Nata negli Stati Uniti nel 1974, la Fondazione offre accoglienza e supporto alle famiglie che attraversano un percorso difficile e delicato com’è quello della cura di un bambino in un ospedale lontano da casa. In Italia, dal 1999, nelle Family Room (situate all’interno dei principali ospedali italiani) e nelle Case Ronald (posizionate nelle loro vicinanze), sono stati accolti più di 54mila bambini insieme ai loro genitori. E a tutti loro è stata data la possibilità di rimanere uniti e di sentirsi “a casa” anche quando casa è lontana, circondati dall’affetto e dalla disponibilità di operatori e volontari. Per affrontare insieme - proprio come sta accadendo lungo la “Via degli Dei”, in un cammino che unisce la Casa Ronald di Bologna a quella di Firenze - un percorso faticoso e impervio, ma mai solitario.
Un percorso dove la famiglia è sempre al centro e lungo il quale si condividono timori e speranze, lacrime e sorrisi, incombenze quotidiane ed eventi straordinari. Com’è successo a Giusy, la mamma di Aurora, che a Firenze, a Casa Ronald, ha finito per discutere anche la sua tesi di laurea…“Aurora stava male da tempo. Aveva spesso febbre e raffreddore e la notte faticava a dormire, perché non respirava bene. E poi c’erano le otiti, sempre più frequenti. La situazione era complicata e si era reso necessario un intervento, per togliere tonsille e adenoidi. Purtroppo, dove abitiamo (Giusy vive in Sicilia, n.d.r.), i tempi d’attesa erano lunghi. Non potevamo aspettare troppo, però, perché un timpano era già compromesso e non dovevamo correre il rischio che i polmoni o i bronchi entrassero in sofferenza”.
Giusy, allora, contatta un medico dell’ospedale Meyer di Firenze che, dopo aver visitato Aurora, fissa la data dell’intervento. “Non conoscevo Casa Ronald ma quando me ne hanno parlato in reparto, ho avuto subito una sensazione positiva. E per fortuna ho trovato accoglienza lì, perché le cose, nel frattempo, si erano complicate”. Poco prima di partire per la Toscana, infatti, Aurora ha un incidente con la bicicletta. “La ferita al piede si faceva ogni giorno più brutta e non riusciva quasi più a camminare. Sono arrivata a Casa Ronald tenendola in braccio. Dopo pochi minuti, però, mi avevano già trovato un passeggino… Poi, ci hanno mostrato la nostra camera. E ci siamo sentite “a casa”. Non avevamo la nostra famiglia accanto a noi - mio marito era rimasto in Sicilia, con Luigi, il nostro bimbo più piccolo - ma ci siamo subito rese conto che c’erano molte persone che ci avrebbero sostenute e confortate. La cosa che più mi ha colpito è stato l’affetto che ho letto negli occhi di operatori e volontari: ti accolgono con un sorriso, ti dedicano tempo e attenzione. E li senti subito amici, “famiglia”. Ero preoccupata per l’intervento di Aurora e mi mancava tantissimo Luigi.
Se mi fossi ritrovata sola, in una camera d’albergo, sarebbe stato tutto più difficile da affrontare, sia da un punto di vista pratico che, soprattutto, emotivo. La solitudine fa sempre male – prosegue Giusy - e lo fa ancor di più quando sei in un momento di fragilità. Casa Ronald, però, è un’oasi felice dove la solitudine non esiste. Se hai bisogno di conforto, c’è sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere, a cui confidare i tuoi timori, con cui condividere le tue speranze, con cui sorridere anche, per stemperare le tensioni. Ognuno racconta un po’ di sé e insieme si trova la forza per andare avanti. Nei giorni successivi all’operazione, Aurora è stata davvero male. Era debole, non riusciva a mangiare, faticava a bere e a parlare. Ero molto spaventata e stavo sempre accanto a lei. C’era chi si prendeva cura di me, però, mi sosteneva e mi dava piccoli ma preziosi consigli”.
Pian piano, Aurora riprende le forze, ma ancora non può lasciare Firenze, perché la lesione al piede, che si è rivelata peggiore del previsto, ha bisogno di cure.
“Lei era felicissima di rimanere a Casa Ronald, però. Aveva fatto delle amicizie e i volontari le proponevano ogni giorno qualche cosa di nuovo. I clown, le treccine colorate, la gita in città, la visita in una fattoria didattica…”. Per Giusy, intanto, c’è un appuntamento importante che si avvicina: la discussione della sua tesi di laurea magistrale. E la conferma della data arriva quando lei è ancora a Firenze. “Di nuovo, in mio aiuto, sono arrivati i volontari. Si sono occupati di Aurora mentre io discutevo online la mia tesi. E poi, mi hanno organizzato una bellissima festa, con tanto di torta e corona d’alloro. Mi sono stati tutti vicini in un modo che mai avrei potuto immaginare. Dopo un mese dal nostro arrivo, quando è stato il momento di partire, Aurora era davvero triste. E un po’ lo ero anch’io, lo confesso. Casa Ronald è stata fondamentale per dare coraggio a mia figlia e farle affrontare tutto nel modo migliore. Fra le sue pareti si è sentita serena, al sicuro. È un luogo felice, che resterà per sempre nel suo cuore”.
E anche nel cuore di Elisabetta Casa Ronald avrà per sempre un posto speciale, perché è nella Family Room dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna che Giovanni e Michele, i suoi due gemelli, nati lo scorso agosto, hanno “annunciato” il loro arrivo. “Durante la gravidanza, abbiamo scoperto che i bambini, per una sindrome molto rara, erano in pericolo di vita, perché in un sacco amniotico c’era troppo liquido e nell’altro troppo poco. Ci siamo rivolti al Sant’Orsola, dove ci hanno spiegato che per interrompere il malfunzionamento dei vasi della placenta sarebbe stato necessario un intervento molto delicato. Sono stata operata alla Clinica Mangiagalli di Milano e, per fortuna, tutto è andato bene. Salvo la rottura della membrana che separava i due sacchi amniotici. I bambini si sono così trovati a dover “condividere” un unico sacco. Questo ha messo a rischio il normale decorso della gravidanza e ha richiesto dei controlli ecografici sempre più frequenti. Dapprima una volta a settimana, poi una volta al giorno e a quel punto si è reso necessario il ricovero a Bologna.
Io mi sentivo bene, però, e l’idea di entrare in ospedale mi metteva un po’ in ansia. È stato allora che il primario del reparto di ginecologia mi ha parlato di Casa Ronald. La Family Room – prosegue Elisabetta - mi ha fatto subito sentire a mio agio, soprattutto perché Marco, mio marito, ha sempre potuto rimanere accanto a me. La mattina scendevamo in ospedale per le visite e gli esami. Poi, tornavamo “a casa”, dove potevamo prepararci il pranzo, rilassarci, chiacchierare con altri genitori. E quando Caterina, l’altra nostra bimba, veniva a trovarci con i nonni, stavamo con lei in uno spazio accogliente, dedicato al gioco. Intimità, familiarità, sostegno, solidarietà, amicizia: la bellezza di Casa Ronald, per me, è racchiusa in tutte queste parole. È un luogo dove si affrontano insieme i momenti belli e quelli brutti, dove ci si fa compagnia e ci si sostiene, dove si piange e si ride, dove c’è sofferenza e allegria. E dove non si è mai, mai soli”.
Per Elisabetta e Marco i giorni si susseguono nella routine dell’attesa. Fino a che una sera, un po’ in anticipo sui tempi previsti, Giovanni e Michele “decidono” che è arrivato il momento di nascere. “La casa era tranquilla e silenziosa. Eravamo in camera e ci stavamo preparando per andare a dormire. E all’improvviso, mi si sono rotte le acque. Siamo scesi al Pronto Soccorso con un po’ di agitazione, perché mancavano ancora una decina di giorni alla data in cui era stato programmato il cesareo. Ad accogliermi, però, c’era una ginecologa che conoscevo e che mi ha subito tranquillizzato. E la mattina dopo, Casa Ronald si è svegliata con una bella sorpresa… Elisa, la House Manager, è venuta a trovarmi in reparto, con dei regalini per i bimbi, e ha continuato a prendersi cura di noi. Nemmeno per un attimo ci siamo sentiti soli. È una cosa che mi ha colpito molto e che porterò sempre nei miei ricordi: mai avrei immaginato di poter sentire intorno a me così tanta vicinanza, tanto affetto, tanto amore. I bambini sono stati per un po’ nel reparto di neonatologia e per noi restare a Casa Ronald è stato importante, perché ci ha permesso di essere sempre vicini ai nostri figli senza che io fossi costretta ad affrontare ogni giorno un viaggio che, nelle mie condizioni, sarebbe stato faticoso. Ora siamo tornati a casa e Giovanni e Michele crescono e stanno bene. Torniamo in ospedale per i controlli di routine. E ogni volta, passiamo a fare un saluto in Family Room. Per noi sarà sempre un posto speciale, perché è lì che, simbolicamente, abbiamo appeso il primo fiocco per annunciare la nascita dei nostri bimbi”.
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