Una Concordia di 50 anni fa che tutti hanno dimenticato DOPO L’ INCENDIO I PASSEGGERI FURONO ABBANDONATI. «CI BUTTAMMO INMARE DA 20METRI, C’ERANO ONDE ENORMI. PER 7-8 ORE RIMANEMMO AGGRAPPATI A UN SALVAGENTE», RACCONTA ELISABETTA MARCUCCI. E IN41 MORIRONO

  In questi giorni   ricorrono    i  10  anni del  naufragio della  Costa  concordia   e contemporaneamente qualche  giornale  fuori dal  coro     riporta   una  tragedia  simile   avvenuta   50 anni fa    al largo dela puglia  

  • Oggi 
  • di Gino Gullace Raugei
  •  I rumori, gli odori, i colori di quel « giorno, non li ho più dimenticati», ci dice Elisabetta Marcucci, pittrice. «E dopo le fiamme, il terrore e le lacrime, neppure quell’attimo di arcano silenzio e pace che credetti essere la morte». Sabato, 28 agosto 1971, la signora Marcucci era tra i 1.174 passeggeri del traghetto greco Heleanna che al largo della Puglia prese fuoco come un fiammifero. In quel naufragio morirono 41 persone e 271 furono i feriti, gravi o gravissimi. Una tragedia del mare peggiore di quella 
    LA  SUPERSTITE  
    ELISABETTA   MARCUCCI  
    della Costa Concordia con cui condivide un triste particolare: anche in quel caso, il capitano, Dimitrios Anthipas, fece calare l’unica scialuppa funzionante e fuggì coi suoi ufficiali, lasciando i passeggeri al loro destino. «Proprio così», conferma Elisabetta Marcucci. «lo vidi coi miei occhi quel signore, che aveva a bordo la moglie e il cagnolino, dileguarsi con la sua famigliola

    VIAGGIO ALL’INFERNO

    «Avevo 23 anni», ricorda la signora Marcucci, «e mi ero recata in vacanza ad Atene col fidanzato greco che sarebbe poi diventato mio marito. Venerdì 27 agosto, al momento di imbarcarci a Patrasso per tornare in Italia, vidi quella nave ed ebbi una brutta sensazione: non ci volevo salire. Mi faceva paura quello scafo altissimo che sembrava un muro con in cima una fila di piccoli oblò. Il mio fidanzato mi spinse su a forza. E litigammo. A quel tempo», spiega Elisabetta, «usava che i fidanzati dormissero separati, perciò presi posto in una cabina con alcune ragazze francesi, mentre il mio ragazzo si sistemò in un altro alloggio. La nave era strapiena: chi non aveva trovato posto nelle cabine dormiva in macchina o nei camion; c’erano bivacchi di persone ovunque, nei corridoi, sulle scale, nelle sale bar e ristorante. La mattina seguente, all’alba, si spalancò la porta della cabina ed entrò urlando un giovane francese: “Presto uscite, la nave sta andando a fuoco!”».

    «Gli altoparlanti ordinarono ai passeggeri di restare in cabina o radunarsi nelle sale bar e ristorante, ma

    io raggiunsi il più vicino boccaporto», continua Elisabetta. «Vidi che tentarono di calare le scialuppe, ma erano tutte bloccate dalla ruggine. Una di queste, carica di donne e bambini, si capovolse nella discesa, gettando quei poveretti a mare; poi si ruppe in due e crollò sulla testa di coloro che erano riemersi: una strage.



    «In quei momenti ho visto il peggio della natura umana: persone che tiravano per i capelli quelli davanti per aprirsi una via di fuga; gente che si strappava di mano i pochi giubbotti di salvataggio. Gli altoparlanti muti. Siamo stati abbandonati a noi stessi. I marinai passavano semmai di cabina in cabina per razziare i soldi e le cose di valore. «Alla fine ci siamo buttati da un’altezza di circa 20 metri», racconta Elisabetta. «In mare, forza 7, c’erano onde enormi ribollenti di schiuma. Andai metri e metri sotto e quando riemersi, intorno a me, c’era solo silenzio. Pensai di essere morta. Mi risvegliò la voce del mio fidanzato che urlava il mio nome a più di cento metri di distanza.

    «Abbiamo trascorso 7 o 8 ore aggrappati p a un grosso salvagente quadrato. Eravamo E 15 o 16 persone. C’era anche un u bambino di 9 mesi sistemato sopra il i galleggiante; attaccato ai miei jeans avevo a un signore di Genova che ogni tanto t si lasciava affondare e dovevo ritirarlo r su per i capelli o un braccio. «I soccorsi arrivarono quasi subito,

    navi e molti pescherecci, ma era difficilissimo recuperare i gruppetti di naufraghi, per via della forte corrente, del vento e delle onde. Alla fine ci ripescò una grossa petroliera americana. Sul ponte c’era una catasta di giubbotti salvagente da cui vidi spuntare delle gambe: erano i morti. Un’altra scena che non dimenticherò mai: nella sala macchine, al caldo dei motori, c’era un gruppetto di ufficiali dell’Helianna che facevano asciugare mucchi di banconote razziate dai bagagli dei passeggeri. Mi colpì il fatto che le loro divise bianche e le scarpe erano pulitissime e asciutte: dovevano essere quelli fuggiti con l’unica scialuppa.

    «Ci sbarcarono a Brindisi e trovai mio padre e mia sorella che mi riconobbero dalle mani, tanto era malridotta. Prendemmo delle camere in un albergo, pagate a nostre spese, e il giorno dopo volli andare in Procura della Repubblica a denunciare quei marinai greci ladroni.

    «So che il capitano Anthipas fu arrestato il giorno stesso mentre tentava di imbarcarsi con moglie e cagnolino su una nave per la Grecia; so anche che non subì conseguenze per la sua vigliaccheria e menefreghismo perché fu estradato nel suo Paese e non fece nemmeno un giorno in carcere. Non sono mai stata chiamata da nessuno a testimoniare nei processi che ci furono e non abbiamo mai avuto una lira di risarcimento. In Grecia si sparse la voce che l’incendio era stato doloso perché l’armatore aveva da poco sottoscritto una polizza vantaggiosa coi Lloyd’s di Londra. Anche lì ci furono dei processi, ma tutto fu insabbiato: c’era il famigerato regime dei colonnelli, molti dei quali erano soci in affari con gli armatori».

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