QUEI TRE CARABINIERI. .UCCISI IN VIA SCOBAR.

Fra le  tante  storie     delle  vittime delle mafie  ce n'è  una poco   nota     essa     riguarda      LA STRAGE DEL 1983 L’appuntato Bommarito, assieme ai colleghi D’aleo e Morici, intuì l’importanza nello scacchiere di Cosa Nostra di un paese come Monreale e mise in luce complicità di politica e mafia

 

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  • Il Fatto Quotidiano
  • » NINO DI MATTEO
  •  QUEI TRE CARABINIERI. .UCCISI IN VIA SCOBAR.

    FOTO ANSA
    “Palermo come Beirut” Così titolavano i giornali sulla lunga scia di omicidi di mafia che agli inizi degli anni 80 scosse la città

    l 13 giugno 1983, in via Scobar, tra i palazzoni senz’anima del sacco edilizio di Palermo, venivano uccisi tre carabinieri, il capitano Mario D’aleo, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere scelto Pietro Morici.

    L’ennesimo efferato delitto in quella Palermo infuocata e disperata dei primi anni Ottanta quando, sotto il piombo della mafia e di chi ne armava la mano, cadevano uno dietro l’altro servitori dello Stato che avevano soltanto la colpa di voler fare il loro dovere. Un triplice omicidio per certi versi dimenticato. Soffocato, quasi schiacciato nell’immaginario collettivo dal clamore di altri delitti che lo precedettero e lo seguirono di poco. Il 3 settembre 1982 era stato ucciso il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Dopo poco più di quaranta giorni dall’agguato di via Scobar, il 29 luglio del 1983, in via Pipitone Federico nel centro residenziale di Palermo, si sarebbe scatenato l’inferno con il primo attentato nei confronti di un magistrato, il dottor Rocco Chinnici, realizzato con il sistema dell’autobomba piazzata sotto l’abitazione. Le prime pagine dei giornali nazionali titolavano: “Palermo come Beirut”. Forse anche per questo, forse perché ci si stava abituando a tutto, forse perché l’opinione pubblica nazionale, da sempre distratta, scopriva poco alla volta la pericolosità di “Cosa Nostra” solo quando uccideva personaggi “eccellenti”, la feroce esecuzione di D’aleo, Morici e Bommarito passò quasi inosservata. I soliti funerali di Stato, la solita finta indignazione delle autorità, la disperazione dei parenti delle vittime, la partecipazione del Capo dello Stato Sandro Pertini alle esequie. Poi, subito dopo, l’oblio.

    E invece questo libro scritto da Francesca Bommarito, sorella dell’appuntato Bommarito, contribuisce non solo a rendere onore alle vittime di quel vile agguato, ma anche a inquadrarlo finalmente in un preciso disegno strategico della mafia corleonese e dei suoi vertici di allora, primi tra tutti Salvatore Riina e Bernardo Brusca. Un altro grande merito dobbiamo riconoscere al paziente lavoro di ricostruzione della dottoressa Bommarito: quello di chiarire a un’opinione pubblica solo sommariamente informata sull’esito dei processi che si sono celebrati, che l’appuntato Bommarito non morì “per caso” solo perché in quel momento accompagnava il suo capitano, ma perché così vollero i mandanti dell’agguato. Quei mafiosi avevano un interesse specifico a uccidere il capitano all’epoca comandante della compagnia di Monreale, ma anche a eliminare l’appuntato Bommarito; un valoroso carabiniere che aveva dimostrato di sapere alimentare le indagini antimafia più delicate con le notizie confidenziali acquisite sul territorio e con la certosina attività di verifica.

    Il giorno dopo la strage di via Scobar Leonardo Sciascia, che di mafia se ne intendeva e che la mafia aveva descritto nei suoi romanzi nelle sfaccettature più diverse, in una intervista pubblicata sulle pagine del glorioso quotidiano L’ora affermò: “Di fronte a questo nuovo delitto ci si chiede se la mafia non vuole più carabinieri a Monreale e perciò ha in programma di uccidere tutti i comandanti che succederanno a Basile e a D’aleo oppure se questo capitano come il suo predecessore sono stati uccisi perché avevano capito qualcosa”. Una dichiarazione importante, un dubbio angoscioso che prendeva spunto dal fatto che solo tre anni prima, nel maggio del 1980, era stato ucciso a Monreale il capitano Emanuele Basile, il predecessore del capitano D’aleo. Anche quella, una esecuzione impressionante per la sua forza brutale. Basile venne ucciso durante la festa del paese mentre teneva in braccio la sua bambina. Da quel delitto scaturì una vicenda processuale infinita caratterizzata da numerosi tentativi, alcuni riusciti, di aggiustare il processo nei confronti degli imputati, Armando Bonanno, Giuseppe Madonia e Vincenzo Puccio. Corruzione di giudici, intimidazioni nei confronti di togati e giudici popolari, promesse politiche di interessamento in Cassazione,

    annullamenti inspiegabili di sentenze di condanna, spietata vendetta nei confronti del giudice Antonino Saetta che, in appello, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva condannato gli esecutori materiali e che per questo pochi mesi dopo venne ucciso con il figlio Stefano lungo la strada che collega Agrigento a Caltanissetta.

    Tutto questo ruotava attorno al processo per l’omicidio del capitano Basile. Non si comprende la centralità della questione se non si ha chiara l’importanza mafiosa del territorio di Monreale, popoloso paese alle porte di Palermo, facente parte del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, quello dei Brusca, quello degli allora più fedeli alleati di Salvatore Riina. Quei carabinieri, pur con le limitate risorse di una compagnia di provincia, avevano avuto le intuizioni giuste, la forza e il coraggio di portare avanti indagini delicatissime che partendo dal basso arrivavano fino ai vertici dell’organizzazione mafiosa. Per questo fu prima ucciso il capitano Basile e tre anni dopo il capitano D’aleo. Sia l’uno che l’altro si erano avvalsi della preziosa collaborazione di un umile appuntato dei carabinieri, Giuseppe Bommarito, che con la sua tenacia, il suo fiuto investigativo, la sua capacità di conoscere e controllare il territorio, aveva intuito l’importanza di Monreale nello scacchiere complessivo di “Cosa Nostra” e messo in luce le complicità di politici e pubblici amministratori con i mafiosi. Per questo fu ucciso Bommarito. (...)

    Gli elementi che l’autrice mette in fila, uno dopo l’altro, indicano che Bommarito non è morto “per caso” e sono emersi negli ultimi anni grazie alla perseveranza della sorella che nelle pieghe dei processi già celebrati ha saputo trovare e valorizzare l’importanza di quel lavoro investigativo.

    Questo è un libro fondamentale perché restituisce la dovuta centralità a un delitto in parte dimenticato e aiuta a comprendere che, nella lunga teoria dei morti di mafia, non ci possono essere vittime di serie A e vittime di serie B. Tutti coloro che hanno sacrificato la loro vita per svolgere con passione, impegno e correttezza la loro “missione” meritano lo stesso rispetto. Devono essere ricordati non come esercizio di mera retorica ma con la conoscenza e la divulgazione del loro lavoro, l’analisi e l’individuazione dei moventi della loro uccisione. È per questo che il libro rappresenta una tappa importante per ricordare quanti (anche vittime del tutto sconosciute all’opinione pubblica) hanno, da veri servitori del Paese, onorato fino all’ultimo la divisa che indossavano. In Sicilia, in una terra difficile ma per fortuna anche capace di slanci, di genuine reazioni, di ribellione al sistema mafioso. Circostanze che meritano, come si fa in queste pagine, di essere ricordate e valorizzate. E ciò è ancora più bello ed emozionante quando è frutto dell’amore di una sorella, del suo senso di ribellione alle ingiustizie, della sua perseveranza nel dimostrarsi appassionata di giustizia e verità.

    LA STRAGE DEL 1983 L’appuntato Bommarito, assieme ai colleghi D’aleo e Morici, intuì l’importanza nello scacchiere di Cosa Nostra di un paese come Monreale e mise in luce complicità di politica e mafia

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