compagni e compagne di strada e di viaggio ex compagni di viaggio ( splinder )
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
17.1.25
Scomparso vent'anni fa a Rimini, la madre lo ritrova in Veneto: «Non tornerà a casa, vuole vivere in strada»
Ha ritrovato il figlio scomparso dopo vent’anni di ricerche, quando negli ultimi tempi la speranza pareva affievolirsi sempre di più. E invece, il caso ha sorriso ad una 87enne riminese che ha potuto reincontrarlo all’inizio di gennaio: l’ultima volta che lo aveva visto aveva 30 anni ed era giovane. Oggi di anni lui, Stefano Zini, ne ha cinquanta
Ma è stato un sorriso amaro, quello della madre, che ha dovuto accettare, per il momento, la scelta del figlio, intransigente. «Non torno a casa ormai, questa è la mia vita». Lei, la signora Maria, vive a Rimini da tempo, ma Stefano lo ha ritrovato a Conegliano, in Veneto, la regione in cui il 50enne si sarebbe trasferito da tempo.
La denuncia di scomparsa era stata presentata solo nel 2022. Le generalità dell'uomo, corredate da qualche foto segnaletica scattata in diversi periodi della sua vita, erano quindi nei database delle forze dell’ordine. Per una casualità Zini era stato fermato da una pattuglia della polizia locale di Conegliano all'inizio di gennaio e aveva fornito i suoi documenti: tutto combaciava con l’identikit della persona scomparsa ricercata in Romagna, motivo per cui la madre è stata subito allertata.
La signora Maria è stata assistita nelle ricerche dall’associazione Penelope per la tutela delle persone scomparse e dei loro familiari, presieduta in Emilia-Romagna da Marisa Degli Angeli, nota non solo per il supporto fornito a numerosi familiari alla ricerca dei cari di cui non hanno più notizie, ma anche per un dramma vissuto in prima persona, la scomparsa misteriosa della figlia Cristina Golinucci nel lontano 1992.
«La storia di Stefano e Maria – racconta – è molto toccante. Anche drammatica, al di là del fatto che una madre e un figlio si sono ritrovati. Quando abbiamo avuto la segnalazione sul ritrovamento io e mio fratello Giuseppe ci siamo attivati subito. Io in quei giorni avevo incombenze urgenti da risolvere, qui a Cesena, mio fratello Giuseppe è partito con Maria per Conegliano».
Poi, l'incontro tra madre e figlio. «Quando si sono visti, Stefano quasi non l’aveva riconosciuta. Poi si sono per così dire, ritrovati, ma lui ha manifestato la decisione di continuare a vivere per strada». Clochard per scelta si direbbe. Degli Angeli quasi ogni giorno passa qualche minuto al telefono con l’87enne per sostenerla. «Sento spesso sua madre – continua – ed è molto provata. È molto triste ed è rimasta colpita dalle condizioni del figlio. Ha paura per il suo destino e anche per il suo stesso futuro, essendo molto anziana».
Già alla fine dello scorso anno, l’87enne aveva sperato di poter riabbracciare il figlio. Una dipendente di un supermercato di Gorizia aveva segnalato alle forze dell’ordine una persona che si aggirava spesso nei dintorni, e dai riscontri erano emerse presunte somiglianze con l'uomo scomparso. Anche in quel caso la donna aveva intrapreso un viaggio della speranza dalla Romagna verso il Nordest. Poi però, una volta incontrata la persona in questione, era emerso che non si trattava di Stefano Zini.
Il passato della famiglia del clochard è complesso da ricostruire, come quello di tanti nuclei familiari. Nessuno è in grado di spiegare che cosa abbia spinto il 50enne ad allontanarsi dalla Romagna nel 2004 per vivere in strada in un’altra regione. Si sa solo che all'inizio degli anni 2000 Stefano era stato ospitato in un istituto di Forlì, una piccola comunità, poco tempo prima di scomparire nel nulla.
La controversia sulla decisione di non vendere il libro do vanacci a Castelfranco Veneto
Nei giorni scorsi, la libreria Ubik di Castelfranco Veneto, gestita da Clara Abatangelo ( foto a sinistra ) è stata coinvolta in un episodio che ha sollevato ancora una volta , vedere il caso del 21016 quando Una libreria di Catania dice no al libro del figlio di Riina , interrogativi sulla libertà di espressione in Italia. Ad esso va aggiunto il fatto che la libraia ha ricevuto una lettera minatoria dopo aver rifiutato di vendere “Il mondo al contrario” di Roberto Vannacci, un libro che ha suscitato polemiche per i suoi contenuti controversi. Questo evento ha scatenato un’ondata di solidarietà da parte di lettori e colleghi, ma ha anche attirato critiche e attacchi da parte di chi sostiene che la libertà di espressione debba avere dei limiti.
Il libro di Vannacci, un ex generale dell’esercito italiano, è stato al centro di un acceso dibattito pubblico. Le sue affermazioni, considerate da molti come provocatorie e divisive, hanno portato a una reazione forte da parte di diverse associazioni e gruppi. La decisione di Abatangelo di non vendere il libro è stata interpretata da alcuni come un atto di censura, mentre altri la vedono come una scelta legittima di un’imprenditrice che non vuole promuovere contenuti che considera dannosi. Dimenticandosi che la libertà è
La reazione della comunità è stata immediata e variegata. Molti lettori e scrittori hanno espresso la loro solidarietà a Clara Abatangelo, sottolineando l’importanza di difendere la libertà di scelta e di espressione. Eventi di sostegno sono stati organizzati presso la libreria, trasformando il luogo in un simbolo di resistenza contro la censura. Tuttavia, ci sono anche voci critiche che avvertono del rischio di normalizzare la violenza verbale e le minacce nei confronti di chi esprime opinioni impopolari. Questo episodio ha messo in evidenza le tensioni esistenti nella società italiana riguardo alla libertà di espressione e al rispetto delle opinioni altrui.
Io invece penso , come il video sopra riportato , perchè come tu sei libero di : leggerlo , venderlo , ecc , io sono libero di fare il contrario a te leggerlo .. Inoltre tale decisione non solo che sia una sua libera scelta, di quelle che ogni libraio compie ogni giorno, ma anche, in questi tempi balordi, un piccolo grande atto di resistenza \ guerrglia contro culturale .
E le reazioni violentissime, le minacce, nei suoi confronti sono lì a dimostrarlo.
Social e dintorni Altro che censure, servirebbe una scuola che formi anche al Web
La censura, non solo dovrebbe essere evitata, ma sarebbe un rimedio inutile se l’istruzione si occupasse di fornire gli strumenti necessari alla comprensione della “società social”. Il ministero dell’istruzione – e non mi riferisco solo a quello attuale, prosaicamente definito “del merito” – già da diversi anni si sarebbe dovuto occupare del problema. Il punto è che per non affogare nel mare degli ipertesti, in cui le informazioni si moltiplicano rimpallando tra una pagina web e l’altra, qualcuno dovrebbe fornire agli studenti e alle famiglie una bussola per scegliere le fonti più attendibili e per comprendere ciò che leggono (non esattamente un comune testo). Il “qualcuno” a cui mi riferisco non è tanto l’insegnante che generalmente ha il buon cuore di segnalare ai suoi allievi il faro per non andare alla deriva, ma quello a sua volta formato pochi purtroppo in questo senso. Perché non pensare oltre ad aggiornare gli insegnanti a nuovi esami nel corso di laurea e di abilitazione e poi una nuova materia scolastica? Che so, si potrebbe chiamare "filologia del web”. La scuola dovrebbe servire a rendere le nuove generazioni consapevoli, individui che si fanno domande e non seguono anestetizzati le linee guida di un algoritmo. Grazie dell’attenzione e buon lavoro
Barbara
GENTILE BARBARA, la sua lettera ha il pregio di portare l’attenzione verso il nodo cruciale. La questione della censura dei social, il cosiddetto fact-checking, infatti, prescinde totalmente dal grado di consapevolezza della popolazione, dalla sua crescita culturale e dal discernimento necessario a non farsi abbindolare da notizie false. L’unico modo per fronteggiare un degrado della comunicazione, elemento prezioso per una “sfera pubblica”, è quello di essere dotati di conoscenze adeguate. La nostra scuola svolge sempre meno questo compito e le linee guida che il ministro Valditara ha appena reso note – poesie mandate a memoria e studio delle “saghe nordiche” – non fa certamente ben sperare.
16.1.25
La ragazza della palude (Where the Crawdads Sing)
Tratto , dicevamo , dall’omonimo bestseller di Delia Owens, pubblicato in Italia da Solferino, il film è un thriller drammatico diretto da Olivia Newman, già dietro la macchina da presa di serie tv come Chicago Fire e Fbi. Scritto da Lucy Alibar, è prodotto da Reese Witherspoon.
La quale, a proposito del successo inaspettato del film, ha dichiarato: «La ragazza della palude non era nei radar di molte persone, ma è un ritorno al vero cinema. È un’esperienza di cuore e anima su pellicola con bellissimi set e costumi e attori meravigliosi».Dopo la morte di Chase, Kya viene dunque accusata di omicidio, ma La ragazza della palude si conclude con la sua assoluzione. Anche se in realtà Kya nera innocente (come svela la spiegazione del finale fatta sempre da https://www.cinefilos.it/ ), è difficile non fare il tifo per lei dopo tutto quello che Chase le ha fatto passare. Il film intreccia dunque una storia complicata che potrebbe in un certo senso essere legata alla vita reale dell’autrice Delia Owens. Proprio come Kya, la Owens è infatti un’autrice che ha preso una tragedia e l’ha trasformata in qualcosa di più grande di lei. Anche se non è indispensabile per la visione del film, conoscere la storia vera che sembra aver ispirato questo racconto aggiunge un ulteriore livello alla trama.
La trama di “La ragazza della palude”
Barkley Cove, Carolina del Nord, ottobre 1969. Mentre la natura esplode i tutta la sua bellezza e varietà, due ragazzi si imbattono in una macabra scoperta nella palude fangosa: il corpo senza vita di Chase Andrews, il miglior quarterback che la città abbia mai avuto.Ma la colpevole perfetta è facile da individuare per gli abitanti della cittadina. Kya Clark è una giovane donna maltrattata, abbandonata e ostracizzata che sopravvive da sola dopo una vita di stenti e di angherie. Fin da quando è piccola su di lei girano voci atroci che l’hanno costretta, di fatto, a vivere isolata in mezzo alla natura. La ragazza della palude, la chiamano per schernirla. Ora, finalmente, l’ossessione degli abitanti della città si è trasformata in convinzione e 25 lunghi anni di odio e ostilità culminano nell’accusa più facile. Riuscirà questa volta Barkley Cove a essere giusta nei confronti della ragazza della palude?
Il trailer del film
Il cast di “La ragazza della palude”
Il cast è capitanato dall’attrice inglese Daisy Edgar-Jones, diventata una star mondiale grazie al fenomeno tv Normal People. E che ha lavorato duramente con una dialect coach per padroneggiare l’accento del sud degli Stati Uniti parlato dal suo personaggio, Kya. Un tipo di sforzo che noi non cogliamo perché i nostri film sono sempre doppiati.Accanto a lei due giovani attori in rampa di lancio. Il primo è l’americano Taylor John Smith, che interpreta Tate: si è fatto apprezzare nel ruolo di John Keene nella serie Sharp Objects e nel film Civil War (2024) accanto a Kirsten Dunst. L’altro è il britannico Harris Dickinson, che nello stesso anno è stato protagonista anche del film Palma d’oro a Cannes, Triangle of Sadness di Ruben Östlund e che è attualmente al cinema con Nicole Kidman nell’erotico e scandaloso Babygirl.Da segnalare la presenza del veterano David Strathairn nella parte dell’avvocato Tom Milton.
15.1.25
Lo scudo penale per la polizia e le chat degli agenti: «Basta indietreggiare, vogliamo mano libera contro i comunisti di m…»
occhio qui c'è aria di #golpe da parte delle #ForzeDellOrdine come nel lontano 1963 con il #generaledelorenzo
«Non ci fanno lavorare», dicono le forze dell'ordine. Che chiedono il «pugno duro» nei confronti di chi va in piazza. Le aggressioni e le critiche ai vertici. Fino al ministro
C’è chi vuole mano libera contro «i comunisti di merda». E chi dice che «non ci fanno lavorare». Mentre il governo Meloni lavora allo scudo penale per la polizia, per evitare l’indagine automatica nei confronti degli agenti in caso di fatti di piazza (ma anche di omicidio), le chat delle forze dell’ordine diventano bollenti. Le immagini di Bologna e Roma, con gli assalti alla polizia dei manifestanti per Ramy Elgaml, fanno rabbia: «Basta pagare di tasca nostra e basta indietreggiare! Contro la violenza pugno duro, regole chiare e certezza della pena!».
Pugno duro
A parlare delle chat di poliziotti e carabinieri è oggi il Fatto Quotidiano. Lo scudo penale riscuote grande successo, mentre i dubbi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella non vengono granché apprezzati. C’è chi se la prende con l’ex capo della polizia Franco Gabrielli, che ha criticato le modalità dell’inseguimento dei carabinieri nell’incidente che ha portato alla morte del 19enne egiziano. E c’è chi elogia il comandante dei carabinieri Salvatore Luongo e l’attuale capo della polizia Vittorio Pisani. I quali hanno sottolineato che «la libertà di manifestare è uno dei semi vitali della democrazia e abbiamo il dovere di garantirla». Prima di aggiungere che «i comportamenti illegali e violenti vanno perseguiti» e manifestare apprezzamento per «la compostezza e l’equilibrio» dei loro uomini.
Le aggressioni
Agenti e militari hanno ricevuto oggetti e petardi. Alcuni si sono fatti male. Non hanno indietreggiato ma non hanno nemmeno reagito. E questo adesso sembra essere l’errore contestato ai superiori. Ovvero quello di aver usato la mano leggera nei confronti dei manifestanti. Ovvero giovanissimi arrabbiati, in parte stranieri di seconda o terza generazione, organizzati in gruppi e collettivi studenteschi e non, senza punti di riferimento solidi nemmeno nei centri sociali, che rischiano le botte e i processi. Il rischio di incidenti gravi ora è dietro l’angolo. I poliziotti si lamentano perché ormai chiunque li riprende con il telefonino.
La dashcam
C’è anche chi contesta l’uso delle telecamere della gazzella che inseguiva Ramy. «Ho detto mille volte di non usarle quelle telecamere, non ce lo possiamo permettere», dice un esperto ufficiale dell’Arma. E c’è chi critica il ministro Matteo Piantedosi per la circolare ai prefetti che indica le zone rosse nelle grandi città. Ieri ha parlato uno dei poliziotti in servizio a Bologna: «Non ho mai visto una cosa del genere. Non ho mai visto tavoli di ferro, sedie, contro di me. Ho visto i miei colleghi feriti: uno con una spalla lussata, un altro con un dente rotto, un terzo che dall’alba di domenica sente un fischio nell’orecchio: un bombone gli è esploso sotto i piedi. A me hanno lanciato una bottiglia in faccia. Le immagini le avete viste tutti, ma credetemi: un conto è vederle, altro è starci in mezzo».
L’adrenalina
E ancora: «Avevo l’adrenalina a mille… Non sono neanche riuscito a dormire dopo aver “staccato”. Per inciso: ho staccato alle quattro del mattino. Avevo preso servizio alle 18 del giorno precedente, quando era iniziato il corteo da piazza Maggiore». Difficile dimenticare: «Sono ancora, come posso dire, disturbato. Ho ammaccature ovunque. E devo continuare a lavorare, scrivere decine di carte. Perché il nostro lavoro è questo. Ma c’è un limite a tutto. Nel senso: fate qualcosa, altrimenti ci ammazza
Giovanni Damiano ucciso perché smascherò i «baroni» della medicina che volevano pagamenti illeciti: l'omaggio all'eroe sconosciuto
Se volete solo ergastoli cambiate la Costituzione
premetto che Facci non mi piace per niente ma qui ha fatto un ottima provocazione contro quelli che dicono che l'ergastolo è disumano sia quelli che avendo scarsa o nessuna della sistema legislativo italiano ( qui possiamo colmare le lacune ) non esiste , perchè si è subito liberi .
Questa classe politica e questo Paese dovrebbero decidere, una volta per tutte, se vogliono mantenere l'articolo 27 della Costituzione oppure no. Non c'è retorica nel chiederlo, dovrebbero decidere e basta, e lo si scrive, ora, a margine dell'indignazione bipartisan che ha accompagnato la condanna «solo» a 30 anni e quindi non all'ergastolo per Salvatore Montefusco (nella foto), autore del duplice omicidio di due donne (sua moglie e la figlia di lei) con motivazioni «choc» ritenute «offensive» o addirittura «un vulnus nelle fondamenta che
reggono il nostro ordinamento». Questo, praticamente, a opinione dell'intero arco parlamentare: e ci limitiamo a citare il ministro Eugenia Roccella, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini di Noi moderati, Laura Ravetto della Lega, Maria Elena Boschi di Italia viva, Valeria Valente del Partito democratico, Marilena Grassadonia di Alleanza verdi e sinistra e, infine, Carolina Morace dei Cinque Stelle: otto donne, e sia detto che c'è qualcosa di culturalmente stucchevole nel fatto che a parlare siano state solo loro, e non, significativamente, degli uomini: decida il lettore se c'è un errore da qualche parte, se ci sia un troppo il silenzio oppure, dall'altra, una forma di sindacalismo che impone di dover dire qualcosa a tutti i costi.Ricominciamo da capo. In Italia, una condanna a 30 anni oppure a un ergastolo ordinario corrispondono quasi alla stessa cosa, visto che l'ergastolo corrisponde proprio a 30 anni di carcere (e non a «fine pena mai») in virtù dell'articolo 27 della Costituzione secondo il quale la pena «deve tendere alla rieducazione del condannato». Non piace? Basta cambiare l'articolo 27. In entrambi i casi, 30 anni o ergastolo, si prevede che il detenuto lascerà il carcere con anticipo e questo per via delle varie buone condotte, semilibertà, condizionali e permessi premio che a loro volta sono inseriti nel solco dell'articolo 27 della Costituzione, che beninteso, basta cambiarlo. Stiamo dicendo, non fosse chiaro, che prendersi l'ergastolo oppure 30 anni in pratica è la stessa cosa, soprattutto se di anni se ne hanno 72 come il condannato per duplice omicidio: il quale, bene che vada, dovrebbe uscire di galera poco meno che centenne. Non solo: è un assassino che era incensurato, che ha confessato e che ha avuto un certo contegno processuale: e questa, per i codici, è sostanza, non parole, non fanno parte di un giudizio morale come quello emesso in coro sulla sentenza: poi possono non piacerne le motivazioni, o il modo in cui sono state scritte, ma non c'è decisione o condanna che nei tribunali non corrisponda a una regola, a un comma, a un'attenuante o a un'aggravante o a un'esimente; la legge è questa cosa qui, non è qualcosa che debba corrispondere alla «evoluzione culturale necessaria» come ha detto forse la più autorevole delle commentatrici citate, secondo la quale serve una lotta contro «la cultura patriarcale». Le sentenze non devono essere educative: sono le pene che devono esserlo, e se non piace (o non funziona) basta cambiare l'articolo 27 e trasformare la funzione del carcere in «retributiva», com'è negli Stati Uniti, dove non ha senso prevedere indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari: ma basta dirlo, e allora ditelo. La nostra legge e la nostra Costituzione (sempre lui, l'articolo 27) dicono che il carcere sarebbe teso a scoraggiare le recidive, cioè a convincere che di delinquere non valga la pena: se non piace, basta trasformare la galera in una punizione o in un impedimento fisico a delinquere (all'americana, appunto) e farla finita con indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari, e non si deve andare per il sottile neanche con le perizie psichiatriche. Infine, a proposito di arretramenti o progressi culturali, va fatto sull'espressione «femminicidio»; se andate su un qualsiasi motore di ricerca, scoprirete che un sacco di gente si chiede a quanto ammonti la pena per femminicidio: considerarla una battaglia vinta, beninteso solo «culturale». Perché, nella realtà, l'assassinio di una donna è punito come l'assassinio di un uomo: articolo 575 del Codice. Anche qui: se non piace (come non piacque a una parlamentare di centrodestra, che per il femminicidio propose l'ergastolo) allora da capo: basta cambiare la Costituzione. Ma ditelo. Fatelo. A voi la palla.
e soprattutto per i non iscritti ai partiti organizzatevi una raccolta di firme referendaria .
14.1.25
L’Amore rimosso. Arte e omosessualità di ©️ Cristian A. Porcino Ferrara
premetto che ho visto solo primi 15 minuti la fiction di leopardi poi , l'ho abbandonata perché mi stava annoiando . Però da quel poco che ne ho visto concordo con l'amico e e compagnodistrada Cristian Porcino Ferrara . Il problema da lui evidenziato nell'articolo sotto riportato può e dev'essere esteso alla letteratura
da Le Recensioni del Filosofo Impertinente
La Storia dell'arte non è purtroppo immune a riscritture postume.
Riscontro un destino quasi comune nelle biografie di due dei suoi più importanti esponenti: Michelangelo Merisi detto il Caravaggio e Michelangelo Buonarroti. Intorno a Caravaggio sono state create diverse sceneggiature di film e fiction quasi tutte improntate a sottolineare l'eterosessualità del Merisi. Sono stato sempre dell'avviso che se si vuole raccontare la vita di un artista non bisogna omettere la sua vita privata ma la censura scatta solo e soltanto quando si tratta di artisti omosessuali.
Si tenta di scovare tracce inesistenti di cosiddetta "normalità" per sgomberare il campo dall'idea di ammirare, celebrare e studiare un genio "non normale". Nel 2025 certa stupida umanità organizza e classifica ancora il mondo e gli homo sapiens con concetti inutili e fuorvianti.
Provate a guardare alcuni film su Caravaggio e noterete lo stesso livellamento eterosessualista. Unica eccezione il capolavoro cinematografico di Derek Jarman che ovviamente i più sconoscono perché fin troppo esplicito sull'argomento.
Questa censura ovviamente accade in tutti i campi dell'arte e di questo ho scritto anche nel mio libro Sulle tracce dell'altrove.
(...)
Perfino nelle mostre troviamo didascalie farlocche che ci dipingono l'artista tormentato per delle donzelle di cui l'illustre soggetto si era perdutamente innamorato. Della vita sessuale o sentimentale di Merisi ben poco sappiamo ma allora perché non tacere del tutto anziché ritrarlo come il solito tombeur de femmes? Per tollerare la sua attrazione verso gli uomini lo si deve necessariamente ritrarlo come bisessuale.
Questo è il compromesso a ribasso per renderlo più accettabile agli occhi dei più.
In quanto insegnante mi domando se siamo certi di voler censurare e trasmettere contenuti distorti ai nostri discenti solo per compiacere perbenisti stupidi e omofobi che della verità e del Sapere se ne infischiano bellamente.
Pensiamo a Michelangelo Buonarroti che amò Tommaso de' Cavalieri e a cui dedicò alcuni versi a sfondo erotico. Per molti storici risulta difficile immaginare un genio dell'arte mondiale cimentarsi in opere poetiche e pittoriche ispirate e dedicate ad un uomo. L'omosessualità, ovviamente, non è contemplata. In linea con il diktat voluto dai nostalgici del ventennio bisogna raccontare dell'amore michelangiolesco per Vittoria Colonna mai esistito.
Per lui si invocano prove che a parere di alcuni non ci sono ma che ovviamente servono solo per certificare la sua non omosessualità e non la sua presunta eterosessualità. Per quella non servono prove perché data per scontata. Michelangelo era amico di Vittoria e con lei condivideva un'affinità elettiva che non sfociava di certo nell'erotismo né tantomeno nel sentimento amoroso.
Il simbolismo michelangiolesco è evidente. Se sì guardano con attenzione le sue opere scorgiamo che quasi ogni donna dipinta o scolpita ha i tratti maschili e non quelli tipicamente femminili. Questo non ha nulla a che vedere con le stupidaggini che tentano di etichettare Michelangelo come machista e maschilista. (...)
Senza scomodare Freud che lo analizzò e studiò a fondo è più che evidente che il genio fiorentino per tutta la vita ricercò tracce maschili in ogni cosa da lui raffigurata. (...)
Si cerca di rimuovere infatti che Buonarroti si formò presso Marsilio Ficino, filosofo omosessuale, e che ebbe diversi relazioni con uomini da lui stesso citati: Gherardo Perini, Giovanni da Pistoia, Pietro Urbano, Antonio Mini, Luigi Pulci jr, Benedetto Varchi, Giovannangelo detto "il Montorsoli", Febo dal Poggio, Cecchino Bracci, Francesco Amadori detto l'Urbinate.
[...]
Ma questa sorte o mistificazione tocca ancora oggi anche a Giacomo Leopardi. Dopo la recente fiction Rai che ha riaperto il dibattito sull'orientamento sentimentale del poeta di Recanati è bastata la dichiarazione del regista Sergio Rubini per smorzare l'entusiasmo.
Quest'ultimo ha dichiarato a Tvblog.it: "Non penso che Leopardi fosse omosessuale. Amava profondamente le donne: c’è agli atti il fatto che avesse molta difficoltà ad esprimere i suoi sentimenti verso Fanny e faceva delle ‘prove’ usando Ranieri. L’ho fatto anche io da giovane. Non abbiamo voluto raccontare nessuna deviazione, ma un’amicizia profonda che sfocia sì in un bacio, ma è il bacio che è Leopardi vorrebbe fare a Fanny”.
L'opera d'arte non ha genere o orientamenti sessuali ma gli artisti e le artiste sì. Purtroppo a noi si chiede sempre una prova tangibile dei nostri sentimenti quasi a doverci scusare della nostra esistenza.
Un Leopardi omosessuale, secondo l'opinione di qualcuno, lo renderebbe meno ammirabile scolasticamente o forse impegnato in una fantomatica teoria gender per indottrinare i nostri allievi. Meglio continuare con la commedia ad uso e consumo dei conservatori. Se tutt’oggi ci spaventa o crea imbarazzo affrontare in classe il racconto dell'Amore tra Achille e Patroclo figuriamoci la storia tra Leopardi e Ranieri. L’11 dicembre 1832 Giacomo Leopardi scriveva così all’ “amico”: «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai per' mai, n' ti raffredderai nel'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima 'ogni cosa al tuo benessere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo 'uno per 'altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sar' eternamente tuo».
In conclusione vi consiglio di soffermarvi su queste frasi senza aggiungere null’altro se non un’altra frase del Nostro: “Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quelle che invidia”.
©️ Cristian A. Porcino Ferrara
13.1.25
INCHIESTA mafia ed eloico sardo 3 puntata Vento di infiltrazioni, intercettazioni & pizzini Guerra di ‘ndrangheta per la spartizione dei trasporti, coinvolta l’impresa delle notti nel porto di Oristano
puntate precedenti
https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2025/01/ndrangheta-storie-pericolose-di.html
CRONACA SARDEGNA INCHIESTA 3 puntata
unione sarda 13 gennaio 2025 alle 14:10
Mauro Pili
Vento di infiltrazioni, intercettazioni & pizzini Guerra di ‘ndrangheta per la spartizione dei trasporti, coinvolta l’impresa delle notti nel porto di OristanoLe parole sono testuali, strappate ai muri di cemento armato blindato in una cella arsa dal caldo afoso del carcere di Opera, estrema periferia sud di Milano. Lì, in quel camminamento d’aria, non soffia nemmeno un filo di vento. Pareti grigio-topo, destinate a togliere il respiro anche all’ultimo dei boss, quello più cruento della storia di mafia. Le microspie ambientali lo assediano, come se gli avessero conficcato un microchip sottocutaneo. Registrano ogni respiro nel quartier generale dei capimafia confinati nella periferia della Padania. È il 30 agosto del 2013.
Capo dei capi
Chi striscia i piedi in quel quadrante apparentemente d’aria è nientemeno che il Capo dei capi, «la belva», quel Salvatore Totò Riina, capace di schiacciare un pulsante maledetto con l’inpunt di un “pizzino”. Le stragi di Capaci e via D’Amelio, quelle che uccidono Falcone e Borsellino, sono l’epitaffio della sua carriera criminale. In quel “passeggio” lo ascoltano in molti: c’è Alberto Lorusso, compagno di passi nel bunker di Opera e soprattutto loro, le cimici digitali. È il Padrino in persona che racconta del “picciotto” che in molti immaginano come suo erede: Matteo Messina Denaro, il figlio di «Zuù Cicciu». Parla colorito e non usa il bon ton per descrivere il suo allievo-traditore, Messina Denaro, colui che si era ribellato agli ordini del Capo dei capi.
Pali della luce
Nel passeggio-confessionale Riina racconta: «Questo qua, (Matteo Messina Denaro n.d.r.) questo figlio che lo dà a me per farne.., per farne quello che doveva fare, è stato quattro cinque anni con me, andava bene. Minchia… , poi si è messo la pala della luce, la pala della luce in tutti i posti pale ‘e luce. Ed è finita.., ed è finita! Ed è finita! È finita la luce…». È il passaggio più violento del distacco tra il Capo dei Capi e il suo successore mai riconosciuto. Tradimento senza appello, scolpito sull’altare più alto, quello del "disonore” dei Capimafia. Quelle “pale ‘e luce” nient’altro sono che pale eoliche, le stesse che hanno rimpiazzato il business di mafia in ogni nuova “terra promessa”, Sardegna compresa.
La svolta eolica
È duplice il tradimento che la “Belva” rimprovera a Matteo Messina Denaro: essersi messo in contrasto con altri “uomini d’onore” e perseguire affari che esulano totalmente dalla storia criminale della mafia. A “U‘Siccu”, il nome in codice di Denaro, Riina non gli perdona di essersi buttato a capofitto sull’affare eolico trasformando “Cosa Nostra” in una Società per azioni per vento e affari. A verbalizzare e tradurre le parole di Riina è Salvatore Bonferraro, sostituto commissario di polizia: «Riina aveva confidato al suo compagno di detenzione la propria disillusione per il comportamento tenuto dal Matteo Messina Denaro il quale, pur avendo delle ottime “qualità criminali”, essendo stato “istruito” proprio dal Riina non aveva interamente messo a frutto gli insegnamenti ricevuti, preferendo dedicarsi al settore eolico (“pali della luce"), restandosene al sicuro all'estero con la fidanzata».
Vento sul maxi processo
I verbali del maxi processo Stato-Mafia hanno un capitolo tutto dedicato al vento: «Il signor Messina a cui faceva (Riina) riferimento era sicuramente Messina Denaro Matteo. La vicenda a cui si riferiva era legata alle pale eoliche. Lui in quel periodo, sia il Messina Denaro, unitamente a Vito Nicastri, soprannominato il re dell’eolico in Sicilia, si stavano interessando della zona in special modo del trapanese, per mettere dell’eolico. E quindi la vicenda a cui si riferivano era proprio questa delle pale eoliche, e il soggetto appunto era Messina Denaro Matteo».
Elettricista di M. Denaro
L’uomo dell’antimafia circoscrive fatti, uomini e stati d’animo: «In questa circostanza il Riina era molto adirato, anche nei confronti di Messina Denaro Matteo, perché lui in quel momento, ecco, a dire di Riina si stava impegnando principalmente in attività economiche… eolico…». Il pubblico ministero non lascia la presa: «C’era un tale Nicastri in qualità di prestanome nel settore dell’eolico?». L’ispettore è categorico: «Sì, è stato arrestato in qualità di prestanome di Matteo Messina Denaro». È un cambio radicale del paradigma mafioso: l’addio alla stagione stragista di Riina, il tradimento del codice di Cosa Nostra e, soprattutto, la svolta eolica, la nuova frontiera degli affari di U’Siccu. È sul vento, da Trapani a Ploaghe, nel nord dell’Isola di Sardegna, che gli affari di mafia si moltiplicano nel nome di Cosa Nostra. Quello di Matteo Messina Denaro è il primo vero sbarco eolico-criminale nella terra dei Nuraghi, ritenuta erroneamente inespugnabile.
Ciancimino a Is Arenas
Le sequenze di mafia e le infiltrazioni, poi, si moltiplicano da nord a sud dell’Isola: dai denari di Vito Ciancimino, scovati nel 2009 nelle pieghe delle società offshore pronte a gestire lo sbarco eolico, sventato, nel mare della costa oristanese, davanti a S’Archittu sino al rischio di possibili infiltrazioni all’interno della «Eolo Tempio Pausania srl per la ritenuta comunanza di interessi tra questa e Vito Nicastri, contiguo ad ambienti mafiosi». Gli uomini della Dia avevano accertato che in precedenza «il socio unico della Eolo Tempio Pausania di Verona risultava essere un’impresa con sede all’estero».Da Tempio a Barumini
Per i magistrati altro non era che «un complesso intreccio di vicende societarie, facenti capo a Veronagest e riconducibili in ultima analisi alla stessa figura del Nicastri». Un pericolo infiltrazioni inquietante capace di sbarcare sino alla Reggia Nuragica di Barumini. È nei progetti eolici che la vorrebbero circondare, infatti, che compaiono nomi altisonanti legati a questa storia.
Volo pesante
Il tutto riconducibile agli atti della Procura antimafia di Palermo dai quali emerge un volo su un jet privato per Tunisi con a bordo una compagnia “pesante”: Gioacchino Lo Presti di Alcamo (indagato tra le altre cose per aver favorito la latitanza di Alessandro Gambino), dello stesso Vito Nicastri e Filippo Inzerillo. Con loro anche l’uomo che risulta essere coinvolto nei progetti eolici da piazzare davanti alla Reggia nuragica di Barumini.
Allarme rosso
Storie inquietanti che da sole dissolvono l’idea di una terra inespugnabile, capace di respingere ogni incursione criminale. Così non è stato, così non è. Lo raccontano i fatti, le prove, le inchieste delle Procure e i processi. Tutte ragioni che dovrebbero indurre ad alzare, senza tergiversare un solo attimo, il livello di attenzione e di allarme, considerato che l’Isola è letteralmente sotto attacco. Quei progetti per innalzare in Sardegna 3.000 pale eoliche terrestri, trasformando la terra dei Nuraghi in un’immensa zona industriale, dovrebbero già di per sè imporre monitoraggi serrati e senza omissioni.
“Circo” eolico
A partire da quanto avviene da mesi nelle strade sarde, divelte senza regole, chiuse e protette dallo Stato per far passare le colonne marcianti del grande “circo” del vento. Lo abbiamo scritto nelle precedenti puntate: mezzi ciclopi carichi di gigantesche pale eoliche scortati dagli apparati statali, ma dichiaratamente, e scandalosamente, senza autorizzazioni multiple come si evince dai documenti allegati nei provvedimenti di chiusura delle strade. Identificazione senza appello per chiunque tenti di manifestare la propria contrarietà allo sfregio dell’Isola, ma silenzi strabici per chi, venuto da oltre Tirreno, imperversa senza un minimo controllo alla guida di quei bisonti eolici della strada.
Indignazione
E non può non destare quantomeno sorpresa, se non indignazione, il fatto che si stesse facendo passare nel silenzio assoluto la storia recente della ditta venuta da lontano chiamata a svolgere i trasporti delle pale per il parco eolico di Santu Miali alle pendici del Monte Linas, nel territorio di Villacidro, e di Domusnovas, davanti al Marganai.
Carte processuali
In migliaia di pagine processuali, comprese le sentenze della Cassazione di questi ultimi mesi, si possono leggere stralci giudiziari da far rabbrividire: «Per come emerso, all’epoca dei fatti, Di Palma Riccardo, insieme al defunto fratello Antonio, amministrava La Molisana Trasporti S.r.l. (la società che gestisce i trasporti delle pale per Villacidro e Domusnovas n.d.r.), svolgendo un ruolo operativo, che ne implicava la frequente presenza nei cantieri e la pragmatica gestione dell'attività di trasporti. La sua responsabilità, in termini di compartecipazione morale agli atti estorsivi e di illecita concorrenza posti materialmente in essere da Evalto e da Trapasso (Giovanni, capo del clan n.d.r.) nei confronti di Runco Carlo, emerge dalla serrata serie di intercettazioni, di epoca antecedente, contemporanea e successiva a quanto occorso, che lo ha visto co-protagonista, insieme all'Evalto, delle vicende per cui è causa, tanto che egli viene menzionato quale sostanziale "referente" dell'affare anche nelle conversazioni intercorse tra Evalto ed il fratello Antonio».
Accordi con ‘ndrine
I giudici lo scrivono espressamente: «Da quanto si evince, infatti, le strategie illecite di Evalto per dare concreta esecuzione a quanto deciso dagli "ingegneri" (il nomignolo dei boss) e per imporsi quale competitor nell'ambito dei trasporti del Parco Eolico Vestas, aggirando norme, rapporti contrattuali in essere ed in generale qualsivoglia tipo di ostacolo, venivano concordate con Di Palma Riccardo…».
Matrimonio per pochi
La sentenza del Tribunale di Crotone racconta e conferma: «Sulla perfetta conoscenza da parte del Di Palma dell'appartenenza di Evalto alla 'ndrina Mancuso e del rapporto di quest'ultimo con "l'ingegnere di Cutro", Trapasso Giovanni, non vi possono essere dubbi, in quanto in numerose delle conversazioni, sopra citate e riportate, l'Evalto faceva riferimento ad incontri avuti con entrambi gli "ingegneri" ed alle direttive ed indicazioni ricevute da costoro. Non bisogna, altresì, trascurare - ad ulteriore conferma dello stretto legame Evalto-Di Palma-cosche 'ndranghetiste - in primo luogo, che Evalto Giuseppe e Di Palma Riccardo, in data 16.06.2012, si recavano insieme, con l'auto aziendale intestata a La Molisana S.r.l. al matrimonio di Trapasso Leonardo, figlio dell'ingegnere", evento a cui certo non era invitato chiunque, ma solo persone vicine al Trapasso». Ora, con il silenzio di molti, la “Molisana Trasporti srl” trasporta, con la scorta dello Stato, le pale eoliche in terra sarda.
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