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15.10.24

DIARIO DI BORDO N 82 ANNO II Dalla parte dei disperati: don Mattia “salvato dai migranti”., Mi sono laureata in ospedale mentre assistevo mia figlia"., fratelli siamesi salvi dopo un anno in ospedale: la storia a lieto fine di Amari e Javar ., Da Afghanistan e Irak ai 3mila delle Dolomiti".,

Bologna, 13 ottobre 2024 – Squilla il telefono, è una videochiamata su Whatsapp. L’utenza è quella di uno delle centinaia di uomini e donne incontrati sui barconi in balia delle onde. Don Mattia Ferrari, 31 anni, originario di Formigine nel Modenese, sacerdote da cinque anni sulla nave Mediterranea Saving Humans come
cappellano, è un po’ titubante ma risponde. Sullo schermo appare Sami, un giovane migrante che lui non conosce. Lo hanno riportato in Libia dopo un respingimento. È stato torturato a lungo e poi abbandonato nel deserto. Inutile attivarsi, si affretta a dire il suo contatto, Sami sta morendo, e infatti la chiamata è spirituale. Don Mattia trova le parole giuste, lo benedice, ne sente il fiato debole, vede un abbozzo di sorriso. Morirà poco dopo. A quel punto del libro (Salvato dai migranti, edizioni Edb) ci si ferma necessariamente a pensare, atei o cattolici che siamo, a cosa possa voler dire ricevere sul telefono, in ogni momento, il dolore altrui.
Eppure nelle 276 pagine agili di questo libro – è un tascabile – ogni cosa è raccontata con l’energia di un trentunenne che nella vita fa ciò che gli piace, per cui si sente vocato, è il caso di dirlo. “Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare persone meravigliose”, scrive don Mattia. E queste persone sono disperati che ributtiamo in mare, che mettiamo ai margini delle nostre città, che lasciamo indietro. Ma sono anche centri sociali che accolgono chi non ha spazio, case occupate che diventano ancore di salvezza, vescovi e un papa (che scrive la prefazione del libro) al suo fianco contro i benpensanti e in certi casi la magistratura. Non è retorica la sua, lo si intuisce. Don Mattia è davvero cresciuto grazie a queste situazioni al limite, creando ponti in quei punti del percorso in cui nessuno si sarebbe sognato neppure di passare. Il suo libro, nella sua semplicità, è una finestra spalancata al sole. 

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"Mi sono laureata in ospedale mentre assistevo mia figlia"


©Avvenire


Sull’Appennino Tosco-Emiliano - fra boschi, sentieri e antiche strade romane - si snoda un percorso di trekking dal suggestivo nome di “Via degli Dei”. Ad affrontarlo, sono in tanti. Fra loro, in questi giorni, vi è anche un nutrito gruppo di “camminatori” che da Bologna a Firenze stanno condividendo un viaggio davvero speciale. Lo zaino che portano sulle spalle è la metafora di un peso ben più faticoso da sostenere: quello delle paure e delle difficoltà che gravano su un genitore che deve fronteggiare la malattia di un figlio. È anche l’immagine, però, del bagaglio di esperienza, passione ed energia della Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald, che quest’anno festeggia 25 anni di attività in Italia.
Nata negli Stati Uniti nel 1974, la Fondazione offre accoglienza e supporto alle famiglie che attraversano un percorso difficile e delicato com’è quello della cura di un bambino in un ospedale lontano da casa. In Italia, dal 1999, nelle Family Room (situate all’interno dei principali ospedali italiani) e nelle Case Ronald (posizionate nelle loro vicinanze), sono stati accolti più di 54mila bambini insieme ai loro genitori. E a tutti loro è stata data la possibilità di rimanere uniti e di sentirsi “a casa” anche quando casa è lontana, circondati dall’affetto e dalla disponibilità di operatori e volontari. Per affrontare insieme - proprio come sta accadendo lungo la “Via degli Dei”, in un cammino che unisce la Casa Ronald di Bologna a quella di Firenze - un percorso faticoso e impervio, ma mai solitario.
Un percorso dove la famiglia è sempre al centro e lungo il quale si condividono timori e speranze, lacrime e sorrisi, incombenze quotidiane ed eventi straordinari. Com’è successo a Giusy, la mamma di Aurora, che a Firenze, a Casa Ronald, ha finito per discutere anche la sua tesi di laurea…“Aurora stava male da tempo. Aveva spesso febbre e raffreddore e la notte faticava a dormire, perché non respirava bene. E poi c’erano le otiti, sempre più frequenti. La situazione era complicata e si era reso necessario un intervento, per togliere tonsille e adenoidi. Purtroppo, dove abitiamo (Giusy vive in Sicilia, n.d.r.), i tempi d’attesa erano lunghi. Non potevamo aspettare troppo, però, perché un timpano era già compromesso e non dovevamo correre il rischio che i polmoni o i bronchi entrassero in sofferenza”.
Giusy, allora, contatta un medico dell’ospedale Meyer di Firenze che, dopo aver visitato Aurora, fissa la data dell’intervento. “Non conoscevo Casa Ronald ma quando me ne hanno parlato in reparto, ho avuto subito una sensazione positiva. E per fortuna ho trovato accoglienza lì, perché le cose, nel frattempo, si erano complicate”. Poco prima di partire per la Toscana, infatti, Aurora ha un incidente con la bicicletta. “La ferita al piede si faceva ogni giorno più brutta e non riusciva quasi più a camminare. Sono arrivata a Casa Ronald tenendola in braccio. Dopo pochi minuti, però, mi avevano già trovato un passeggino… Poi, ci hanno mostrato la nostra camera. E ci siamo sentite “a casa”. Non avevamo la nostra famiglia accanto a noi - mio marito era rimasto in Sicilia, con Luigi, il nostro bimbo più piccolo - ma ci siamo subito rese conto che c’erano molte persone che ci avrebbero sostenute e confortate. La cosa che più mi ha colpito è stato l’affetto che ho letto negli occhi di operatori e volontari: ti accolgono con un sorriso, ti dedicano tempo e attenzione. E li senti subito amici, “famiglia”. Ero preoccupata per l’intervento di Aurora e mi mancava tantissimo Luigi.
Se mi fossi ritrovata sola, in una camera d’albergo, sarebbe stato tutto più difficile da affrontare, sia da un punto di vista pratico che, soprattutto, emotivo. La solitudine fa sempre male – prosegue Giusy - e lo fa ancor di più quando sei in un momento di fragilità. Casa Ronald, però, è un’oasi felice dove la solitudine non esiste. Se hai bisogno di conforto, c’è sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere, a cui confidare i tuoi timori, con cui condividere le tue speranze, con cui sorridere anche, per stemperare le tensioni. Ognuno racconta un po’ di sé e insieme si trova la forza per andare avanti. Nei giorni successivi all’operazione, Aurora è stata davvero male. Era debole, non riusciva a mangiare, faticava a bere e a parlare. Ero molto spaventata e stavo sempre accanto a lei. C’era chi si prendeva cura di me, però, mi sosteneva e mi dava piccoli ma preziosi consigli”.
Pian piano, Aurora riprende le forze, ma ancora non può lasciare Firenze, perché la lesione al piede, che si è rivelata peggiore del previsto, ha bisogno di cure.
“Lei era felicissima di rimanere a Casa Ronald, però. Aveva fatto delle amicizie e i volontari le proponevano ogni giorno qualche cosa di nuovo. I clown, le treccine colorate, la gita in città, la visita in una fattoria didattica…”. Per Giusy, intanto, c’è un appuntamento importante che si avvicina: la discussione della sua tesi di laurea magistrale. E la conferma della data arriva quando lei è ancora a Firenze. “Di nuovo, in mio aiuto, sono arrivati i volontari. Si sono occupati di Aurora mentre io discutevo online la mia tesi. E poi, mi hanno organizzato una bellissima festa, con tanto di torta e corona d’alloro. Mi sono stati tutti vicini in un modo che mai avrei potuto immaginare. Dopo un mese dal nostro arrivo, quando è stato il momento di partire, Aurora era davvero triste. E un po’ lo ero anch’io, lo confesso. Casa Ronald è stata fondamentale per dare coraggio a mia figlia e farle affrontare tutto nel modo migliore. Fra le sue pareti si è sentita serena, al sicuro. È un luogo felice, che resterà per sempre nel suo cuore”.
E anche nel cuore di Elisabetta Casa Ronald avrà per sempre un posto speciale, perché è nella Family Room dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna che Giovanni e Michele, i suoi due gemelli, nati lo scorso agosto, hanno “annunciato” il loro arrivo. “Durante la gravidanza, abbiamo scoperto che i bambini, per una sindrome molto rara, erano in pericolo di vita, perché in un sacco amniotico c’era troppo liquido e nell’altro troppo poco. Ci siamo rivolti al Sant’Orsola, dove ci hanno spiegato che per interrompere il malfunzionamento dei vasi della placenta sarebbe stato necessario un intervento molto delicato. Sono stata operata alla Clinica Mangiagalli di Milano e, per fortuna, tutto è andato bene. Salvo la rottura della membrana che separava i due sacchi amniotici. I bambini si sono così trovati a dover “condividere” un unico sacco. Questo ha messo a rischio il normale decorso della gravidanza e ha richiesto dei controlli ecografici sempre più frequenti. Dapprima una volta a settimana, poi una volta al giorno e a quel punto si è reso necessario il ricovero a Bologna.
Io mi sentivo bene, però, e l’idea di entrare in ospedale mi metteva un po’ in ansia. È stato allora che il primario del reparto di ginecologia mi ha parlato di Casa Ronald. La Family Room – prosegue Elisabetta - mi ha fatto subito sentire a mio agio, soprattutto perché Marco, mio marito, ha sempre potuto rimanere accanto a me. La mattina scendevamo in ospedale per le visite e gli esami. Poi, tornavamo “a casa”, dove potevamo prepararci il pranzo, rilassarci, chiacchierare con altri genitori. E quando Caterina, l’altra nostra bimba, veniva a trovarci con i nonni, stavamo con lei in uno spazio accogliente, dedicato al gioco. Intimità, familiarità, sostegno, solidarietà, amicizia: la bellezza di Casa Ronald, per me, è racchiusa in tutte queste parole. È un luogo dove si affrontano insieme i momenti belli e quelli brutti, dove ci si fa compagnia e ci si sostiene, dove si piange e si ride, dove c’è sofferenza e allegria. E dove non si è mai, mai soli”.
Per Elisabetta e Marco i giorni si susseguono nella routine dell’attesa. Fino a che una sera, un po’ in anticipo sui tempi previsti, Giovanni e Michele “decidono” che è arrivato il momento di nascere. “La casa era tranquilla e silenziosa. Eravamo in camera e ci stavamo preparando per andare a dormire. E all’improvviso, mi si sono rotte le acque. Siamo scesi al Pronto Soccorso con un po’ di agitazione, perché mancavano ancora una decina di giorni alla data in cui era stato programmato il cesareo. Ad accogliermi, però, c’era una ginecologa che conoscevo e che mi ha subito tranquillizzato. E la mattina dopo, Casa Ronald si è svegliata con una bella sorpresa… Elisa, la House Manager, è venuta a trovarmi in reparto, con dei regalini per i bimbi, e ha continuato a prendersi cura di noi. Nemmeno per un attimo ci siamo sentiti soli. È una cosa che mi ha colpito molto e che porterò sempre nei miei ricordi: mai avrei immaginato di poter sentire intorno a me così tanta vicinanza, tanto affetto, tanto amore. I bambini sono stati per un po’ nel reparto di neonatologia e per noi restare a Casa Ronald è stato importante, perché ci ha permesso di essere sempre vicini ai nostri figli senza che io fossi costretta ad affrontare ogni giorno un viaggio che, nelle mie condizioni, sarebbe stato faticoso. Ora siamo tornati a casa e Giovanni e Michele crescono e stanno bene. Torniamo in ospedale per i controlli di routine. E ogni volta, passiamo a fare un saluto in Family Room. Per noi sarà sempre un posto speciale, perché è lì che, simbolicamente, abbiamo appeso il primo fiocco per annunciare la nascita dei nostri bimbi”.


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Fratelli siamesi salvi dopo un anno in ospedale: la storia a lieto fine di Amari e Javar

                                              Amari e Javar© Internet (altro)

Dopo oltre un anno trascorso in ospedale, i fratelli siamesi Amari e Javar sono finalmente tornati a casa. La storia di questi due gemelli è iniziata con una scoperta choc: durante la dodicesima settimana di gravidanza, i genitori hanno scoperto che avrebbero avuto due figli siamesi. Fino a quel momento, la madre, Shaneka Ruffin, pensava di essere incinta di un solo bambino.
La decisione di non interrompere la gravidanza
Dopo la diagnosi, i medici avevano consigliato alla coppia di interrompere la gravidanza. Tuttavia, Shaneka e il marito Tim, insieme da sei anni e già genitori di due figli, hanno deciso di ascoltare un secondo parere medico. Hanno scelto di portare avanti la gravidanza e dare alla luce i due gemelli. Questa decisione coraggiosa li ha portati a Philadelphia, dove sono stati seguiti da uno degli ospedali pediatrico più specializzati degli Stati Uniti, uno dei pochi centri che eseguono interventi di separazione dei gemelli siamesi.
Il ritorno a casa dopo un lungo calvario
Dopo un lungo percorso fatto di cure, interventi e tanta speranza, i fratelli siamesi sono tornati finalmente nella loro casa, accolti con grande emozione dai loro genitori. «Non ci possiamo credere», ha dichiarato Shaneka, la madre, raccontando a People quanto sia stato emozionante vedere finalmente i suoi figli a casa. Anche il padre, Tim, ha espresso il suo sollievo: «Il viaggio è stato lungo, ma ora mi sento sollevato», ha dichiarato.

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"Da Afghanistan e Irak ai 3mila delle Dolomiti"

Quella di Luca Fois, sottufficiale delle Forze speciali, è una storia che inizia con un inganno. Vuole fare il militare, ma non ha le carte in regola e così, durante le visite mediche, decide di mentire: «Ero l'anti soldato per eccellenza, non sapevo fare niente, pesavo 68 chili e mi mancavano cinque diottrie. Per entrare nell'Esercito ho dovuto mentire, ma solo perché ci tenevo davvero a indossare la divisa. E così ho piegato le ginocchia e, subito dopo la missione in Libano, ho fatto il laser. Ero un nerd, assolutamente non idoneo, però ci tenevo».

Inizia così un percorso che lo porta prima al 186esimo Reggimento Folgore («avevo amici paracadutisti che mi raccontavano storie incredibili e che erano stati in giro per il mondo»), poi con il 185esimo Rao e, infine, con il Nono Col Moschin che diventa la sua seconda famiglia. «Il training da operatore era propedeutico a quello che avresti potuto affrontare: quando ho sostenuto il corso si usava ancora sangue vero, si somministravano piccole inoculazioni di stress fino a far diventare i soldati resistenti al trauma».Il Nono gli dà tutto e Fois prende tutto: «Ho imparato a studiare nelle forze speciali e parlo sia della tecnica di studio sia dell'organizzazione. Si generava un meccanismo per cui chi era più bravo in una materia, diventava il supporto per gli altri. Si riproponeva lo stesso modus operandi anche all'interno dei distaccamenti: chi era responsabile di una branca, diventava esperto e a prescindere dal grado aiutava gli altri. Le forze speciali premiano le capacità del singolo rispetto al grado».Ci sono le missioni all'estero, in Afghanistan, contro i talebani e in Iraq. E altre, la gran parte, delle quali non può parlare. Nemmeno insistendo c'è nulla da fare. La risposta è sempre la stessa: «Legge 198/2015, segreto di Stato». Perché la vita degli incursori è soprattutto nascosta, non solo quando sono in teatro, ma anche in Patria. E, quando si ha famiglia, non sempre è facile conciliarla col lavoro. Fois diventa papà e, complici le lesioni provocate durante il servizio, lascia il Nono e va a vivere ad Agrate Brianza. Non è più un soldato. Ora è un semplice civile. Reinventarsi non è facile. Proprio per questo motivo, qualche anno prima, Luca aveva fondato con alcuni commilitoni un'associazione - Non dolet - per aiutare i veterani. La «transizione», come viene chiamata in gergo, lo porta al suo grande amore (oltre alla moglie): la montagna. «Ho chiamato un mio collega dicendogli che volevo fare un record, scalare tutti i 4mila delle Alpi, ma era già stato fatto. Non c'è un record delle Dolomiti sopra i 3mila, mi dice un altro amico. Che prosegue: Le cime sarebbero 120, anche se sono state ridotte a 86». Nasce così l'idea di realizzare un record che fosse però anche al servizio della comunità: «Quelli delle Dolomiti non sono percorsi difficili per ragioni di quota, ma perché si stanno ritirando i ghiacciai. Molte vie sono pericolose perché la roccia è marcia e quindi ho pensato, visto che non ci sono dati aggiornati, di raccoglierli io». E così Fois, oltre ai primi sponsor, ottiene anche l'appoggio dell'Associazione nazionale Alpini e insieme a due amici e veterani, Michael Turconi ed Emanuele Chessa, scalerà le 86 cime. «Ora mi sto allenando e l'obiettivo è realizzare il record nel 2025. Raccoglieremo dati, tracciature gp e faremo fotografie. Poi se il Guiness riconoscerà quello che faremo sarà un onore per me, in caso contrario produrrò comunque un buon report aggiornato. E utile per la comunità»