fin da giovane, ha coltivato la musica, imparando a suonare il violino con disciplina e rigore. Questi valori l’hanno accompagnata anche nelle sue sfide professionali, preparandola per imprese che pochi possono anche solo immaginare.Il violino, strumento che tradizionalmente risuona nelle sale da concerto, ha trovato in questo caso un palcoscenico molto più
vasto: lo spazio. E con esso, un messaggio di
 speranza e di resilienza ha viaggiato tra le stelle, toccando non solo chi ha avuto il privilegio di assistere all’evento, ma ispirando anche migliaia di giovani sulla Terra.
"Mentre viaggiamo intorno al nostro bellissimo pianeta in questa missione di cinque giorni, vogliamo condividere questo momento speciale", ha detto Gills, violinista di professione, presentando sulla piattaforma X il video nel quale suona, intitolato 'Harmony of Resilience'. In un concerto fra Terra e spazio, alla violinista si sono uniti gli strumenti di orchestre di Stati Uniti, Venezuela, Haiti, Svezia, Uganda e Brasile. "Riunendo talenti di tutto il mondo, questa performance simboleggia l'unità e la speranza, evidenziando la resilienza e il potenziale dei bambini di tutto il mondo", dice Gillis. La canzone è 'la colonna sonora del film 'Star Wars: Il risveglio della Forza', scritta da John Williams. "Ispirato dal linguaggio universale della musica e dalla lotta senza quartiere contro i tumori e le malattie infantili, questo momento è stato creato con la speranza di ispirare la prossima generazione a guardare verso le stelle", scrive il Programma Polaris sul suo sito web. Il video è nato in collaborazione con il St. Jude Children's Research Hospital, per il quale il Programma Polaris sta raccogliendo fondi durante la missione, e con El Sistema Usa, il programma che intende a promuovere l'educazione musicale "per un impatto positivo sulla società".

13.10.24

«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere corriere della calabria 11\10\2024 di emiliano morrone

 Buongiorno per tutto il giorno. Oggi su LA LENTE parliamo di giovani rientrati in Calabria dal Centro-Nord, di restanza, di promozione del patrimonio di natura e cultura della regione. Lo facciamo raccontando una bella iniziativa promossa a San Giovanni in Fiore dal gruppo "I spontanei". E chiediamo alla politica di ascoltare le istanze dei ragazzi che lavorano per mostrare una Calabria diversa. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria.
Grazie per l'attenzione e cordiali saluti.
Emiliano Morrone 



«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere

Una serata organizzata da “I spontanei” a San Giovanni in Fiore ricca di spunti di riflessioni e belle storie di Calabria

 Pubblicato il: 11/10/2024 – 6:38

         di Emiliano Morrone
«Mamma Calabria» è il titolo di un libro di Alessandro Frontera e Danilo Verta appena discusso in profondità nella biblioteca comunale di San Giovanni in Fiore, soprattutto grazie alle domande stimolanti della giornalista Maria Teresa Cortese. Già residente a Milano, Alessandro, l’autore del testo, è una guida ambientale escursionistica, un influencer rientrato in Calabria per promuovere natura, cultura e tradizioni della regione: dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino alla Sila, dalle Serre vibonesi all’Aspromonte.

L’appuntamento è stato promosso dall’associazione “I spontanei”che da qualche anno propone incontri e dibattiti sull’esigenza di ridurre l’emigrazione giovanile, di creare impresa, lavoro e progresso partendo dai punti di forza e debolezza dell’area silana: suggestiva ma in parte isolata e sconnessa, bucolica ma ancora periferica, ispiratrice di slanci creativi ma in un contesto socioculturale alquanto condizionato da invidia, rassegnazione, attendismo, doppiezze, mancanza di coraggio.
La Sila ha una storia di peso – dalle utopie di Gioacchino da Fiore alla Riforma agraria del ’47, dalla vecchia emigrazione operaia a quella intellettuale del presente –, oggi più che mai minata dal capitalismo dell’era digitale, che cancella le identità locali, uniforma storie, usanze e posizioni, struttura e impone il mercato assoluto delle merci.
«Mamma Calabria» è anche il motivo comune degli interventi di quattro giovani che, durante la presentazione del volume di Frontera, hanno raccontato le loro storie di restanza oppure di rientro dal Centro-Nord nel periodo drammatico della pandemia. La mamma è per statuto naturale riferimento e rifugio, richiamo e modello; è la figura che, anche nella dimensione simbolica, alimenta, cura, compatisce; è il genitore che induce all’esperienza fuori dallo spazio domestico e intuisce i problemi, i bisogni della prole.


Così, la metafora «mamma Calabria» è valsa a inquadrare, a chiarire il legame di ciascuno degli intervenuti con i luoghi delle origini: forte, continuo, vitale; capace di riaccendere la luce della speranza in un clima oltremodo tormentato, di riaprire il campo delle possibilità, di sostituire le illusioni con le motivazioni personali. Si tratta di quattro ragazzi che provengono da esperienze diverse ma affini: Anna Stefanizzi ha inventato il Cammino dei monaci florensi; come “Esperiandanti”, Luigi Candalise mostra su prenotazione i posti della Sila, in bici, a piedi, a cavallo; Ivan Ariella organizza festival d’arte e richiamo; Maria Costanza Barberio porta, con il collettivo “Fiori florensi”, la ludopedagogia nelle piazze e nelle istituzioni, fra bambini e rispettive famiglie. Questi giovani hanno più di 30 anni e meno di 40, indole ambientalista, una dote d’idealismo proveniente dal loro vissuto nel mondo analogico, una robusta volontà di ritagliarsi spazi autonomi in Calabria, intanto professionali e sociali.
Sono giovani che parlano un linguaggio poetico fuori del tempo; che leggono romanzi intramontabili, diari di viaggio e saggi sulla conservazione della memoria; che con video, post e immagini evocative sanno comunicare le loro attività e trasmettere emozioni, divulgare buone pratiche ed esempi positivi. E sono giovani che, come accade altrove nel pianeta, rivendicano le ragioni della propria terra, cercano di collegare la tipicità locale con l’universalità umana, chiedono ascolto alla politica e impegno per la sostenibilità, l’eguaglianza, i diritti irrinunciabili. «Facciamo politica con il gioco, abituando i bimbi alla libertà di espressione e di giudizio», ha detto Maria Costanza. «La Calabria ha tre Parchi nazionali e uno regionale, noi dobbiamo credere nelle nostre radici, nelle nostre potenzialità», ha osservato Luigi, che ha aggiunto: «Da fuori iniziano a guardarci con altri occhi». Ciò perché diversi giovani calabresi hanno espresso talento e capacità; perché da un pezzo la narrazione dominante, ferma al tragico, a lamenti e semplificazioni di comodo, è contrastata da racconti di vicende edificanti, che iniziano a piacere, a diffondersi, a generare interesse, apprezzamento, consenso. «Per restare in questa terra, ognuno deve fare un cammino dentro di sé», ha osservato Luigi, che ha sottolineato: «Il 30 per cento della biodiversità europea è nelle nostre montagne. Se devo fare dei sacrifici, preferisco farli a casa mia». «Siamo quello che camminiamo», ha chiosato Anna. Stefano “Intour” Straface – che a Torino insegnava nella scuola pubblica e ha scelto di rientrare per promuovere via social eventi e prodotti calabresi – ha infine posto l’accento sulla «necessità che gli imprenditori siano formati per capire quanto valga l’impatto nel web, quanto esso sia utile a lavorare in tutti i mesi dell’anno e non soltanto d’estate o nelle vacanze di Natale». È un altro tema che merita ampia riflessione nelle sedi della politica, in parte assente rispetto alle istanze di giovani che lavorano con la cultura, l’arte e gli strumenti tecnologici.

Nelle parole di questi ragazzi c’è molto da cogliere e raccogliere, ma il punto è che la politica, non tutta, non ne comprende la complessità, la finalità, l’utilità. Però, ha obiettato il fotografo e regista Emilio Arnone, instancabile sperimentatore di linguaggi artistici d’avanguardia, «bisogna smetterla con impostazioni sfacciatamente celebrative, serve equilibrio e uno sguardo d’insieme». È sempre l’autenticità, secondo l’intellettuale, che fa la differenza. Insomma, ovunque ci sono storie illuminanti, quindi bisogna stare attenti a non cedere, come capita sui social, a lusinghe facili, «all’apologetica d’ufficio» di certa pubblicistica.
Diventa difficile costruire reti di collaborazione, se non ci sono basi e contenuti comuni, hanno concluso Alessandro, Anna, Luigi, Ivan e Maria Costanza. E spetta alla politica, che dovrebbe affinare lo sguardo e ampliare gli orizzonti, favorire il compito e la collaborazione dei ragazzi che raccontano l’altra Calabria, quella della bellezza, delle tradizioni, del grande patrimonio culturale e ambientale. (redazione@corrierecal.it)

gl stranieri amano più di noi la storia italiana . La civiltà nuragica rilanciata da francesi e tedeschi

 Purtroppo  questa  è la  proiva  che  noi  italiani   ( salvo rari  casi    come le  iniziative  del Fai  )   oltre  a  non saper fare  i conti con la nostra  storia   recente  , cioè  dal  risorgimento  ad  oggi  ,  non amiamo   la  nostra storia  o  non  la  sappiamo   valorizzarla   se  non  per   farci  belli   e  vantarcene  al diu fuori dei  nostri  confini   . 
  Infatti leggo   tramite   https://www.msn.com/it-it/ su ansa.it     d'ieri 

                   La cinviltà nuragica rilanciata da francesi e tedeschi   Storia di YE6-CT  1giorno/i





(ANSA) - CAGLIARI, 12 OTT - Mille anni di storia misteriosi. Almeno per i libri che in Italia hanno formato decine di generazioni di studenti: per molto tempo zero o poche tracce di civiltà nuragica nelle lezioni in classe dei maestri e dei professori. Sui testi pure, al massimo un piccolo paragrafo. Nuraghi e pozzi sacri però piacciono e incuriosiscono sempre di più: a Parigi, davanti a una platea di 200 tra esperti, rappresentanti delle istituzioni e media, sarà presentato lunedì un documentario che invita a rileggere la Sardegna e il Mediterraneo durante l'età del bronzo e del ferro , tra il 1800 e l'800 a.C., sulla base delle nuove tecnologie, dei nuovi scavi e delle nuove impostazioni delle ricerche.


Il lavoro "Sardegna, il mistero della civiltà dei Nuraghi", realizzato dal gruppo audiovisivo Gedeon sarà trasmesso poi sabato 19 alle 20.50 sul canale televisivo franco-tedesca Arte, molto seguito dagli appassionati di cultura in entrambi i Paesi. Per la Sardegna i classici due piccioni con una fava: dall'Europa potrebbero ripartire dibattito e interrogativi sulla scomparsa "culturale" di una civiltà millenaria come quella dei nuraghi . E poi c'è l'inevitabile indotto turistico: sarà uno spot archeologico che può creare nuovi fan dell'Isola.



"Lo scopo è quello di far conoscere una civiltà millenaria che stranamente è poco conosciuta, mentre è quello che chiamiamo in archeologia un unicum: ha una storia veramente unica - spiega all'ANSA Isabelle Catteddu, famiglia sarda originaria di Cuglieri, nell'Oristanese, consulente scientifica, archeologa che vive e lavora in Francia, all'Inrap - Oggi, con i nuovi mezzi scientifici, possiamo capire meglio l'evoluzione di questa civiltà. È molto importante fornire questi ultimi risultati perché il discorso, a proposito della Sardegna nuragica, è anche occupato da quella che chiamiamo fantarcheologia. Leggende e favole ce ne sono sempre a proposito delle civiltà del passato, però ci sono tanti nuovi risultati scientifici da condividere con tutta la comunità in Italia e fuori".





"Questo documentario - sottolinea l'esperta - permetterà una nuova lettura didattica grazie al lavoro e alle testimonianze dei miei colleghi archeologi che scavano e studiano i siti nuragici. In Sardegna i nuraghi fanno parte del paesaggio. Ma poca gente può spiegare cosa è successo. E quello che mi dispiace di più è vedere che questa civiltà è poco studiata a scuola". Nuovi approcci: "Secondo me un lavoro eccezionale è stato fatto da Mauro Perra, nel Nuraghe Arrubiu, a Orroli.Perché lui lavora in un modo interdisciplinare. Significa che va a cercare 'dietro il nuraghe' e studia anche il territorio. Lavora
con specialisti delle scienze paleoambientali e dunque prova a far parlare anche i campioni di terra, pollini, grani, carboni e riesce a ricostruire e a capire come cambia l'ambiente intorno al nuraghe. Poi con le datazioni possiamo vedere le trasformazioni, le crisi ambientali ed economiche. È un lavoro che incrocia diverse scienze e in questo modo si può far parlare anche i reperti quasi 'invisibili'".
Dunque - chiarisce Catteddu - è un modo che chiaramente ci aiuterà a capire questa civiltà. Perché scavare tutti i nuraghi è impossibile, sono quasi 8.000 ancora in piedi, a cui vanno aggiunti centinaia di altri monumenti, anche se non sono tutti conservati benissimo - ammette - Con i droni e gli scanner possiamo 'attraversare' i muri e capire meglio la costruzione: è importante capire come è stato fatto un nuraghe. Ma la domanda sarebbe anche: perché sono stati costruiti tutti questi nuraghi? Nuove domande, ma anche tanti misteri, per questo nel documentario parliamo di mistero della civiltà nuragica. C'è un potenziale immenso, anche se i risultati sono già numerosi. Oggi i mezzi scientifici possono aiutarci ad andare ancora più veloci e più avanti. Ogni scavo ci porta nuovi dati entusiasmanti come dimostra il lavoro molto preciso di Alessandro Usai a Mont'e Prama".
A ottobre in Francia è uscito un dossier speciale sulla civiltà nuragica nella rivista Archeologia, aperta al grande pubblico. "Ora - conclude l'archeologa - facciamo conoscere una rilettura di questa civiltà alla luce dei nuovi risultati e delle nuove tecnologie". (ANSA).




diario di Bordo n 81 anno II "Vergognatevi", il fratello di Totò Schillaci contro la Rai., Da poliziotta a suora: «Così continuo ad aiutare le vittime della violenza»., la seconmda vita di armanda gallius scampata ad uno stalker., trisnonna a 85 anni

Italia-Belgio di Nations League è stato un momento anche per ricordare l'ormai scomparso da qualche settimana Totò Schillaci, simbolo di quelle notti magiche di Italia '90. La Rai però al momento del suo ricordo in campo ha mandato in onda la pubblicità.
L’attore e doppiatore Luca Ward ha letto un messaggio in sua memoria e invitato il pubblico a inscenare una coreografia di luci con i telefonini per dare maggiore
suggestione a quegli attimi: “Totò Schillaci rimarrà nel cuore di tutti noi, ha fatto sognare l’Italia intera con le sue esultanze travolgenti. È il simbolo di una nazione che non si arrende”.In quel momento però le immagini, mandate in diretta dalla Rai, si sono poi interrotte per uno spot pubblicitario che non ha permesso di vedere nulla ai tifosi da casa. Una scelta che ha mandato su tutte le furie la famiglia Schillaci. A scrivere un messaggio di disappunto è stato Giuseppe Schillaci, fratello del calciatore ex Inter, Juve e Messina: "Vergogna, la Rai interrompe il ricordo di Totò Schillaci per la pubblicità. Vergognatevi".

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L’hanno cercata ben 8 emittenti televisive: Il boccone del resto era ghiotto: la suora-poliziotta, la religiosa che trent’anni fa arrestava i malfattori, oggi lavora perché nella Chiesa nessuno più abusi dei minori. Suor Tosca Ferrante, originaria di Visciano (5mila abitanti in provincia di Napoli) si è negata: a lei quell’etichetta sta stretta, anche se non rinnega nulla di quando, prima della professione religiosa, a 19 anni decise di entrare in polizia. Una confidenza ad Avvenire però la concede: quello che l’aveva convinta era stata la serie televisiva degli anni Ottanta “CHiPs”, due poliziotti in moto che facevano del bene al prossimo.

Suor Tosca nel 2024 ha compiuto 55 anni, ha festeggiato i 25 di professione religiosa ed è stata eletta superiora generale delle suore Apostoline di Castel Gandolfo, l’ultima creatura del beato don Giacomo Alberione. Laureata in psicologia dopo la professione religiosa, oggi coordina il Servizio di tutela minori delle diocesi toscane e di quello diocesano di Pisa; spesso è in trasferta per tenere corsi di formazione per gli operatori pastorali, ed è stato proprio in occasione di un seminario a Pistoia, qualche giorno fa, che la sua storia di suora-poliziotta è stata “intercettata”.


Suor Tosca, la divisa è stata una piccola parte della sua vita. Che ricordo ha di quella esperienza? Quando pensa a sé stessa, giovane, con la pistola nella fondina, che sensazioni prova?

Quando si pensa a una persona in divisa, con pistola e manette, la si associa spesso a un potere. Invece io ho vissuto l’esperienza in Polizia come servizio alla collettività.

Come hanno vissuto i suoi genitori la sua scelta giovanile?

Mio padre faceva il muratore, mia madre la casalinga, entrambi molto credenti, iscritti all’Azione Cattolica. Mio padre è stato molto tempo all’estero, in Venezuela e in Germania e ha trasmesso a me e a m io fratello, che lavora nell’Esercito, il valore della giustizia e dell’aiuto al prossimo. La Polizia è stato il mio primo spazio in cui incarnare quei valori. Quindi sì, dopo il disorientamento iniziale, sono stati favorevoli alla mia scelta.

Quali sono stati i suoi primi incarichi?

All’inizio sono stata a Roma, al Commissariato di Tor Pignattara. Dopo due anni e mezzo sono stata trasferita a Napoli, all’Ufficio stranieri. La sera andavamo negli alberghi a recuperare le prostitute per dar loro il foglio di via. Ho incontrato tante persone sofferenti: delinquenti, tossicodipendenti, giovani donne vittime della tratta, stranieri in attesa di permesso di soggiorno spesso vittime di raggiri: insomma tanta povertà, tanto vuoto e anche tanto male. E questo mi ha permesso di comprendere qual era la mia vocazione: ho sentito che Dio mi chiamava a donare tutta la mia vita.

E ha scelto la vita religiosa. Come è accaduto?

È stato un percorso, iniziato a 15 anni quando andai a Castel Gandolfo, dalle Suore Apostoline, per un’esperienza estiva. Ho sempre continuato a frequentarle, anche durante i miei cinque anni di lavoro in Polizia. Un giorno mi venne chiesto di vigilare su un minorenne che aveva compiuto un furto, il primo della sua vita. Dopo un po’ che parlavamo, lui iniziò a piangere, era spaventato. Poi mi disse: “Ho paura, mi dai un abbraccio?”. Non potevo, ero in divisa. Tornata a casa, mi guardai allo specchio e dissi: “Ma chi stai diventando?”.

Il carisma delle suore Apostoline, di cui lei è la superiora generale, è vocazionale, cioè stare accanto ai giovani affinché ciascuno trovi la sua strada e a chi ha già fatto una scelta di vita e vive un tempo di difficoltà vocazionale. Lei ha raccontato che da bambina voleva diventare maestra o infermiera, poi è diventata poliziotta e ora è psicologa e suora. È un po’ un cerchio che si chiude?

Mi pare che ciò che accomuna queste esperienze è la dimensione della cura della persona, attraverso l’ascolto, per garantire a tutti di stare al mondo con dignità.

Nel 2020 la Conferenza episcopale italiana ha istituito i Servizi diocesani e regionali per la tutela dei minori. Lei coordina quelli di Pisa e della Toscana. Questa rete anti-abusi funziona?

Sì, funziona. La chiave del servizio è la ricerca delle verità e trovare strade perché ciò che è accaduto non accada mai più. Una strada è la formazione: molto del nostro lavoro è richiamare alla responsabilità dell’essere adulti a coloro che operano in contesti parrocchiali. La fatica per i giovani è trovare punti di riferimento a cui guardare, adulti affidabili, maturi, che siano in grado di accompagnarli nella loro ricerca di senso.

Nelle diocesi, accanto ai Servizi di tutela, ci sono anche i Centri di ascolto, a cui arrivano segnalazioni di casi o testimonianze. Ha incontrato anche vittime di abusi?

Ho incontrato vittime di abusi, uomini e donne, e il mio lavoro è stato quello di accompagnarle a sentirsi riconosciute come tali. È il bisogno primario di ciascuno, in un processo che richiede molto tempo e pazienza perché le ferite sono profondissime. Per me è come prendersi cura di Cristo Crocifisso.



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Unione    sarda  13 ottobre


La seconda vita di Amanda

Sei mesi fa, in auto, l'uomo che si era invaghito di lei le era piombato addosso. Amanda Gallus, 40 anni,
di Carbonia, sta rimarginando le ferite (non solo fisiche) per iniziare una nuova vita. Lo stalker era stato arrestato
«Non è facile ricominciare a vivere dopo aver visto la morte in faccia ma io ce la sto mettendo tutta. Sono stati sei mesi durissimi e il percorso di guarigione non è ancora finito ma mi sto impegnando per riprendere in mano la mia vita». Sono passati sei mesi da quando Amanda Gallus, quarantacinquenne di Carbonia, ha rischiato di morire in un terribile scontro frontale. Non era stato un generico incidente stradale: a bordo dell'auto che ha travolto la sua utilitaria c'era Alessio Zonza, l'uomo di 53 anni che Amanda aveva denunciato per stalking e atti persecutori dopo che la sua vita era ormai un incubo quotidiano. L'incidente Nell'auto di Amanda c'era una telecamera che la donna aveva fatto piazzare a sua tutela e quel pomeriggio era al telefono con gli agenti del Commissariato perché si era accorta che Zonza la stava seguendo: le drammatiche immagini immortalate dalla telecamera e la disperata richiesta di aiuto raccolta al telefono non hanno permesso di evitare quel tragico schianto che ha fatto finire Amanda in ospedale in gravissime condizioni, ma hanno fatto in modo che l'uomo, anche lui ferito, venisse arrestato subito dopo l'incidente. Nella sua auto, nonostante avesse cercato di nasconderlo agli agenti, era stato trovato anche un martello. Due giorni fa un perito ha detto che Zonza, per il quale i suoi difensori hanno chiesto una perizia psichiatrica nell'ambito della processo per il reato di stalking, non è incapace di intendere e di volere e questa conclusione potrebbe essere determinante nel momento in cui si dovrà decidere il rinvio a giudizio per l'ipotesi di tentato omicidio. Le cure Amanda è chiaramente informata dell'evolversi della vicenda giudiziaria per la quale è seguita dagli avvocati Marco Aste e Maria Cristina Lindiri, «ma finché è ancora in corso preferisco non esprimere alcun commento – premette – ci sarà tempo e modo di parlarne, ora devo pensare alla mia salute». Non sono stati sei mesi facili: «Qualche santo mi ha protetto perché in quello schianto sarei potuta morire – dice – tuttavia ho riportato gravissime lesioni e fratture per le quali sono stata sottoposta a diversi interventi chirurgici e a una lunga fisioterapia, ancora in corso, che va in parallelo alle sedute di analisi con le quali cerco di metabolizzare il trauma che ho subito. Per fortuna ho intorno tante persone che mi vogliono bene, in primis il mio compagno e la mia famiglia e poi gli amici e i preziosi compagni di lavoro». La solidarietà Dal giorno dell'incidente Amanda è stata travolta da un'ondata di solidarietà e affetto dalla comunità di Carbonia e non solo: «Ho ricevuto migliaia di messaggi di auguri e di vicinanza che mi hanno commosso e mi hanno aiutato a non farmi mollare mai in questi mesi in cui i momenti di sconforto non sono mancati – afferma – ne sono arrivati moltissimi anche dai clienti del centro commerciale dove lavoro e dove i miei colleghi per mesi hanno ricevuto messaggi di affetto da inoltrarmi». Con i colleghi e le colleghe del centro Conad di Carbonia Amanda c'era già prima un rapporto di amicizia prezioso che questo dramma ha saldato ancora di più: «Per permettermi di continuare a curarmi, ora che ho esaurito i mesi di malattia disponibili ma ho ancora davanti un lungo percorso terapeutico, mi hanno donato parte delle loro ferie – racconta – un gesto importantissimo che mi lega in maniera indissolubile a ciascuno di loro, la mia riconoscenza è grandissima e spero con tutto in cuore di poter tornare tra loro, ritrovando la quotidianità e la serenità che ho perso, lasciandomi alle spalle questo tremendo incubo».

                                              Stefania Piredda
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Dal 1980 a tutta birra: Michele "il tedesco" quartese ad honorem

E chi non lo conosce, Michael Hans Dieter Fellmann! Forse il cognome è poco noto, ma basta precisare “Michele il tedesco di Quartu” per avere chiaro in mente il sorriso gioioso e la simpatia contagiosa del re della birra tedesca, che nei giorni scorsi ha avuto addirittura la cittadinanza benemerita, votata all’unanimità dal Consiglio comunale della terza città dell’Isola.Perché Michele il tedesco di Quartu, 69
anni, in città si è stabilito ben 44 anni fa, quando aprì per la prima volta le porte del suo locale, lo Zum Loeweneck, l’angolo del leone, in via Magellano, a un tiro di schioppo da viale Colombo. «Allora c’ero solo io», ricorda, «solo il mio locale e intorno nemmeno un bar. Poi le cose sono cambiate, Quartu si è completamente trasformata. Prima quando si usciva si andava solo a Cagliari, perché qui era il deserto. Ora ci sono pizzerie, ristoranti, discoteche. La città è viva e sono i cagliaritani a venire da noi».
Il riconoscimento
Questa cittadinanza benemerita «è stata una sorpresa e un onore», dice, «sono orgoglioso. Io da tempo sono residente qui e mi sento un cittadino a tutti gli effetti. Amo molto questa città». E pensare che all’inizio il pensiero di venire nell’Isola per Michele fu quasi un trauma. «Quando mi mandarono in Sardegna per il servizio militare pensai: è una punizione divina. Un posto così lontano e che io non conosco». Poi nel 1974 viene spedito nella base di Decimomannu come aviere scelto, addetto ai rifornimenti: «Fu una folgorazione. I colori, il cielo, il mare. E poi il mirto, le belle donne, la mia prima festa di Santa Greca. E fu così che ho deciso che non sarei più andato via».Da lì a poco prende forma un’idea: aprire un pub per far conoscere ai sardi la birra e il cibo tedesco. «Nel 1980 apro il mio locale, la prima birreria tipica bavarese, che è ancora lì con gli stessi tavoli».Ancora attiva dopo 44 anni, con il padrone di casa Michele che accoglie sempre tutti con un sorriso grande così.In poco tempo la sua birreria viene inserita tra le trenta migliori d’Italia e nel 1991 entra addirittura nel Guinness dei primati, per avere costruito la più grande tabacchiera da fiuto simultanea. Ce l’ha ancora qui nel locale, la tabacchiera, ma il record non c’è più «perché dai Guinness sono stati tolti tutti i record che hanno a che fare con il fumo e con l’alcol. Ogni tanto però la tiriamo giù perché le persone si divertono». E in effetti fa un certo effetto vederla scendere dall’alto ed entrare in azione.
Nuove passioni
Lasciata la sua birreria, Michele il tedesco ha fatto incursioni anche nel cinema: «Ho partecipato al film “L’arbitro” di Stefano Accorsi, dove ho fatto la comparsa, mentre invece in quello di Pieraccioni “Finalmente la felicità” ho anche recitato». E in men che non si dica snocciola le battute per filo e per segno senza dimenticarsi nemmeno una virgola.A Quartu ha trovato anche moglie. «Sia la prima – racconta ancora – che purtroppo è morta quando aveva 49 anni, sia la seconda che ho sposato 4 anni fa. Abitiamo sempre qui a Quartu e ci troviamo benissimo». La cosa che più gli piace del suo lavoro, ancora dopo tanto tempo, «è sicuramente il contatto con la gente, far gustare il cibo come se fossimo in Germania. Il locale è come un salotto di famiglia, dove ognuno si sente a casa». E infatti non chiedetegli se ha intenzione di andare in pensione: «Non ci penso nemmeno. Dobbiamo tutti festeggiare i cinquant’anni della mia birreria nel 2030».

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«Il piccolo Alessio mi ha reso trisnonna, è un dono di Dio» 

La storica bottegaia di Decimomannu: la famiglia è la cosa più importante 


 «Crema e profumo, gioielli e un bel vestito». Gianna Boeddu, 87 anni, decimese d’adozione, nonostante sia diventata trisnonna qualche giorno fa, non rinuncia al quotidiano tocco di eleganza e femminilità: «Prendersi cura del corpo e della mente, non abbattersi e leggere tanto sono i segreti per restare attivi». Quella di Gianna è un’energia contagiosa segnata da un sorriso smagliante contornato dal rossetto. Lei riserva questa energia soprattutto ai suoi numerosi nipoti, pronipoti e all’ultimo arrivato, il trisnipote Alessio Piredda: «La famiglia è la cosa più importante. Dio mi ha riservato un dono, nonostante i normali alti e bassi che ci sono in tutte le case». Mamma a 18, nonna a 36, bisnonna a 62 e trisnonna a 87 anni, Gianna è una vera forza della natura. 
«Sono nata a Bitti – racconta – ricordo bene la mia fanciullezza, quando scorrazzavo nel negozietto di paese gestito da mia zia. Mi parevano un sogno quegli scaffali pieni di ogni ben di Dio». 
 La sua famiglia, per questioni lavorative, si era poi dovuta trasferire a Iglesias, paese nel quale Gianna è sopravvissuta al tifo e ha conosciuto da giovanissima il ragazzo che sarebbe diventato suo marito: «Mi sono sposata a 15 anni e 2 giorni. Il mio fidanzato, Angelo Muroni, più grande di me di 9 anni, era originario di Sindia. I miei genitori non lo facevano entrare in casa e così abbiamo deciso di unirci in matrimonio». Fino al giorno del fatidico “sì” il padre non era d’accordo: «Prima ha acconsentito per poi cambiare idea il giorno prima della cerimonia. Ma siamo riusciti a convincerlo e così, volente o nolente, ha ceduto».   
 Gli sposini hanno deciso di mettere su famiglia a Decimomannu: «Mio marito non amava Iglesias, così abbiamo preso una casa in affitto in quello che sarebbe diventato il nostro nido “definitivo”, a parte una breve parentesi da emigrati in Francia».
  Dopo il rientro a Decimomannu, Muroni «ha appeso al chiodo le scarpette da minatore e ha preso in mano quelle di contadino e di agente forestale». Ma i soldi, con cinque figli, non erano sufficienti a tirare avanti la famiglia: «Avevamo acquistato casa in via delle Aie, il denaro scarseggiava comunque e io dovevo fare per forza qualcosa. Sotto casa avevo una piccola stanza inutilizzata, così ho pensato di avviare un negozietto». 
La bottega di via della Aie è diventato un punto di riferimento non solo per i decimesi: «Generi alimentari e fustini di detersivo in polvere erano i prodotti più venduti: acquistavo la merce dai rappresentanti e la rivendevo rincarata del 10 percento. In poco tempo l’attività è cresciuta vertiginosamente e ho dovuto ampliare il negozio». 
 Per tutti è diventata così “Gianna sa botteghera”: «Amavo il mio lavoro e stare in mezzo alla gente. I clienti si affezionavano perché non raccontavo in giro i loro segreti, non li giudicavo e permettevo loro di pagare a fine mese. Decimomannu è tutto per me. Mi sono sempre sentita a casa e voluta bene. Mi sono integrata e ho frequentato i corsi organizzati dal Cif. La dolce signora Augusta, moglie del medico di famiglia Mallus, teneva corsi di ricamo, maglia e comportamento». 
 Adesso Gianna è una nonna, anzi, una trisnonna, a tempo pieno: «Non mi dedico più a tutte le mie passioni (cucito, cucina e lettura) perché la salute non me lo permette. Ma riesco ancora ad assistere, per qualche oretta, i miei nipotini e a preparare loro delle semplici merende». Le difficoltà della vita non la buttano giù: «Prendo il mondo come viene». E a una società prettamente patriarcale dice: «Insegno soprattutto alle mie nipoti a lottare ed essere indipendenti. Le donne devono lavorare ed essere autonome. Come ho cercato di esserlo io per tutta la vita».

11.10.24

Razzismo e antisemitismo



dopo l'abbandono  della  utente    ****   di  fb  per le mie  critiche ad Israele (  vedere oltre  la  mia bacheca    anche  i  post  precedenti    fra cui  questo  :   Cosa è il sionismo e perché essere critici? E poi quali sarebbero le idee di Segre e Crosetto da “odiare”?   )  nonostante abbbia via messanger , prima che mi blocasse , spiegatogli che i miei post non sono verso il popolo in se ma verso lo stato ed alcuni concezioni della loro cultura cioè dell'ebraismo soprattutto quello più conservatore .Condivido confermando la mia tesi questo scrittto riportasto dall'amico e compagno di strada MarioDomina sul suo blog filosofico La Botte di Diogene

lunedì 30 settembre 2024

(del filosofo fenomenologo Vincenzo Costa)

Dopo che Netanyahu ha chiamato l'assemblea generale dell'ONU "palude antisemita" la nozione stessa di antisemitismo è diventata dubbia, sospetta.
Si usa il termine "antisemita" per abbassare moralmente chiunque denunci una strage continua, il razzismo che caratterizza un'intera cultura e uno stato costruito di fatto su basi etniche.
L'uso ideologico della nozione di antisemitismo la ha svuotata: serve solo a legittimare la violenza
Molte delegazioni del sud globale hanno abbandonato l'aula mentre parlava Netanyahu. Rappresentanti di popoli oppressi da secoli e che hanno subito sulla loro pelle il razzismo hanno denunciato il razzismo di Israele.
Non hanno detto che il popolo o la razza ebrea sono inferiori: hanno detto che tutti gli uomini sono uguali.
Sono gli amici ebrei che devono rispondere a una domanda semplice:
per voi tutti gli uomini sono uguali o gli ebrei sono superiori, eletti, al di sopra di ogni legge, con diritto di uccidere?
Chi costruisce uno stato etnico? Chi usa la nozione di razza?
Chi è razzista?
Sembra quasi che chiunque sia contro ogni razzismo diventi antisemita.
Dunque, per non essere antisemiti bisognerebbe dire che alcuni, gli ebrei, sono speciali, che le loro vite valgono più di quelle degli altri?
A un morto ebreo quante morti di infedeli corrispondono esattamente? 1 a 1.000 basta?
Si può criticare una cultura basata sulla trasmissione attraverso il sangue?
Si può dire che è una cultura arretrata, vecchia, che già il Cristianesimo si lascia alle spalle con una visione universalistica? Se si riprende l'affermazione, antirazzista, di Gesù (Razza di vipere, Dio può far nascere figli di Abramo da queste pietre) si è razzisti? Gesù era antisemita?
Il popolo di Dio, se c'è un Dio, è l'umanità tutta. Non esistono popoli eletti.
E se dico questo sono antisemita?
Si può criticare tutto, si può deridere il cristianesimo ma guai a fare una battuta sull'ebraismo?
Si può dire che l'Occidente è violenza ma non si può criticare una cultura basata sulla razza che produce uno sterminio oramai senza limiti che dura da 50 anni?
Perché altrimenti ci si deve aspettare la vendetta? Dobbiamo tacere perché fate paura e potete distruggerci?
Chi minaccia oggi la libertà? Chi esprime oggi disprezzo per gli uomini?
No, chi ha lasciato l'aula delle Nazioni Unite non è antisemita: si è rifiutato di ascoltare un razzista, un suprematista ebraico, un pazzo fanatico.
Noi siamo contro ogni suprematismo, non dobbiamo giustificarci di niente.
Siete voi che dovete abbandonare il vostro suprematismo, che dovete liberarvi del razzismo.
Noi siamo fedeli a un punto e non si cede: tutti gli uomini sono uguali.
Il resto è settarismo, vecchiume, suprematismo, prepotenza, bullismo, che vive solo perché sostenuto dalla forza, dalla violenza e dalla prepotenza.
L'Occidente ha decostruito se stesso, e deve continuare a farlo, deve continuare a liberarsi di quanto di violento c'è in quella tradizione.
Ma è venuto il momento che anche gli amici ebrei inizino a decostruire la loro tradizione e la loro storia, perché così non si va più avanti. Non si può più tacere davanti a quello che accade.
Se chiamate antisemita chi denuncia il razzismo il discorso si chiude: non abbiamo davvero nulla da dirci

(del filosofo fenomenologo Vincenzo Costa)

Dopo che Netanyahu ha chiamato l'assemblea generale dell'ONU "palude antisemita" la nozione stessa di antisemitismo è diventata dubbia, sospetta.
Si usa il termine "antisemita" per abbassare moralmente chiunque denunci una strage continua, il razzismo che caratterizza un'intera cultura e uno stato costruito di fatto su basi etniche.
L'uso ideologico della nozione di antisemitismo la ha svuotata: serve solo a legittimare la violenza
Molte delegazioni del sud globale hanno abbandonato l'aula mentre parlava Netanyahu. Rappresentanti di popoli oppressi da secoli e che hanno subito sulla loro pelle il razzismo hanno denunciato il razzismo di Israele.
Non hanno detto che il popolo o la razza ebrea sono inferiori: hanno detto che tutti gli uomini sono uguali.
Sono gli amici ebrei che devono rispondere a una domanda semplice:
per voi tutti gli uomini sono uguali o gli ebrei sono superiori, eletti, al di sopra di ogni legge, con diritto di uccidere?
Chi costruisce uno stato etnico? Chi usa la nozione di razza?
Chi è razzista?
Sembra quasi che chiunque sia contro ogni razzismo diventi antisemita.
Dunque, per non essere antisemiti bisognerebbe dire che alcuni, gli ebrei, sono speciali, che le loro vite valgono più di quelle degli altri?
A un morto ebreo quante morti di infedeli corrispondono esattamente? 1 a 1.000 basta?
Si può criticare una cultura basata sulla trasmissione attraverso il sangue?
Si può dire che è una cultura arretrata, vecchia, che già il Cristianesimo si lascia alle spalle con una visione universalistica? Se si riprende l'affermazione, antirazzista, di Gesù (Razza di vipere, Dio può far nascere figli di Abramo da queste pietre) si è razzisti? Gesù era antisemita?
Il popolo di Dio, se c'è un Dio, è l'umanità tutta. Non esistono popoli eletti.
E se dico questo sono antisemita?
Si può criticare tutto, si può deridere il cristianesimo ma guai a fare una battuta sull'ebraismo?
Si può dire che l'Occidente è violenza ma non si può criticare una cultura basata sulla razza che produce uno sterminio oramai senza limiti che dura da 50 anni?
Perché altrimenti ci si deve aspettare la vendetta? Dobbiamo tacere perché fate paura e potete distruggerci?
Chi minaccia oggi la libertà? Chi esprime oggi disprezzo per gli uomini?
No, chi ha lasciato l'aula delle Nazioni Unite non è antisemita: si è rifiutato di ascoltare un razzista, un suprematista ebraico, un pazzo fanatico.
Noi siamo contro ogni suprematismo, non dobbiamo giustificarci di niente.
Siete voi che dovete abbandonare il vostro suprematismo, che dovete liberarvi del razzismo.
Noi siamo fedeli a un punto e non si cede: tutti gli uomini sono uguali.
Il resto è settarismo, vecchiume, suprematismo, prepotenza, bullismo, che vive solo perché sostenuto dalla forza, dalla violenza e dalla prepotenza.
L'Occidente ha decostruito se stesso, e deve continuare a farlo, deve continuare a liberarsi di quanto di violento c'è in quella tradizione.
Ma è venuto il momento che anche gli amici ebrei inizino a decostruire la loro tradizione e la loro storia, perché così non si va più avanti. Non si può più tacere davanti a quello che accade.
Se chiamate antisemita chi denuncia il razzismo il discorso si chiude: non abbiamo davvero nulla da dirci