Scorro il silenzio delle vecchie immagini, al Museo del Risorgimento, dedicate a "La Nebbiosa", il film mai girato di Pier Paolo Pasolini su Milano. E, come tanti, mi chiedo: perché non c'è riuscito? Non l'amava? È un luogo comune duro a morire, avverte la guida. Eppure, di quella sceneggiatura, sono rimaste solo pagine sparse. Pagine belle: alcune, magnifiche. Ciò che maggiormente colpisce è il riferimento ossessivo alla luce.
Forse, l'aspetto di Milano più caratteristico. Ma - attenzione - si tratta pur sempre della luce d'una Nebbiosa. Luce avvolta, soffocata, che si fa largo, ed esplode, in violenti bagliori. C'è ghiaccio in quella luce, o forse nemmeno: non vi si trova natura, né umanità. Roma è sempre ritratta d'estate, Milano accoglie il poeta coi suoi inverni, stagioni oggi scomparse, come la nebbia dileguatasi al largo, ostaggio di rade periferie o signora, incontrastata, delle campagne. Eppure, il sole esiste anche a Milano, impigrito e canagliesco, e sa essere duro, umido e repulsivo. È un sole sensuale, di macchia, ma a PPP si nega; infatti, egli vi preferisce la notte. Una notte di cui crede di svelare i segreti. Ma la notte di Milano non è uniforme. Milano è una totalità frastagliata. Non si risolve in una rapina o in uno stupro, non nella marginalità dei teddy boys, non nei fianchi delle magnifiche borghesi cotonate da vezzi di perle (così lontane dal generone romano!), non negli sterri diMetanopoli né nelle coppie attempate del centro, lei dai capelli a fil di ferro, lui prossimo all'infarto. Milano: è tutto questo, ma anche di più. Forse - caso più unico che raro - può essere descritta solo da chi ci vive e la vive. Perché Milano, anche quando coinvolge, sa mantenere le distanze. È ancor nebbiosa, non climaticamente, ma nel cuore. Perciò appare, lei - o lui, in dialetto è maschile - la città più europea d'Italia, e anche la più araba: cosmopolita e velata. Attuffata. Non si concede facilmente nemmeno a un occhio dolce e indagatore. La Milano marginale e periferica aveva già il suo cantore, Giovanni Testori da Novate. E già il suo cattolicesimo: pur'esso, impossibile da ritrarre. Ampio. Roma era il barocco, il Concilio di Trento: quello e null'altro. Ma Milano... Milano era la fabbrica del Duomo, un gotico fiammeggiante e operoso.
Con quel suo rito mezzo bizantino, Milano era - ed è - Ambrogio, i Borromeo, il Martini innamorato di Gerusalemme. Non Alessandro Farnese. Come la città, come le sue guglie, sale. E si distende. Il cattolicesimo ambrosiano è locale ma non territoriale. Ha vocazione planetaria. Manzoni l'ha rivelato. Solo qui percorri un nastro d'asfalto, fra dirupi di grattacieli senza cielo, e all'angolo vedi una sagoma umana, rattrappita, e sei in Occidente e in Palestina. Anche la miseria è così universale. Quel cattolicesimo invena lo spirito del cittadino, non ne vellica la pagana, mediterranea rassegnazione. La teppa milanese non è la plebe. Milano è la borghesia, l'unica esistente in Italia. Pier Paolo, che la odiava, non poteva prescinderne; la ritrovava ovunque. A bloccargli sguardo e cuore. Milano, a differenza di Roma, non era mai stata un grosso mercato. Nelle sere morbide, galleggianti, che pure qui hanno un fascino strano, imprendibile e vellutato, nessuna donna in scialle nero stendeva i polpacci congestionati su qualche sedia di paglia, fuori del cortiletto. Restava, semmai, dietro le tende, piegata su una vecchia Singer. Il suo sguardo celava una letizia soave. Rintracciarla però era impresa disperata. La non-immediatezza di Milano disarmò Pier Paolo? Egli vi trovò, o intuì tutto e doveva solo contemplarlo. Lasciare la città al suo segreto, ai mezzitoni che lui non poteva usare. Gli rimaneva solo la desolazione, quella desolazione che talvolta ti prende nel percorrere, la notte, il cavalcavia Renato Serra: "Di nuovo nessuno gli risponde: e, fuori, quel paesaggio ossessivo di immagini tristi di case, di viali, senza speranza".
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