6.11.24

«Sono l'ultima abitante del paese dove sono nata. Vivo all'antica, coi gatti, senza gas né elettrodomestici. Ma non mi sento sola»

Vive senza gas, elettrodomestici e soprattutto in solitudine. È la storia di Anna, ultima abitante del borgho di Mossale Superiore, in provincia di Parma, che per raggiungere il primo centro abitato e

procurarsi da mangiare impiega due ore a piedi. Anna vive nel paese per tutto l'anno, anche durante l'inverno, nonostante i mille metri di altezza. A farle compagnia ci sono solo i gatti, Anna è sola ma non le manca nulla. La donna ha parlato a la Repubblica della sua scelta di vita. Non ha mai voluto abbandonare il luogo in cui è nata: una decisione forse d'altri tempi, senza dubbio romantica e particolare visto che a Mossale oltre a lei stessa non c'è niente e nessuno. Ha superato i 70 anni, ma la sua forza sembra inesauribile

La vita nel bosco

«Io sono nata qui e sono sempre voluta restare, ma in inverno è dura. In inverno qui non si fa mica niente, bisogna solo farsi il fuoco per scaldarsi. Se mi serve qualcosa, a volte vado a Bosco di Corniglio», ha detto Anna. I suoi spostamenti avvengono esclusivamente a piedi: «Vado piano, sono vecchia, e mi ci vogliono due ore per arrivare. Se però passa qualcuno che mi conosce, allora mi prende su in macchina. C’è l’uomo che porta il pane, ad esempio: magro, alto, dal cuore proprio buono. Lui se mi vede per la strada mi accompagna al bosco. Ogni volta gli dico che vorrei pagargli il disturbo ma mi dice sempre di no, che non vuole nulla. Per fare spesa aspetto un camioncino che arriva da Aulla. Mi porta tutto: pane, pasta, zucchero, frutta e verdura. Ormai non coltivo più l’orto: c’è da tribolare, non ce la faccio. Il tempo non mi manca. Ho bisogno di poco, vivo all’antica». 

Niente gas ed elettrodomestici

In casa non ha gas, elettrodomestici e nessun altro tipo di comfort che per tutti può definirsi scontato. Anna vive all'antica: «Avevamo un televisore ma si è rotto e non lo abbiamo mai fatto aggiustare. Vede quel fascio di rami lì a terra? L’ho messo insieme stamattina. Sono pesanti perché sono ancora bagnati ma li ho presi lo stesso tanto poi si asciugano e si adoperano». L'elettricità in casa c'è ma a causa dei temporali non è mai utilizzabile. A quel punto a fare luce sono le candele, le stelle e la luna. Per cucinare utilizza una stufa a legna

La villeggiatura in estate

Anna ha raccontato come in estate nel borgo di Mossale Superiore ci sia vita, molte persone decidono di trascorrere qualche giorno immersi nella natura, prima di fare rientro in città: «A settembre iniziano ad andare via tutti, chi va a Milano, chi a Varese, chi a Parma. Anche quest’anno, gli ultimi ad andare via sono stati gli inglesi. In estate il paese si riempie e torna vivo, un po’ come quando ero piccola». 
L'infanzia

Ad Anna viene chiesto quali sono i suoi ricordi d'infanzia a Mossale, quando il borgo era ancora popolato: «Una volta qui avevamo le mucche, veniva il cascinaio a prendere il latte per portarlo giù al caseificio. Da bambina sapevo badare alle mucche e facevamo il formaggio. Non è facile, bisogna essere capaci. Quando ero piccola andavo a scuola a piedi, giù a Mossale inferiore: eravamo un gruppetto di quattro o cinque bambini, partivamo presto al mattino per arrivare in tempo alle lezioni. Dopo scuola, c’era la refezione, ci davano a tutti il pranzo, poi si andava a dottrina. Eravamo liberi, stavamo fuori tutto il giorno: sono ricordi belli. Ma anche se sono rimasta da sola, non mi sento sola: mi perdo nel fare tante cose e tiro avanti. A volte mi dicono di prendere un cane. Ma un cane no, non lo voglio, perché dovrei badarci e non ce la faccio. E poi, proprio sola non sono: vede, loro stanno sempre con me, mi vengono sempre dietro queste due bestioline», dice riferendosi a dei gatti. 

che abbia vinto Trump o Kamala per la sardegna e le sue basi non cambierà niente







L'UNIONE SARDA.IT

INCHIESTA
06 novembre 2024 alle 13:43aggiornato il 06 novembre 2024 alle 13:44


Sardegna-Usa, storie di misteri & top secretDal mancato sbarco del 1943 alle servitù militari americane di ieri, oggi e domani in terra sarda: gli States ad un bivio


(foto L'Unione Sarda)



Efisio Marras, classe 1888, cagliaritano doc, non era un militare qualunque. Per la storia, quella dimenticata, è lui il primo grande depositario dei tanti misteri della lunga e segreta storia sardo-
americana di questi ultimi 80 anni. Sconosciuto e riservato, indomito mediatore e implacabile Generale dell’Esercito italiano. Uomo capace di scalare le diplomazie più irrequiete del pianeta, da quelle di Berlino sino a Washington.


Marras story

Dopo il 25 luglio del 1943 fu Pietro Badoglio, capo del Governo italiano, a spedire il sardo dimenticato da tutti, a rassicurare Adolf Hitler sulla “volontà” del Governo di Roma di non fermare la guerra. Non fu un colloquio facile, quello del 30 luglio del ‘43. Gli appunti di Marras parlano di un incontro interlocutorio, sino al vertice sul Tarvisio, il 6 agosto successivo. Partecipano i Ministri degli Esteri e i Capi di Stato maggiore italiani e tedeschi. Al tavolo c’è anche Efisio Marras, il Generale di Cagliari. È sera, l’8 settembre del 1943, quando la radio diffonde la notizia: è armistizio tra l’Italia e gli Alleati. Tutto o quasi di quegli incontri a Berlino finisce in cenere. Il dieci settembre il personale dell’ambasciata a Berlino viene internato a Garmisch-Partenkirchen. Marras no, durante il trasbordo ad arrestarlo è direttamente la “terribile” Gestapo. Viene, per modo di dire, “processato” e spedito senza troppi convenevoli nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Resta lì fino al 31 marzo 1944 quando, poi, finisce nelle mani della “Repubblica sociale italiana”. Il 25 agosto, però, evade. Si dà alla clandestinità, sino alla fine delle ostilità. Nell’Italia devastata dalla guerra il suo posto è alla guida dell’Esercito, come Capo di Stato maggiore, ma non solo.

Washington

È ottobre del 1948 quando i vertici della Difesa gli affidano due missioni estere destinate a segnare inesorabilmente la storia sardo-americana, quella passata e la cronaca moderna dei giorni nostri. Il primo viaggio è in una Germania post bellica, spedito nella terra che fu di Hitler a discutere direttamente con le forze americane d’occupazione. La seconda missione è quella più sconosciuta e segreta. A dicembre del 1948 Efisio Marras raggiunge Washington, con un doppio mandato: aprire le trattative con gli Stati Uniti per governare la fase "post-bellica” e partecipare, in qualità di delegato, al Consiglio Atlantico. Il vertice più delicato, però, è al Pentagono.

Patto segreto



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In quel momento, Marras, è il numero uno della Difesa italiana. È il più riservato, il più schivo, l’unico a cui viene affidato un incarico che segnerà per sempre il rapporto militare “sardo-americano" e il patto “segreto” tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia. È lui che deve registrare le “pretese” americane in terra sarda e non solo. C’è da “regolare” i conti, economici e militari, dopo il sostegno degli Usa alla liberazione. Il suo compito, quello del Generale di Cagliari, è ascoltare e registrare, capire e mediare. In ballo ci sono le ambizioni statunitensi in terra sarda, le mire egemoniche nel Mediterraneo, la pretesa stabilità occidentale.

Trattativa

Tutto da sottoscrivere con un contratto destinato a segnare per sempre la storia del Bel Paese: «Patto Atlantico». L’apporto degli Stati Uniti alla ricostruzione delle forze armate italiane divenne decisivo: con l’adesione alla Nato, si passò dalle regole di ingaggio britanniche, adottate per necessità nel 1944, a quelle degli States.

Pretese Usa

A discutere per primo gli assetti americani nel sud Europa, Sardegna prima di tutto, c’è il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Efisio Marras. Il compito è tutto suo: gestire le prime rivendicazioni degli Usa nella gestione militare degli eserciti occidentali, a partire da quello italiano. Non una partita secondaria, visto che gli stessi americani temevano, nonostante si ritenessero i salvatori della Patria, le reazioni delle popolazioni agli insediamenti degli States sul suolo sardo e italiano.

Basi sarde

Marras registra i capisaldi delle pretese americane: «prosieguo dei diritti acquisiti dagli Stati Uniti in base agli accordi precedenti; immediata concessione di diritti aggiuntivi con la realizzazione di una linea di comunicazione dal Tirreno al confine nordorientale in appoggio alle truppe di occupazione in Austria e a Trieste; diritti da acquisire in futuro». Si parlò anche di denari, con accordi finanziari da stipulare subito dopo l’eventuale intesa strategica con il Governo Italiano. Insomma, gli americani volevano anche soldi per posizionare basi militari sul suolo italiano. Registra Marras: «basi e strutture militari degli Stati Uniti in Italia, compresa l’installazione e il mantenimento, sarebbero dipesi direttamente dal finanziamento italiano». È lì che scattò l’operazione “servitù militari” in Sardegna. Dopo i colloqui di Washington partì la ricognizione terrestre nell’Isola e non solo.

Nato & Usa



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L’obiettivo era esplicito: individuazione di siti adeguati alla costruzione di installazioni militari. Da quel momento saranno i Governi a trattare, con una postilla annotata nelle carte “segrete”: il Governo italiano preferisce che le basi siano in capo alla Nato e non direttamente agli Stati Uniti. Non solo una formalità. Non cambia, però, il risultato. La Sardegna è terra di conquista. Politicamente debole, isolata, centrale nel Mediterraneo, incapace di creare troppi problemi a chi deve decidere. Gli Usa del resto la conoscevano bene, anche militarmente: nei documenti angloamericani per la conquista dell’Isola, nella seconda guerra mondiale, il ruolo della Sardegna era chiaro, anche se il tutto si fermò alla teoria. Furono gli Usa a pianificare, già dalla fine del 1940, con l’operazione Yorker, l’occupazione militare dell’intera Isola. Arrivò, poi, il “Piano Garotter”, per occupare Cagliari, ma anche in questo caso il tutto si fermò. Infine, sempre loro, progettarono il “falso” sbarco nell’Isola con l’operazione Brimstone nel 1942. Ovviamente, non se ne fece niente.

81 anni dopo

Il pallino dell’Isola da conquistare, però, resistette: il 20 ottobre 1954 Mario Scelba, Ministro dell'Interno e Presidente del Consiglio dei Ministri, firma l'Accordo Bilaterale sulle Infrastrutture (BIA ) con gli Stati Uniti d’America. Un patto “segreto” per gestire e costruire basi militari Nato e Usa in Italia, in Sardegna soprattutto. Ieri come oggi, tutto top secret, salvo qualche concessione dopo la strage del Cermis. Da domani quel patto segreto, con le clausole di ampliamento, a partire dagli F35 capaci di caricare bombe nucleari in arrivo a Decimomannu, sarà nelle mani del 47° Presidente degli Stati Uniti d’America. Il futuro dell’Isola, ora come non mai, passa ancora una volta da Washington, come ottantuno anni fa. Ad ascoltare le pretese degli States questa volta, però, non ci sarà Efisio Marras.

Annalisa Zirattu Reni e il make-up sui cari estinti «Così li trucco per l’ultimo viaggio» Parla lunica tanatoesteta del nord Sardegna ., il bellissimo gesto di Pecco Bagnaia .,

   Lo  che    le  festività    d   del  31  ottobre    ,  1 e 2  novembre  sono  passati  ,  ma     non (  almeno  per  me   è  cosi  )   ci  si  smette  mai  d'interrogarsi  sul  senso della  vita  e  della morte     anche se    a volte   per  evitare  pensiueri  trisiti  ed  elucubrazioni inutili   :  <<   [...] Voglio trovare un senso a questa vita\Anche se questa vita un senso non ce l'ha\Voglio trovare un senso a questa storia \ Anche se questa storia un senso non ce l'ha  [...]    >>  .  Ma  soprattutto perchè    non si finisce  mai  di  apprendere  e  di conoscere  coise  nuove  o   sotto     un altra  prospettiva   . Infatti    credevo che tale  lavoro fosse   qualcosa     del  mondo  dello spettacolo     e del cinema    come  il     caso  del  film  I cassamortari  un film italiano del 2022 diretto da Claudio Amendola. o    fosse  solo usato    in casi    paticolari  tipo imbalsamazioni  di personaggi storici    antichi  (  i  faraoni  egizi  )  o  contemporanei  (  i leader  sovietici  dell'ex  Urss   o pontefici   ) .  Invece c'è chi lo fa fissso come lavoro come Annalisa Zirattu Reni di Olbia  la  cui  vicenda  è raccontata  da la nuova sardegna del 6\11\2024

Annalisa e il make up dei defunti «Curo l’estetica del caro estinto» «E importante mantenere il distacco, ma non ti abitui mai»

Annalisa Zirattu Reni  ( foto    in alto  a  sinistra  )  di Olbia, è tanatoesteta.Si occupa della cura dei defunti subito dopo il decesso, prima dell' esposizione delle salme Della camera ardente. È l'unica ad avere la qualifica e praticare nel nord Sardegna, ha iniziato în modo casuale. Nessun timore per lei, ma tanta emozione davanti al dolore dei familiari o ai gesti di affetto.È un lavoro particolare, di cui è difficile parlare li beramente conl e altre persone. >>Un mestiere che esiste e ha un'utilità fondamentale ma rimane nell'ombra, coperto da un grande silenzio.«In realtà è così «perché fino ad alcuni anni fai discorsi sulla morte non è rano certamente un tabù . AQuando una persona scompare, una delle prime telefonate la riceve proprio Annalisa, dall’agenzia funebre incaricata o direttamente dai familiari. L'olbiese, unica ad avere la qualifica e praticare nel nord Sardegna, e in generale una delle pochissime nell'isola, ha iniziato .in modo casuale. «Sì ho scoperto questa figura nel 2012 su Google, da lì mi sono interessata e ho conosciuto la scuola di formazione funeraria “centro studi oltre” di Bologna». Conse gue il primo e secondo livello di tanatoestetica, Inoltre, ha la.qualifica nazionale di nécrofora, «dietro ci sono tante nozioni anatomiche ma anche burocratiche». Ci sono tempistiche e procedure medico-legali per l’accertamento della morte da rispettare. E poi tutte le precauzioni: «L'azione è limitata, non è possibile ecludere le vie respiratorie enon si può fare niente che impedisca il manifestarsi della vita»,spiega. Appassionata di tradizioni funerarie antiche e moderne, di cimiteri («Ho visto quelli monumentali di Sassari, Genova, Parigi, Londra»), ma anche di antropologia, Annalisa Zirattu Reni si trova a svolgere questo lavoro da ormai dodici anni. Tanatoesteta, con quest'accezione grecizzante e misteriosa,fa pensare solo al trucco ma non è così. Lei.si occupa anche del resto del visibile, della sistemazione dei capelli e della vestizione, pet restiture il corpo nella migliore condizione possibile in cui verrà visto da’ familiari e cari.
Un'attenzione.che riesce a dare un aspetto molto simile aquello in vita. «Ci sono alcuni casi dove è necessario intervenire in maniera importante — spiega lei — mi riferisco a persone che perdono la vita peri ncidenti, per infarti o gravi malattie». In abitazione o in'ospedale, entra nella stanza, a volte accompagnata da un familiare che le dà indicazioni («e mi chiedono una ciocca di capelli da conservare .»), apre le sue tre valigette: una contiene i kit per il restauro, uno per il parruccco e uno per il caumoflage apunto «Non mi impressiono, cerco di tenere un distacco da ciò che sto facendo anche se non ti abitui mai. Però mi emoziono, questo sì e tanto, quando i familiari mi abbraciano o urlano disperati per il dolore della perdita». Da piccola,il padre portava lei e la sorella a passeggiare per il vecchio cimitero, l'interesse era versol e statue, le decorazioni, non avrebbe mai pensato di lavorare in ambito funerario. Ragionandoci, Annalisa parla di riti ancestrali, basti pensare alle vicine tombe dei giganti, o alle pratiche in cui i morti venivano ricoperti di ocra rossa già dal Neolitico, e parafrasa Epicuro: «Questo lavoro normaliz ala morte.Non ha a che fare con la vita, così come la vita non fa parte della morte». In centinaia di interventi,qualche vicenda è rimasta impressa: «Una moglie mi chiese di usare l'impronta delle dita del marito defunto per sbloccare la password del telefono», infedeltà oltretomba. Alcune storie stringono il cuore: «Ricordo il compagno di un ragazzo scomparso, avevano una relazione ma nessuno lo sapeva. Nessuno sapeva che la persona morta era omosessuale, e mi ha fatto male vedere il fidanzato non potere piangere una perdita così grande come avrebbe davvero voluto. Non poteva fare il vedovo davanti ai familiari e a tutti per mantenere quel loro segreto».

 ...... 

mettendo  in ordine  il  mio  account  fb   secondario  , leggo    da  Lorenzo Tosa   del bellissimo  gesto  fossero  tutti  cosi   gli artisti  e   gli sportivi      di Pecco Bagnaia

                      Lorenzo Tosa·


Pecco Bagnaia ha detto una cosa che raramente si sente a qualunque livello, figuriamoci quando ti giochi un campionato del mondo.

“Io a Valencia non sono disposto a correre, anche a costo di perdere quello che è il mio massimo obiettivo, vincere il titolo Mondiale. Correre è una festa, e loro stanno vivendo un momento terribile. È giusto fermarsi.”
Questo ha detto Pecco Bagnaia, l’unico dei big che ha preso una posizione nettissima sulla (in)opportunità di correre il Gp di Valencia, mentre in città si contano ancora i morti per la tragica alluvione che l’ha colpita.
Ci sono dei momenti in cui è giusto fermarsi, è rispettoso, è semplicemente umano.
È quello che, per fortuna, alla fine è stato deciso.
E Pecco ha appena dato una dimostrazione di cos’è un uomo, molto prima del campione.


concludo    con questo  post   preso  non ricordo  l'account  \  pagina  fb   ,   ho problemi con   quasi  tutti   i social  di meta ( facebok  , tick  tock  ,  whatsapp  ,  istangram , Threads )   in questi  giorni   




la sardegna ed il turismo d'autunno trekking e fitness con vista mare l'altra faccia della costa smeralda

 




5.11.24

non so chi è peggio tra trap e neomelodici ( ovviamente senza generalizzare ) "Frat'mio", "Lione", "Amo'": i post che esaltano gli omicidi, a Napoli, e le armi «facili» nelle mani dei ragazzi

Dice: «Gli zingari». Dove hai preso la pistola? «Dagli zingari». E sarà pure vero. E se è vero, certo non lo ha scoperto guardando Gomorra, anzi forse è stato uno come lui a spiegarlo a quelli di Gomorra come fanno i ragazzini a procurarsi una pistola. Anche sporca, che ha già sparato e magari chissà se non pure
ucciso.Dettagli.
Ai ragazzini protagonisti di questo crimine senza clan né boss che sta facendo piangere Napoli, ragazzini che vivono nei social con le loro pose caricaturali da trapper sfigati, basta solo avercelo il ferro, estensione mortale di un coraggio che non hanno, perché nemmeno a botte sanno fare, alzano le mani soltanto se sono in gruppo contro uno. Altrimenti fanno tre passi indietro, come Francesco Pio Valda sul lungomare di Mergellina, o si mettono al riparo in macchina, come il diciassettenne che l’altra sera ha ucciso Santo Romano. E quando si sentono al sicuro sparano. E uccidono chi capita. Uno che sta lontano per i fatti suoi, uno che è a due metri ma non ha alcuna intenzione di litigare.
Tutto per poter tornare poi nello schermo del loro smartphone e scattare selfie con aria da dannati e pose sempre quelle. E postare frasi di addio, perché lo sanno che il futuro sarà in cella, a ragazzine che li dimenticheranno in cinque minuti, e raccogliere la solidarietà degli amici, perché chi uccide e si farà il carcere è uno tosto, e merita rispetto. E allora ecco quei post pieni di ftrat’ mio, lione, amo’. Sì anche amo’: come se lo dicono le ragazze se lo dicono anche i ragazzi. Ma virilmente, loro.
È questo il mondo di chi ha ucciso Santo, di quel Francesco Pio Valda che uccise in via Caracciolo Francesco Pio Maimone, di quello che uccise Giogiò Cutolo .
Ora la Procura minorile ha deciso che mai più i social saranno terra di nessuno, dove esaltare il crimine e onorare i criminali. Dopo il fermo del diciassettenne che ha ucciso Santo, il pm ha aperto un fascicolo delegando la polizia giudiziaria a individuare gli autori dei post in cui è possibile configurare violazioni al codice penale. E dove gli autori saranno minorenni, l’indagine riguarderà anche i loro genitori,responsabili dell’attività social dei figli.
È un provvedimento per molti versi rivoluzionario, e servirà ora trovare le tecnologie adatte per bloccare i post sui quali le piattaforme non interverranno autonomamente Su questo tema il procuratore minorile Maria de Luzenberger è netta: «C’è una generazione che è cresciuta violenta, anche in Rete. Giovanissimi che non fanno parte della camorra ma hanno una cultura camorristica».
Eppure non è questa — o non è solo questa — la peggiore emergenza sociale di Napoli. È l’accesso alle armi, la facilità con la quale certi ragazzini riescono a entrare in possesso di una pistola che diverrà compagna delle loro uscite serali e che prima o poi troveranno il modo di usare.
La mamma di Giogiò, Daniela Di Maggio, davanti alla bara del figlio disse che esistono due Napoli: una che ha le armi e spara e una che può solo augurarsi di non trovarsi mai sulla traiettoria dei proiettili. È triste e non è una visione ottimistica né progressista. Ma è vera. E tutto quello che i carabinieri e la questura hanno fatto — controlli, sequestri, appelli sui social, manifesti — è certamente servito, ma non basta più.
Dal 2021 al 2023 solo i carabinieri hanno sequestrato seicento armi da fuoco, e il comandante provinciale, il generale Enrico Scandone,ci ha messo più volte la faccia girando video-appelli rivolti ai giovani. Eppure Santo è stato ucciso, Giogiò è stato ucciso, Francesco Pio è stato ucciso. Pure Emanuele Tufano è stato ucciso, pure se lì la dinamica è stata diversa, ma aveva comunque 15 anni. E allora finché non ci sarà una indagine capace di prosciugare il sistema di circolazione delle armi al quale si rivolgono i minorenni, qualcuno di loro ucciderà ancora. E poi,quando lo prenderanno, dirà: «La pistola? l’ho comprata dagli zingari». E farà spallucce.



  
Infatti  in rete   ci  si divide      su  dichi è la responsabilità   .  Ecco uno stralcio di uan discussione  a cui ho partecipato    nei commenti   all?articolo  di  msn ,it  da cui è tratta  news  
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solo a napoli?? a parte le colpe dei genitori e del buonismo che ci ha portati al baratro

giuseppe scano
non solo ma anche lo stato     che non  offee   e  se  lo fa  u,n privato lo  blocca e rende  inutile  con  un asfissiante  burocrazia  ,   i centri  educativi     tipo oratori   o altro per  togliere  i  giovani dalla strada e  dall'illegalità. Ma  purtroppo  non sono solo pistole  vedi il caso di quella  ragazzina  doi  12  anni   del nord italia    che  ha  accoltellato  per  un  litigio    una compagna   di scuola . 

Andrea Picci
E sono questi gli eroi delle sinistre.
  • Giuseppe  Scano 
    ma perchè devi buttare in politica il disagio gioanile non ha partito ed ideologia politica . e ci coinvolge tutti nessuno escluso
 per  approfondire   l'argomento  neomelodici.  e  camorra  , ecc 

Eros Socal, il funerale all'alba del pasticcere (come voleva lui): «Così verrà solo solo chi ci tiene veramente»

E' stato celebrato oggi alle 6 del mattino, come da testuali volontà, l’addio a Eros Socal, il pasticcere di Possagno scomparso i giorni scorsi. Un orario particolare che lo stesso Eros aveva richiesto direttamente all’agenzia di pompe funebri. «Ogni giorno offriva loro il caffè e ricordava questa promessa». Che
pretendeva fosse mantenuta per almeno un paio di buone ragioni: la prima è che a un funerale all’alba viene solo chi ci tiene veramente e non solo chi si vuole far vedere di essere addolorato. L’altro motivo è che Eros Socal non voleva che il funerale costringesse i suoi cari o i suoi amici a prendersi un permesso da lavoro. «È un atto che lo descrive bene. Noi l’abbiamo scoperto pochi giorni fa» spiega Ermes, il suo unico figlio.
L’ATTIVITA’
Eros Socal ha sempre vissuto a Possagno. Papà Angelo era cresciuto in un ambiente contadino, ma aveva la passione del gelato. Così col tempo aveva fondato una pasticceria. Un interesse che aveva trasmesso a Eros. Con l’attività già avviata, aveva frequentato a Parigi dei corsi di aggiornamento. Una volta tornato aveva applicato ciò che aveva imparato, approfondendo la piccola pasticceria. Col tempo aveva dato vita alla ricetta della meringa perfetta, appresa a sua volta dalla pasticceria Scaramuncin di Bassano e poi personalizzata con una cremosità e un sapore unici. «Non esiste un ingrediente segreto: si tratta di piccole attenzioni e trucchi che altrimenti rovinerebbero la perfezione della meringa». Quel segreto ora è al sicuro, trasmesso al figlio Ermes, che fa tutt’altra professione, e alla gestione ormai ventennale della pasticceria Aurora, che mantiene la stessa ricetta. Lì Socal era solito salutare tutti con «Salve ragazzi» a prescindere dall’età degli avventori, che -considerata la vicinanza con il museo Canova- provenivano da ogni parte del mondo.

Video correlato: Eros Socal, il funerale all'alba in un affollato tempio del Canova: l'ultima volontà del pasticcere è stata rispettata (Il Messaggero)

LA PASSIONE

Ma Socal era anche un motociclista appassionato: amava solo i motori italiani e in particolare la Ducati e la Guzzi. «È stato tra i primi amatori, negli anni 70, a raggiungere Capo Nord con la moto. Ci raccontava che faceva freddo e per migliaia chilometri non trovavano anima viva» racconta la famiglia. Persino il viaggio di nozze l’aveva fatto in moto. «Eros era anche un nonno premuroso e attento, che accudiva spesso i due nipotini. In paese aveva avuto un ruolo nel consiglio pastorale e alle Opere Pie, ma aveva fatto parte anche della Protezione civile. «Un enorme dispiacere per tutta la comunità. Ci lascia una grande persona. Sempre schietto e diretto -lo ricorda il sindaco Valerio Favero- Il mio pensiero va alla moglie e al figlio Ermes, al quale mi lega una grande amicizia».

4.11.24

l'importante non è la vittoria ma l'arrivo . Mario Bollini, chi è l'italiano arrivato ultimo alla maratona di New York a 74 anni: «La prima volta ho partecipato nel 1985»

da  msn.it   

 Un altro grandissimo traguardo raggiunto da un atleta instancabile, che per decenni ha preso parte alla maratona di New York e anche quest'anno, all'età di 74 anni, ha accettato

questa sfida. Mario Bollini ha tagliato per ultimo il traguardo con un sorriso contagioso stampato sul viso, e al suo arrivo è stato festeggiato come un eterno campione: «Super Mario» è stato soprannominato nel post su Instagram che celebra il completamento della sua ennesima maratona.

Chi è Mario Bollini

Maresciallo dell’Aeronautica in pensione e anche maratoneta legato alla società Ecologica G di Giulianova (Teramo), da 37 anni partecipa alla corsa nella Grande Mela sorprendendo sempre tutti: «La prima volta è stata nel 1985 e ricordo che eravamo in “appena” 16 mila corridori e da allora non ho più smesso. Il motivo? È una maratona entusiasmante, molto diversa dalle altre, con la gente che ti incita quando passi e ti fa sentire un campione. E poi è una festa incredibile», ha detto il 74enne, come riportato dalla Gazzetta dello Sport.

L'ultima edizione della TCS New York City Marathon ha contato ben 54mila atleti, di cui 2.443 erano italiani, la nazione più rappresentata dopo, ovviamente, gli Stati Uniti.

Diario di Bordo n 84 anno III .Da vent’anni non usa l’auto ma solo la bicicletta Il 58enne Marco Tondelli da Novellara dimostra che non è impossibile.., Si travestono inscenando il rapimento di Aldo Moro: bufera a Bologna

Novellara Appendere le chiavi dell’auto…al chiodo. Il 58enne Marco Tondelli da Novellara dimostra che non è impossibile. E dà prova di questo tutti i giorni, recandosi al lavoro pedalando da Novellara al municipio di Rio Saliceto, dov’è consigliere comunale per Progetto Comune. Vent’anni fa Tondelli ha deciso di vivere senza usare la macchina. Una decisione che lo ha portato a intrecciare nuove amicizie, a osservare la vita con un nuovo punto di vista peculiare, oltre al rispetto per l’ambiente e la propria salute che questa scelta ha implicato. «Ho optato per la bici quando le mie bambine frequentavano la scuola materna e il nido – racconta Tondelli –. Un giorno mi sono chiesto: perché devo usare la macchina, un mezzo che inquina, mentre se mi sposto in bicicletta inquino meno e, nel frattempo, faccio esercizio fisico? Da allora pioggia e neve non mi hanno mai fermato: ho superato i 200mila chilometri sulle due ruote». La vita di Tondelli si è arricchita di aneddoti da quando ha deciso di lasciare a casa l’auto, nonostante, specifica, «io abbia persino la patente per guidare il camion». «Mi è capitato di bucare a San Faustino, vicino a Rubiera – aggiunge il consigliere comunale –. Mi sono fermato a casa di una famiglia, chiedendo la cortesia di poter gonfiare la ruota. Il giorno successivo sono ritornato per ringraziarli e portare un regalo al nipotino. Loro hanno contraccambiato donandomi delle pere. Sapevano l’orario al quale passavo e rimanevano fuori per salutarmi. Sono nate tante amicizie, in questo modo». Senza contare «i tanti portafogli e documenti che ho contribuito a restituire e agli incontri con gli animali».Fino a pochi mesi fa la sede del suo impiego era Correggio e in seguito Modena, dove Tondelli andava quattro volte al giorno sempre in bici. «Anche per partecipare alle riunioni e alle sedute del consiglio comunali uso sempre la bicicletta. Parto dall’idea che bisogna cambiare le cose per migliorarle e ognuno nel suo piccolo possa dare il suo contributo. Cosa posso fare io? Usare meno possibile la macchina. E questo faccio. Parto da casa, mi porto il cambio e in un attimo sono pronto». 


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  va bene    scherzare  ma l'ironia    la parodia  non dovrebbe    oltre  passare  il buon senso specie  se  tale fatto   riguarda  persone morte  .  Anch'io che usavo epiteti  su Berlusconi   dopo la  sua  morte  non gli uso più  . 



Ha scatenato un vero e proprio putiferio sui social e nel mondo della politica l'episodio avvenuto nel corso della notte di Halloween a Bologna, dove tre ragazze si sono mascherate ad hoc per inscenare il rapimento di Aldo Moro.
Una scena ricreata con dovizia di particolari, utilizzando pertanto sia la, purtroppo, celebre bandiera rossa con la stella e la scritta "Brigate Rosse" che una copia del giornale "Repubblica" in cui campeggia il titolo "Moro Rapito" (anziché "Moro assassinato?" come nello scatto originale), lo stesso quotidiano che l'allora presidente della Democrazia Cristiana stringeva tra le mani.
Incuranti delle conseguenze che la diffusione di un'immagine del genere avrebbe potuto provocare, le tre giovani non si sono fatte scrupolo a pubblicarla su Instagram. A quanto pare dallo sfondo, dal momento che alle spalle delle protagoniste della vicenda si intravede il Teatro Comunale di Bologna, la foto pare realizzata in via dei Bibiena, ovvero a breve distanza da piazzetta Marco Biagi e via Valdonica, laddove il giuslavorista venne assassinato dalle Nuove Brigate Rosse il 19 marzo 2002.Un elemento, questo, che ha sollevato lo sdegno innanzitutto di Giulio Venturi, consigliere comunale della Lega nonché nipote proprio di Marco Biagi."Non c’è nulla di più disgustoso e irritante della foto che ho visto oggi sui social", spiega ilpolitico del Carroccio, come riportato da IL Resto del Carlino, "tre ragazze in posa, due che sventolano la bandiera delle Brigate Rosse e un’altra al centro vestita da Aldo Moro". "Ma ciò che mi lascia davvero sconvolto e profondamente offeso è che queste giovani, presumibilmente studentesse, si siano prestate a una simile pagliacciata a pochi passi dal luogo in cui mio zio è stato assassinato 23 anni fa", prosegue Venturi."Un gesto insensibile, vile, di pessimo gusto e del tutto inaccettabile. Ogni estremismo, anche quello travestito da goliardia, va fermamente condannato", considera in conclusione,"il terrorismo non è un gioco e non c’è assolutamente nulla da ridere".A far sentire la propria voce anche il segretario della Lega bolognese Cristiano Di Martino: "Credo che queste tre persone vadano identificate ed indagate non si può essere così leggeri su un argomento come questo è uno schifo inaccettabile", ha scritto il rappresentante del Carroccio sul suo profilo Facebook.Il movimento civico "Una Bologna che cambia" ha rincarato la dose: "Bologna è una città talmente inclusiva che viene permesso alla gente di giare e fare selfie", scrive il comitato, "vedi quanto accaduto la notte di Halloween, con il drappo delle Br, simulando, anche se per gioco, il rapimento Moro". "Ci auguriamo che la questura e soprattutto il primo cittadino Lepore prendano posizione su quanto accaduto e puniscano gli artefici di questo sconsiderato gesto. Ubcc vigilerà su questa vicenda", conclude la nota.

3.11.24

le stranezze di chi si oppone a hallowen e al culto dei morti non cattolico ma pagano definendolo satanista \ demoniaco [ reprise ]

 leggi prima  

le stranezze di chi si oppone a hallowen e al culto dei morti non cattolico ma pagano definendolo satanista \ demoniaco
oppure  uno  dei post  recenti  merito alla  pacchianeria   di Haloween


 Apro l'email  e ricevo   questa  email  

 come se  credente  anche  se  in senso laico   . ma  poi  festeggi  Halloween  o  organizzi  iniziative  per  il  31  ottobre  e  1  novembre   come quello che ha fatto  con la  classe  76   comitato  per  la  festa   2025  di sant  isidoro  a settembre.

sfatiamo  uno stereotipo  della destra   pseudo sovranista e non solo  purtroppo che vede   e considera  Halloween    e le  feste dal  31  ottobre  al 2  novembre    con fastidio, più che con semplice indifferenza,


perché sentita come festa pagana e di importazione (  quelli  moderati  )  o demonica  (  quelli  più chiusi  e  più conservatori  )  .  Quando  invece  si  deve come fa notrare  uno  dei tanti     studi   :   https://www.ulisseonline.it/in-evidenza/halloween-festa-pagana-o-cristiana-origini-mito-tradizioni/ una  festa  di ritorno  .In  quanto  tali riti  imposti   in euroopa  tramite  Hollywod  erano staty  importati in  America  già  dalle  prime immigrazioni del  1600\1700  . Infatti   sempre  secondo il  sito  citato    nelle precedenti  righe  : <<   [... ]   Dopo questo excursus tra Gran Bretagna, Irlanda, Spagna, il resto è storia (quasi) dei giorni nostri. Dalla Gran Bretagna e dalla – cattolicissima – Irlanda, il Samhain già diventato Halloween, si diffuse, a partire dal 1500, nell’America del Nord, da dove oggi – ci lamentiamo – abbiamo importato la festa. Ma cos’è davvero Halloween negli Stati Uniti ?  [...] In generale, concludo “nessuno definisce Halloween come una festa che inneggia al demonio, è semplicemente un carnevale horror”. Questa atmosfera gioiosa, specie nei quartieri, mi è confermata anche da altri nostri concittadini che si trovano in USA, anche se qualcuno mi precisa che nella comunicazione scuola/famiglia, la scuola precisa che per i travestimenti la regola è “No swords, guns, or weapons” (“no spade, pistole, armi), dove il divieto riguarda non armi giocattolo, ma quelle vere, a testimonianza probabilmente di come il problema non sia Halloween ma altro. [...] >>Ritenendo di aver risposto alla  domanda  , con un altra   è conciliabile allora Halloween con la nostra tradizione cristiana cattolica? Vista l’evoluzione di questa festività e  la  presenza  accettata   dalla stessa  chiesa  cattolica   , di tradizioni   intrecciate con le tradizioni locali e le pratiche religiose  ricordo ancora che mia  nonna   materna   preparava la tavola la  per le  nime dei morti la  notte de  31  ottobre  ,  direi di SI    .  Infatti  Le origini di questa festa possono essere rintracciate in antiche celebrazioni legate al culto dei defunti, che si sono evolute nel corso dei secoli.  direi proprio di sì. Se ci sono luoghi in cui essa assume tratti satanici, la mia, seppur limitata, ricerca  ( non sono   un esperto   anche se  ho dato  esami  di storia  delle tradizioni    sarde e storia  elle religioni )  non è riuscita a trovarli, quindi mi sentirei di dire che quello che  :  la  stampa   e le    ultime  generazioni    chiamano  Halloween è soprattutto altro, la celebrazione di un periodo di passaggio che si lega a riti antichi fondendosi con la cristianità senza sbavature di sorta.  Sono solo i media   cioè cinema  ,  fumetti ,  ecc  che   ne riportano  l'aspetto   sovranaturale  o  per  parafrasare  i vecchi tromboni   demoniaco  .  Quindi  fatevenme  una  ragione   oppure  se  siete  coerenti  organizzate  un contro halloween  magari   facendo mascherare  i bambini   da  personaggi biblici  o religiosi    tipo angeli    e  santi  . Oppure  se  volte    rimanete  indifferente  ,  capita  anche  a me  infatti ero  uno di quelli non truccati   della  classe    che preparava   fritelle  e  dolci  ,  fatelo pure  nessuno vi obbliga  a  conformarvi ,  ma  almeno  non  rompete  i ..... giudicando eretici  e miscredenti    che  vuole  divertirsi  o  festeggiare secondo i  ritipagani   o  religiosità popolare  oppure    come  va  di moda     con un carnevale  horror 



2.11.24

diario di bordo n 84 anno III Infermiera tenta il suicidio sui binari del treno, il macchinista scende e la salva: «Oggi è mio marito e il padre dei miei figli»., «Io, operaia da 30 anni nella fabbrica di cioccolato, qui ho conosciuto anche mio marito. Ora la nostra vita è appesa a un filo»., La perdita di un figlio e la speranza: «L’amore è più forte della morte».,


L'amore arriva quando meno te lo aspetti, si dice. E lo può confermare Charlotte, che ha conosciuto il suo futuro marito sui binari del treno, in un momento particolarmente difficile della sua vita. La donna, un'infermiera di 33 anni, quella mattina voleva togliersi la vita a causa di diversi problemi di salute

mentale, tra cui un disturbo da stress post traumatico. Ma il macchinista si è fermato, è sceso, si è avvicinato e si è inginocchiato di fronte a lei. Poi le ha detto il suo nome, e ha chiesto quello di lei. Una scena che sembra provenire direttamente da un film. L'uomo è riuscito a placare la sofferenza di Charlotte e l'ha aiutata a rialzarsi, in tutti i sensi.
Il salvataggio e il matrimonio
«Trova qualcuno che ti guardi così, quando non te ne accorgi», scrive Charlotte Lay nella didascalia di una delle foto che la ritraggono assieme al marito il giorno delle nozze. Il loro amore è iniziato in un giorno nefasto, quando la donna ha agito d'impulso e mentre si stava dirigendo al lavoro si è seduta sui binari del treno, in attesa di essere colpita.
Ma alla guida di quel treno c'era Dave Lay, che è sceso e le ha tenuto compagnia per circa mezz'ora, riuscendo a calmarla, a guadagnare la sua fiducia e a farla salire a bordo. L'ha salutata alla stazione di Skipton, dove l'attendeva la polizia. Il giorno dopo Charlotte ha cercato quell'uomo su Facebook per ringraziarlo di ciò che aveva fatto, e i due hanno iniziato a scambiarsi messaggi, quasi ogni giorno.
Poi c'è stato il primo incontro faccia a faccia per un caffè. Il resto è storia: dopo tre anni si sono sposati, quando Charlotte era incinta del primo figlio. Ce ne sono stati altri due, da allora. La conversazione di quel giorno, da quello che ricordo, era sulle nostre vite, nulla di che, ma abbastanza per farmi superare il momento di crisi - racconta la donna -. Non sentivo più la vita così pesante», dice al Daily Mail.

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«Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena 18 anni, ero una ragazzina. Ho vissuto più di 30 anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo». Rossella Criseo è tra quei 115 lavoratori e lavoratrici che
non riescono a immaginare il proprio futuro anche solo tra qualche mese. L’azienda per cui lavora, la multinazionale svizzera del cioccolato Barry Callebaut, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, Verbano Cusio Ossola. «Da un giorno all’altro - dice -. A settembre ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso nel primo trimestre 2025. Poi la proprietà ha accettato di prolungare lo stop alla produzione al 30 giugno».
Ora si tenta la strada della reindustrializzazione, anche se l'azienda ha escluso l'apertura a eventuali competitor interessati. «Se non verrà trovato un acquirente? Anche mio marito è un dipendente, ci siamo conosciuti in reparto. Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo. I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere». Rossella Criseo, nella Rsu Cisl da tre anni, è entrata per la prima volta in stabilimento quando la proprietà era ancora del marchio Nestlé. Poi la chiusura nel 1999 e il salvataggio di Barry Callebaut, che ha permesso alla fabbrica di raggiungere i cento anni di produzione. «Un anniversario che avremmo festeggiato proprio quest’anno – dice -. Invece abbiamo davanti lo scenario più desolante possibile».
Criseo è cresciuta con il profumo di cioccolato sotto il naso, che ogni giorno avvolgeva lo stabilimento. «Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento. Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più, ennesima chiusura in un territorio che in passato, invece, aveva una vocazione industriale». Dopo l’incontro di ottobre al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (in cui è stata delineata la strada della reindustrializzazione) lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente. Giovedì 31 ottobre si è svolto l’incontro con la Regione Piemonte, dove il sindacato ha ribadito che sarebbe necessario aprire la possibilità di cessione a un competitor per facilitare il percorso di reindustrializzazione. Ci si aggiornerà nuovamente al prossimo tavolo, convocato per il 26 novembre.
Criseo, che ha partecipato ai comitati aziendali europei, racconta che l’intenzione di chiudere il sito di Intra non è mai stata manifestata: «La scorsa primavera abbiamo persino incontrato il direttore dell’area Sud Est Europa, Esteve Segura. Ci aveva rincuorato sul futuro di Intra. Nel 2024, oltretutto, abbiamo raggiunto volumi record chiudendo l’anno fiscale con oltre 67mila tonnellate». Cioccolato su cioccolato, quello liquido che nel reparto di Rossella Criseo si scarica dai serbatoi e si carica nelle cisterne per i clienti.
«Ci siamo sempre dati da fare, siamo stati disponibili a lavorare il sabato, la domenica, a fare le notti, a lavorare nei riposi compensativi. Siamo stati i primi in Italia a fare le “squadrette”, a lavorare 7 giorni su 7. E ora l’azienda ci ripaga così? Io, i miei colleghi e le mie colleghe, siamo delusi e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Di spostarsi non se ne parla, e neanche di cambiare settore dopo oltre 30 anni di lavoro

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«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».

«Sono l'ultima abitante del paese dove sono nata. Vivo all'antica, coi gatti, senza gas né elettrodomestici. Ma non mi sento sola»

Vive senza gas, elettrodomestici e soprattutto in  solitudine . È la storia di  Anna , ultima abitante del borgho di Mossale Superiore, in p...