C’è una maestra alle Tremiti: “Io, pendolare e precaria riapro la scuola dopo 21 anni”
Ma?
“L’ho fatto soprattutto per passione. Amo insegnare, amo i bambini e il legame che si crea in aula. L’insegnamento è una missione che ho nel cuore da tutta la vita”.
La sindaca Annalisa Lisci, che ha alle spalle una lunga esperienza da ristoratrice, promette che l’inviterà a pranzo e cena ogni volta che lei vorrà. Quindi ha avuto un’accoglienza con il tappeto rosso?
“Quando sono arrivata al molo, c’era già un piccolo studente, Andrea, che mi aspettava con la sua mamma. È stato un momento speciale, ero emozionata, anche un po’ agitata, ma mi sono sentita subito la benvenuta. Ho capito che, nonostante tutto, ne sarebbe valsa la pena. E poi, l’accoglienza delle famiglie è stata meravigliosa. Mi hanno fatto sentire a casa”.
Dopo le feste di benvenuto, dovrà affrontare i problemi concreti di tutti gli isolani: la solitudine, l’isolamento, la distanza dalla terraferma. Non potrà fare la pendolare come molte sue colleghe precarie. Ci ha già pensato?
“Resterò sull’isola dal lunedì al venerdì, per dedicarmi interamente ai miei alunni. Ogni venerdì, “meteo permettendo”, prenderò il traghetto per tornare a casa, ad Apricena, dove mi aspetta mio marito. I nostri figli, ormai grandi, vivono a Roma. Loro mi hanno sostenuta molto in questa scelta. Sanno quanto l’insegnamento conti per me”.
Le auguro di avere sempre un buon meteo, allora.
“Lo so che posso rischiare di restare bloccata anche per giorni, ma credo di avere un compito: dare una istruzione di qualità a questi sette bambini”.
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la seconda storia riportata sotto si collega alla prima e alla vignetta del ruggito del coniglio cita in essa .
Inizialmente forse influenzato dai film di Checco Zalone
Sole a catinelle (2013) ,
Quo vado?(2016) entrambi per la regia di Gennaro Nunziante pensavo visto il titolo che
era fregarsene e lavorare ., non capisco questa smania del posto fisso e di un lavoro che corrisponda a quello che hai studiato . Almeno all'inizio poi con la gavetta e sacrifici tiu metti in proprio e ti crei il lavoro per cui sei portato ) . Pensa ai in nostri nonni quando non emigravano , facevano mille lavori per portare a casa il pane e tirare avanti mica si lamentavano . Adesso si sceglie la scorciatoia d'andare all'estero . magari per fare glistessi lavori che ti offrono in italia oppure ci si lamenta e ci si sconforta \ piange addosso.Poi mi pare ne commenti all'articolo su mns mi hanno risposto che la realtà è un altra .
ecco la storia a voi ogni giudizio in merito
«Ho un dottorato di ricerca ma a 38 anni non riesco a trovare un lavoro, vivo con impieghi part-time. Mi pento di tutto il percorso che ho fatto»
«Si, sono laureato, ma è un errore di gioventù del quale sono profondamente consapevole…ho inoltrato una richiesta per rinunciare al mio titolo accademico, tempo due settimane io ho praticamente la quinta elementare…». A dirlo è Pietro Sermonti in Smetto quando voglio, film di Sydney Sibilia che usciva ormai dieci anni fa. Nella pellicola, Sermonti è un antropologo iperqualificato che cerca lavoro come operaio, vista l'impossibilità di dare frutto ai suoi studi nel mondo lavorativo. Mentre fa un colloquio con il titolare dell'officina meccanica si lascia però scappare un «c’è stata un’aspra diatriba legale» che lo "smaschera" davanti al datore di lavoro che di laureati non ne vuole sentire nemmeno parlare.È una scena che sintetizza molto bene il mondo del precariato, da noi in Italia come in altre parti del mondo, come per esempio negli Usa, dove non sempre si raggiunge l'agognato "sogno americano". Lo sa bene A. Rasberry, che negli ultimi 10 anni ha dato un’enorme importanza all'istruzione. Oggi, però, si trova a pentirsene amaramente.Dopo aver conseguito una laurea triennale, un master e un dottorato in gestione aziendale presso la Saint Leo University in Florida, Rasberry si è trovata inaspettatamente in difficoltà. Da quattro anni, racconta a Business Insider, cerca disperatamente un lavoro nel suo settore, senza successo, e nel frattempo il suo debito universitario ha superato i 250.000 dollari.Dopo il dottorato, Rasberry ha iniziato a cercare ruoli nel management aziendale, ma con scarsi risultati. Questo l’ha portata a dover ampliare il raggio di ricerca e valutare una carriera alternativa, come quella infermieristica, per poter pagare le bollette. «Pensavo che l'istruzione fosse la strada per la libertà finanziaria - ammette con amarezza - ma mi sbagliavo».
Inizialmente la donna voleva lavorare come docente universitaria, ma ha scoperto che avrebbe dovuto tornare a studiare ancora per ottenere ulteriori crediti. Così ha deciso di abbandonare il sogno dell’insegnamento e cercare ruoli nel management aziendale, il settore in cui si è specializzata. Tuttavia, anche questa ricerca si è rivelata difficile: «Sono sovraqualificata per i ruoli di base e sottovalutata per quelli più importanti», ammette. Un paradosso che non le permette di collocarsi da nessuna parte. Rasberry consiglia a chi vuole proseguire gli studi di valutare bene i programmi di collocamento lavorativo e le partnership per gli stage. «Ho imparato che la maggior parte delle aziende preferisce l'esperienza all'istruzione», afferma con rammarico.
Una via d'uscita
Nel frattempo, la 38enne ha svolto molti lavori part-time per pagare le bollette fino ad avvicinarsi al mondo dell'infermieristica, lavorando anche 80 ore a settimana. «È praticamente impossibile coprire le spese in Virginia con un solo lavoro», spiega, aggiungendo che guadagna 21,50 dollari all’ora, ben al di sotto della media nazionale per le infermiere. Nonostante abbia trovato anche una certa soddisfazione nel settore, non lo considera un lavoro a lungo termine per via della bassa paga e delle limitate opportunità.Negli ultimi mesi, Rasberry ha finalmente avuto un piccolo colpo di fortuna. Ha ottenuto un ruolo da remoto come consulente per un piano nel settore infermieristico, con un salario annuale di circa 70.000 dollari, equivalenti a più di 30 dollari l’ora. Anche se questo rappresenta un passo avanti, non è ancora abbastanza per farle dimenticare il suo vero obiettivo. «Continuerò assolutamente a cercare ruoli meglio retribuiti nel mio campo di studio», conclude Rasberry.
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un po giustificazione e scaricabarile \ autoassoluttoria , ma vero in parte perchè capita anche s'è un numero infinitesimale rispetto alla somma totale ,capita che gli incidenti molto spesso mortali sul lavoro sia colpa dei lavoratori stessi .
per concludere sempre sul mono del lavoro
da ILGiornale tramite mns.it
Niente imbragatura. I guanti infilati in tasca e il caschetto non allacciato. Il lavoratore era in un ambiente molto pericoloso, ma si era disfatto dei dispositivi di protezione. Il licenziamento - spiega però in modo sorprendente il giudice del lavoro - è una misura eccessiva e sproporzionata. Non era la prima volta che questo accadeva, ma il magistrato minimizza o comunque si schiera dalla parte dell'operaio e di quelli come lui. É stato a dir poco sciaguratamente superficiale, ha messo a repentaglio la propria vita e l'ha fatto a dispetto delle intimazioni ricevute dall'azienda in cui prestava servizio. Ma va bene così. Le
sentenze parlano chiaro: accade al tribunale di Venezia e a quello di Ascoli Piceno.Esiste nel nostro Paese una cultura perdonista che, gira e rigira, giustifica le mancanze, anche quelle ripetute, anche quelle che fatalmente portano all'incidente e talvolta alla morte.È la stessa mentalità che affiora in alcuni contratti collettivi del lavoro. D'accordo per la sanzione, quando il lavoratore trascura per sciatteria le precauzioni minime obbligatorie per legge e fornitegli dalla società da cui riceve la retribuzione, ma i sindacati non si spingono mai a sottoscrivere punizioni gravi per gli iscritti inadempienti.È davvero singolare che l'eterno, drammatico dibattito sulle morti del lavoro non tenga conto, anzi non faccia proprio emergere, questa grave lacuna. Si discute di appalti e subappalti, del lavoro nero e della mancanza di ispettori, da potenziare.Tutto vero. Ma i dati dell'Inail dicono che almeno il 50 per cento degli infortuni dipende dalla più elementare e sventurata dimenticanza: non aver messo quegli strumenti che potevano fare la differenza. L'imbragatura. Il caschetto ben allacciato. I guanti. Gli occhiali che in molte situazioni preservano da conseguenze potenzialmente devastanti.Parliamo, come si capisce, di accorgimenti minimi che richiedono un'attenzione di pochi secondi, ma tante volte é qui che ci si blocca. L' abitudine è una cattiva consigliera e qualche volta porta dritti al disastro.Ma il tribunale va per la sua strada. Il caso che si presenta in uno stabilimento di Marghera è clamoroso: «Se il lavoratore poteva in qualche modo giustificare l'assenza (imbragatura) o non utilizzo (guanti) o non corretto utilizzo (caschetto) dei DPI (dispositivi di protezione individuale) in dotazione, ciò che non può essere giustificato è il rifiuto ad utilizzarli e l'insistenza nel voler affermare di doverli utilizzare».Insomma, non si trattava di una dimenticanza, ma di una sorta di insubordinazione ad alto tasso di ideologia. Un rifiuto totale dei dispositivi di protezione. Licenziamento per giusta causa? Il non utilizzo c'è tutto ed è pure teorizzato. Ma il giudice ridimensiona il fatto e la disubbidienza: «Si trattava tuttavia di una condotta che non assurge a giusta causa, per il difetto di proporzionalità fra fatti e condotta. La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali nel rapporto di lavoro». Evidentemente, per il magistrato la sicurezza sul luogo di lavoro non tocca la sfera degli elementi essenziali. Non è grave, anche se gravissime possono essere le ricadute di questo atteggiamento, addirittura rivendicato dal dipendente.Anche ad Ascoli Piceno va in scena un copione del genere: il dipendente va nel reparto stampaggio senza gli occhiali e viene sanzionato con la sospensione per un giorno; qualche tempo dopo, la storia si ripete e di nuovo scatta la sospensione. La terza volta l'azienda procede con il licenziamento per giusta causa, ma il giudice lo annulla.Il motivo? È vero che la recidiva può portare alla fine del rapporto di lavoro, ma la mancanza deve essere grave. E qui non c'è la prova: o meglio non c'è la certezza che in quel momento i macchinari fossero in moto. Dunque, il danno da incidente sarebbe stato lieve. Il licenziamento cade anche in questo caso.