L'amore arriva quando meno te lo aspetti, si dice. E lo può confermare Charlotte, che ha conosciuto il suo futuro marito sui binari del treno, in un momento particolarmente difficile della sua vita. La donna, un'infermiera di 33 anni, quella mattina voleva togliersi la vita a causa di diversi problemi di salute
mentale, tra cui un disturbo da stress post traumatico. Ma il macchinista si è fermato, è sceso, si è avvicinato e si è inginocchiato di fronte a lei. Poi le ha detto il suo nome, e ha chiesto quello di lei. Una scena che sembra provenire direttamente da un film. L'uomo è riuscito a placare la sofferenza di Charlotte e l'ha aiutata a rialzarsi, in tutti i sensi.
Il salvataggio e il matrimonio
«Trova qualcuno che ti guardi così, quando non te ne accorgi», scrive Charlotte Lay nella didascalia di una delle foto che la ritraggono assieme al marito il giorno delle nozze. Il loro amore è iniziato in un giorno nefasto, quando la donna ha agito d'impulso e mentre si stava dirigendo al lavoro si è seduta sui binari del treno, in attesa di essere colpita.
Ma alla guida di quel treno c'era Dave Lay, che è sceso e le ha tenuto compagnia per circa mezz'ora, riuscendo a calmarla, a guadagnare la sua fiducia e a farla salire a bordo. L'ha salutata alla stazione di Skipton, dove l'attendeva la polizia. Il giorno dopo Charlotte ha cercato quell'uomo su Facebook per ringraziarlo di ciò che aveva fatto, e i due hanno iniziato a scambiarsi messaggi, quasi ogni giorno.
Poi c'è stato il primo incontro faccia a faccia per un caffè. Il resto è storia: dopo tre anni si sono sposati, quando Charlotte era incinta del primo figlio. Ce ne sono stati altri due, da allora. La conversazione di quel giorno, da quello che ricordo, era sulle nostre vite, nulla di che, ma abbastanza per farmi superare il momento di crisi - racconta la donna -. Non sentivo più la vita così pesante», dice al Daily Mail.
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«Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena 18 anni, ero una ragazzina. Ho vissuto più di 30 anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo». Rossella Criseo è tra quei 115 lavoratori e lavoratrici che
non riescono a immaginare il proprio futuro anche solo tra qualche mese. L’azienda per cui lavora, la multinazionale svizzera del cioccolato Barry Callebaut, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, Verbano Cusio Ossola. «Da un giorno all’altro - dice -. A settembre ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso nel primo trimestre 2025. Poi la proprietà ha accettato di prolungare lo stop alla produzione al 30 giugno».
Ora si tenta la strada della reindustrializzazione, anche se l'azienda ha escluso l'apertura a eventuali competitor interessati. «Se non verrà trovato un acquirente? Anche mio marito è un dipendente, ci siamo conosciuti in reparto. Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo. I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere». Rossella Criseo, nella Rsu Cisl da tre anni, è entrata per la prima volta in stabilimento quando la proprietà era ancora del marchio Nestlé. Poi la chiusura nel 1999 e il salvataggio di Barry Callebaut, che ha permesso alla fabbrica di raggiungere i cento anni di produzione. «Un anniversario che avremmo festeggiato proprio quest’anno – dice -. Invece abbiamo davanti lo scenario più desolante possibile».
Criseo è cresciuta con il profumo di cioccolato sotto il naso, che ogni giorno avvolgeva lo stabilimento. «Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento. Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più, ennesima chiusura in un territorio che in passato, invece, aveva una vocazione industriale». Dopo l’incontro di ottobre al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (in cui è stata delineata la strada della reindustrializzazione) lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente. Giovedì 31 ottobre si è svolto l’incontro con la Regione Piemonte, dove il sindacato ha ribadito che sarebbe necessario aprire la possibilità di cessione a un competitor per facilitare il percorso di reindustrializzazione. Ci si aggiornerà nuovamente al prossimo tavolo, convocato per il 26 novembre.
Criseo, che ha partecipato ai comitati aziendali europei, racconta che l’intenzione di chiudere il sito di Intra non è mai stata manifestata: «La scorsa primavera abbiamo persino incontrato il direttore dell’area Sud Est Europa, Esteve Segura. Ci aveva rincuorato sul futuro di Intra. Nel 2024, oltretutto, abbiamo raggiunto volumi record chiudendo l’anno fiscale con oltre 67mila tonnellate». Cioccolato su cioccolato, quello liquido che nel reparto di Rossella Criseo si scarica dai serbatoi e si carica nelle cisterne per i clienti.
«Ci siamo sempre dati da fare, siamo stati disponibili a lavorare il sabato, la domenica, a fare le notti, a lavorare nei riposi compensativi. Siamo stati i primi in Italia a fare le “squadrette”, a lavorare 7 giorni su 7. E ora l’azienda ci ripaga così? Io, i miei colleghi e le mie colleghe, siamo delusi e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Di spostarsi non se ne parla, e neanche di cambiare settore dopo oltre 30 anni di lavoro
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«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».