“Più numerosi adesso che nei primi secoli del cristianesimo”: così papa Francesco nel commentare l’impressionante numero di testimoni immolati per la loro fede. Li hanno uccisi l’odio, il razzismo, l’intolleranza. Ma anche l’indifferenza: la nostra, in primo luogo; e il pensiero va immediatamente alle vite spente in quell’immensa bara d’acqua in cui s’è trasformato l’antico “Mare Nostrum”. Testimoni (martiri) inconsapevoli ma non meno autentici, a qualsiasi credo appartenessero, cui è stata negato, da subito, l’elementare diritto a vivere.
Testimoni comunque, perché gloria di Dio è l’uomo. Un movimento ascensionale, che parte dalla terra per giungere al cielo, ma non rinnega, anzi, motiva e dà pregnanza alla prima. Qualsiasi sfregio all’umanità, a quella concreta di ossa e carne, è sfregio al Creatore.
I testimoni (martiri) non sono uomini e donne scarnificati; divengono anzi più tangibili e fattuali. È l’agire che conferisce loro una circolare pienezza; la coscienza d’essere cellula, grumo, inizio, li eleva dall’esistenza biologica ma non ne prescinde.
È quanto accaduto a Jamal Rahman, migrante etiope, anch’egli in viaggio alla ricerca d’uno straccio di lavoro e dignità. Solo che la sua testimonianza s’è rivelata tutt’altro che inconsapevole. Forse per il suo nome: rahman significa misericordioso. Il suo viaggio della speranza, o della disperazione, è durato pochissimo. Non in una carretta del mare, bensì in spiaggia. Un’altra spiaggia fatale, dantesca. Dove in Quaresima vennero trucidati ventun operai copti e in questa Pasqua di sangue altri ventotto cristiani, etiopi ed eritrei. Anch’essi catturati dall’Isis, anch’essi sgozzati.
Ma Jamal non era cristiano.
Lui avrebbe potuto salvarsi. Secondo fonti jihadiste, “…il musulmano Jamal «follemente» si sarebbe offerto come ostaggio, per solidarietà verso l’amico cristiano con cui stava compiendo il viaggio”. E in quel preciso momento ha smesso d’essere Jamal l’emigrante per entrare nell’immenso quadro della storia eterna. L’ha decretato quella “lucida follia” che ha restituito alle antiche frasi di San Paolo una rocciosa, perenne attualità: “È piaciuto a Dio di salvarci con la croce di Cristo…, follia per i pagani”. La croce di Jamal è stata la lama che gli ha squarciato il collo; trasformatasi in croce simbolica, è ora, per chi crede, strumento di salvezza.
Jamal ha raggiunto Dio compiendo l’atto più naturalmente umano: dare la vita per i propri amici. Anche qui la Scrittura è esplicita: non v’è amore più grande. L’eccesso d’umanità sfocia nel divino. Senza cancellare la singolarità d’ognuno. Jamal ha compiuto un gesto autenticamente cristiano ma anche totalmente musulmano. Della sua religione ha saputo cogliere il nocciolo fondamentale, l’amore per il prossimo. Lo stesso del cristianesimo, dell’ebraismo, del buddismo e di ogni altro modo in cui s’invoca Dio sulla Terra.
Multiformità, non irenismo. Diversità, non omologazione. Creatività, non ordine costituito. Dio non si può incasellare. Non discrimina. Non impone. Si fa umile.
Questa è, propriamente, stoltezza e follia per i pagani, che piegano la religione alle loro velleità terrene. Il video in cui appare un istante prima della morte, incorniciato e marchiato come un apostata, è il più clamoroso atto di auto-accusa mai compiuto dagli assassini. Esso mostra senza possibilità d’equivoco che il vero musulmano (cristiano, ebreo, buddista…) è lui, Jamal; e pagani gli altri, i fondamentalisti. Privi già di testa, perché senza cuore.
La testimonianza di Jamal vanifica pure le tesi dei razzisti di casa nostra, degli epigoni fallaciani per cui l’Islam autentico sarebbe brutale e violento. No, il vero Islam è quello di Jamal Rahman, di Mahmoud Al 'Asali, il docente iracheno morto la scorsa estate per difendere i concittadini cristiani, e di molti altri, presenti e passati. Il vero Islam è l’induismo di Gandhi, il cristianesimo di Edith Stein e di Dietrich Bonhoeffer, l’ebraismo di Janusz Korczak… e potremmo continuare all’infinito.
Sì, i martiri sono assai più numerosi oggi che nei secoli passati; e si stagliano adamantini nella loro semplicità. Essi sperano nella vita futura; non la loro, la nostra. È per noi ch’essi percorrono le strade del mondo. Per noi si fanno cibo; e guai se lo disdegniamo o, peggio, lo sprechiamo.
© Daniela Tuscano
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