L'alfabeto delle mafie: "E" come Estorsione

 

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Il passaggio dalla rapina e dal furto all'estorsione rappresenta il

funerali  di libero grassi  Foto: ilmemoriale.it
passaggio dalle criminalità precedenti a quella di tipo mafioso. Depredare è un conto, riscuotere una "tassa" è un altro: è nella riscossione della tassa che le mafie si "statualizzano" e si legittimano come potere territoriale




Nella storia del crimine, i mafiosi sono i primi violenti del popolo che si organizzano per le loro attività illegali all'interno della società di cui fanno parte, non fuori come erano costretti a fare i briganti. Rispetto ai banditi e ai briganti i mafiosi non prendono i soldi altrui con i furti e le rapine, o almeno non lo fanno in prima persona. I ladri formalmente sono disprezzati; nella concezione dei "valori" mafiosi essi appartengono a una criminalità minore, sono gli "scassapagghiari", un nome che viene loro dato per indicare la posizione infima dentro il mondo criminale, costretti a rubare nei pagliai dove ci sono le galline. I ladri, infatti, si debbono macchiare di azioni che spaventano i cittadini o allarmano gli organi di sicurezza anche quando non usano violenza esplicita, mentre i mafiosi operano con il prestigio della loro fama di violenti, fama che fa ottenere i soldi senza bisogno di scassinare o di derubare. Perciò usano l'estorsione, che è un metodo criminale più raffinato e, in apparenza, meno violento. L'estorsione è l'unico guadagno che si ottiene dagli altri facendo valere solo la propria nomea di violento associato ad altri violenti, e quindi non è ascrivibile ai tradizionali reati predatori perché è un reato che si esercita con la partecipazione della vittima. Infatti, negli statuti delle prime organizzazioni mafiose non c'è spazio per i ladri ai vertici. Lo dice espressamente lo statuto della camorra, il cosiddetto "frieno" (1842) all'articolo 20: "Chi fu implicato in qualche furto o viene riconosciuto come omosessuale non può essere mai capo" (traduzione dal napoletano). E lo dicono gli statuti orali e scritti di Cosa nostra e della 'ndrangheta. Non sappiamo se questa regola era da tutti rispettata; infatti troviamo nella camorra napoletana di fine Ottocento un camorrista che chiamano 'o mariuolo (ladro, in napoletano): ciò significa che una cosa erano le norme scritte e una cosa la realtà, oppure che il camorrista in questione aveva lasciato l'attività di ladro ma che il soprannome gli era rimasto attaccato addosso. In diversi processi sono state accertate le complicità tra mafiosi e ladri, ma sempre in un rapporto gerarchico subordinato, così come è noto che diversi mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi hanno cominciato la loro carriera con furti, rapine, scippi, ma quando sono saliti nelle gerarchie hanno abbandonato queste attività. Un membro delle élite mafiose non può essere confuso con i delinquenti comuni: una cosa è rubare, una cosa è farsi dare i soldi. E anche quando si dedicheranno al furto di animali (l'abigeato) o al sequestro di persone, i mafiosi di solito lo fanno nella convinzione che non si tratti di ladrocinio ma di un metodo che dimostra la loro potenza intimidatrice in grado di tenere in scacco la vita delle persone e dei loro averi. L'estorsione è un'attività superiore al sequestro di persona o all'abigeato, perché fa ottenere delle risorse dalla vittima senza sequestrarne un familiare o un suo bene. Ma essa funziona se c'è un insieme di criminali che l'organizzano, che hanno fama di violenti, che possono vendicarsi qualora uno di essi viene denunciato, cioè l'estorsore deve avere alle spalle necessariamente un'organizzazione. Certo, l'estorsione era presente anche prima della nascita delle mafie. C'erano violenti che minacciando riuscivano a spillare qualche soldo, ma erano esposti alla denuncia perché se finivano in galera finiva la loro forza di violenti. Invece, se la richiesta del pizzo è fatta da persone in combutta tra loro espone l'eventuale denunciante alla ritorsione da parte dei soci in libertà. L'estorsione diventa così il reato associativo per eccellenza perché si basa sul potere di intimidazione e di ritorsione di un gruppo di violenti organizzati. Il passaggio dalla rapina e dal furto all'estorsione rappresenta, dunque, il passaggio dalle criminalità precedenti a quella di tipo mafioso. E questo passaggio rappresenta una tappa decisiva nella storia delle mafie e in genere del crimine in Italia. Depredare è un conto, riscuotere una "tassa" è un altro: è nella riscossione della tassa che le mafie si "statualizzano" e si legittimano come potere territoriale. È dal potere esercitato sul territorio e dalla capacità di sanzionare gli inadempienti che l'estorsione trae forza.
Perciò si deve considerare l'estorsione come una vera e propria tassa, una specie di "tassa alla violenza". È una tassa che riconosce "valore" pubblico e sociale alla violenza. Inizialmente era una tassa su coloro che esercitavano lavori illegali, così era più semplice legittimare la propria supremazia sul mondo criminale "inferiore" e stabilire una differenza tra chi doveva lavorare nel campo illegale per fare soldi e chi invece li faceva riscuotendo una tassa permanente. Era la dimostrazione che l'élite criminale non doveva esercitare violenza sempre e comunque, ma utilizzare solo la "reputazione" della violenza. Poi l'estorsione si è estesa a tutti coloro che producevano ricchezza o riscuotevano una rendita: la tassa passava dal mondo illegale (riscuotere soldi dalle attività criminali predatorie svolte da altri) al mondo legale (riscuotere una tassa da tutti gli esercenti un'attività economica legale).L'estorsione è sempre il prezzo della violenza che viene risparmiata a chi paga, è una tassa sulla forza non esercitata. E ogni tassazione è sempre un riconoscimento di un potere: chi paga il pizzo riconosce il potere della setta criminale che l'esercita. Il furto e l'elemosina, invece, esprimono il bisogno derivante dalla miseria, dalla deprivazione, mentre l'estorsione è già un'attività di chi è uscito dalla miseria e di chi non ha bisogno di rubare per vivere. Chi è in grado di pretendere dei soldi non è l'ultimo della società ma qualcuno che tramite la violenza è in grado di farsi pagare senza stendere la mano. È una tassazione, non una elargizione, è una forma di statualità popolare: chi paga riconosce e legittima il potere di chi richiede. Ed è impressionante notare che la maggior parte dei clan mafiosi, camorristici e 'ndranghetisti dispone di propri libri contabili su cui registrare il pagamento del pizzo, con nomi, strade e tariffe, come se si trattasse di un particolare ufficio delle imposte. E proprio la scoperta di centinaia di questi libri mastri dimostra come l'estorsione è considerata nel pensiero dei mafiosi un diritto di tassazione ovunque essi operano. Con la differenza che l'elusione e l'evasione lo Stato le permette, nei sistemi mafiosi c'è meno tolleranza e più severe sanzioni.
Altro elemento caratterizzante dell'estorsione è la sua giustificazione da parte di chi la esercita. Ciò fa parte di una delle peculiarità delle mafie, cioè quella di giustificare la violenza estorsiva attraverso una loro pretesa funzione "sociale", in particolare o come un aiuto alla tenuta dell'ordine pubblico o come forma di sostegno alle persone in galera, una specie di mutuo soccorso per i detenuti. I mafiosi nel passato hanno motivato la loro richiesta di soldi in cambio di un servizio offerto, cioè la protezione che si assicura agli estorti. Su questa funzione di garanti della sicurezza delle imprese commerciali, artigiane o industriali sottoposte al pizzo, il sociologo Diego Gambetta ha impostato la sua interpretazione del fenomeno mafioso siciliano: la mafia sarebbe appunto una particolare "industria della protezione privata", perché offre una protezione dal pericolo che gli stessi offerenti hanno creato o creano a coloro che taglieggiano. Ma l'estorsione viene anche giustificata come aiuto a chi sta in galera. In diversi rioni di Napoli, Palermo, Catania o Reggio Calabria e in diverse cittadine delle zone infestate dalle mafie, la richiesta del pizzo è considerata un obolo, un contributo ai carcerati: insomma, gli estorsori vogliono dimostrare che le loro tasse hanno una finalità sociale! Non dimentichiamo inoltre che in tutte le organizzazioni mafiose italiane ricorre l'espressione "mettersi a posto" nell'indicare il dovere degli estorti verso i loro estorsori. Questo modo di dire esprime, appunto, il fatto che i mafiosi si attribuiscono il ruolo di uno specifico sistema di riscossione, una specie di "ordinamento giuridico" alternativo a quello dello Stato verso il quale ci sono degli obblighi a cui debbono sottoporsi gli estorti, che vengono considerati a tutti gli effetti dei contribuenti.
In genere, lo ripeto, non è il pizzo l'attività principale di un clan, non è il pizzo la sua entrata principale. Se un clan facesse solo estorsioni non sarebbe competitivo sul mercato criminale. Ma è fondamentale come forma di potere prima che come forma di accumulazione.
Sociogenesi dell'estorsione
Indubbiamente l'estorsione è l'attività che più avvicina la criminalità mafiosa a una funzione parastatuale. Chi paga riconosce all'estorsore un potere sovrano, che si esplicita appunto nella facoltà di imporre tasse e di farsele pagare, e chi viene pagato sente che il tributo gli è dovuto in cambio di servizi "sociali" che pensa di fornire. Se rileggiamo lo stupendo paragrafo che Norbert Elias dedica alla "sociogenesi dell'imposizione fiscale" nel libro Potere e civiltà, le affinità in origine dell'estorsione con le imposizioni statali sono del tutto evidenti. La centralizzazione delle imposizioni fiscali, prima appannaggio esclusivo dei signorotti locali, è legata a due fattori: il riconoscimento da un lato di qualcuno (il re, il sovrano) che supera il potere locale ed è capace di imporsi a tutti con la forza; in secondo luogo, l'affidare ad esso compiti di sicurezza verso l'esterno finanziando con le imposte le guerre di difesa dai nemici o compiti di sicurezza all'interno. Tutte le costruzioni statuali, secondo l'interpretazione di Charles Tilly, sono state affidate alla concentrazione di mezzi coercitivi, tra cui quello fiscale è il più evidente. Nella formazione della statualità c'è sempre l'accoppiata predazione/protezione e la giustificazione della tassazione è sempre stata la garanzia della sicurezza interna ed esterna. È nel cammino dalla predazione alla persuasione della tassazione che si compie il processo di civilizzazione, secondo Elias.
All'inizio la tassazione dello Stato era senza benefici immediati, serviva in genere a pagare il lusso dei ceti abbienti, l'agiatezza della burocrazia, le guerre di conquista. Fino all'epoca moderna tutte le forme fiscali (tasse, gabelle, decime ecc.) dello Stato, dei baroni o dei religiosi erano sinonimo di imposizione, vessazione, sottrazione di reddito individuale senza benefici collettivi. È indubbio che la percezione dell'imposizione fiscale dello Stato come forma legittima di violenza o di predazione non faceva avvertire la violenza esercitata dal camorrista o dal mafioso come illegittima, soprattutto se questa violenza privata nell'esigere corrispondeva a una qualche utilità. Insomma, le esazioni hanno a che fare con il potere e con la forza e non sono esigibili se non da chi è in grado di esercitare violenza in caso di rifiuto. In seguito, lungo il corso dei secoli, i prelievi una tantum si trasformeranno in tasse, cioè in contribuzioni fisse soprattutto a carico di chi esercita commerci, per consentire agli Stati nascenti di organizzare le proprie precipue funzioni e di pagare l'apparato di funzionari ad esse preposti. L'abbinamento tasse (intese come prelievo sulla ricchezza posseduta, sugli scambi commerciali e sui profitti) e qualità dei servizi resi alla collettività dallo Stato è acquisizione relativamente recente.
Bisogna ammettere che l'estorsione di massa è presente quasi esclusivamente in Italia tra i Paesi dell'Occidente, e in Italia in alcune regioni meridionali. Se l'estorsione è limitata come attività criminale solo ad alcune nazioni e all'interno di esse solo ad alcuni territori, ciò ha a che fare con la formazione "debole" dello Stato nei luoghi coinvolti, nell'accettazione di un duopolio del potere (e della relativa tassazione), nell'attribuzione a forze criminali della capacità d'ordine e di sicurezza. Insomma l'estorsione in Italia è la spia più evidente della percezione debole dello Stato, che "non si comporta fino in fondo da Stato".
Chi paga riconosce indirettamente l'appannaggio di quel territorio a quel mafioso, a quel clan, gli attribuisce una podestà. È nelle prerogative di chi comanda sottoporre a tassazione chi fa parte del territorio che controlla. Le tasse, i dazi, le gabelle rispondevano nell'ancien regime al riconoscimento monetario (o attraverso beni in natura) di una gerarchia del potere. Perciò l'estorsione è il riconoscimento pubblico di una podestà territoriale. Come si fa, infatti, a dimostrare che si domina un territorio se non lo si sottopone a tassazione? E, insomma, attraverso il prelievo forzato che inizialmente si afferma la legittimità di qualsiasi potere sovraordinato. Nell'estorsione criminale, infatti, non è tanto importante il guadagno che si ricava quanto stabilire una gerarchia del comando sul territorio. Attraverso l'estorsione si riceve dalla vittima al tempo stesso un guadagno materiale e una legittimazione di podestà.
Che all'inizio l'estorsione non avesse lo scopo di protezione è dimostrato dal fatto che tale attività si praticava nelle carceri e non era altro che l'imposizione di una gerarchia, di un ordine violento tra violenti. Ed è nelle carceri che nascerà la parola "pizzo" per identificare questa attività, come vedremo più avanti. Quando sullo stesso territorio si esercita una doppia podestà, come succede in gran parte della storia d'Italia, non è la paura l'elemento decisivo del successo dell'estorsione ma la mancanza di fiducia nello Stato, anzi la paura è conseguenza dell'assenza di fiducia. Ma ogni qualvolta lo Stato afferma la sua presenza, sia sotto forma di maggiore sicurezza sia come autonoma tassazione, regredisce l'attività estorsiva. L'estorsione mafiosa, dunque, ha alle spalle una lunga storia in cui il potere "costituito" si presentava solo sotto forma di esazione di tributi per chi esercitava attività economiche. Capiremo poco dell'accettazione culturale dell'estorsione senza questi precedenti storici.
Da almeno due secoli nelle tre regioni a presenza mafiosa i commerci, soprattutto i piccoli commerci, sono sottoposti a una tassazione alternativa a quella dello Stato. Il fenomeno si è poi trasformato in allarme sociale a partire dagli anni Settanta del Novecento, con prime forme di reazione pubblica e di denuncia. Ciò è avvenuto a seguito delle varie riforme tributarie che hanno interessato massicciamente anche il settore commerciale, cioè da quando i commercianti hanno cominciato a pagare le tasse allo Stato. Quindi non c'è stata reazione al fenomeno estorsivo fin quando è rimasto in campo un solo tipo di tassazione: quella delinquenziale. La ribellione sociale comincia quando la fiscalità criminale si cumula a quella ufficiale dello Stato, e i margini di profitto nei commerci si fanno più ristretti. Se lo Stato accompagna alla tassazione generale (senza tollerare evasioni ed elusioni) la sicurezza sulle attività commerciali, l'estorsione è un'attività destinata a finire. Finisce, cioè, quando è lo Stato che non accetta suoi succedanei, fa pagare le tasse a tutti e consente lo svolgersi dei commerci e delle transazioni economiche in piena sicurezza.
Origine della parola pizzo
L'utilizzo del termine "pizzo" nel senso di tangente estorta, nasce sicuramente nella seconda metà dell'Ottocento ed è probabilmente un'espressione giornalistica, perché prima l'abbinamento di "pizzu" con tangente o estorsione non apparteneva al dialetto siciliano, né tantomeno alla lingua italiana. Tutti gli studiosi danno per scontata, invece, l'attribuzione del termine alla lingua siciliana, perché abbinano la parola "pizzu" con il becco degli uccellini, in sintonia con l'antico modo di dire "fari vagnari 'u pizzu" che significa appunto "far bagnare il becco", dare la possibilità di rinfrescarsi con un bicchiere di acqua o di vino a un viandante. Da qui l'espressione è poi passata a significare "piccola ricompensa a un amico che ti ha fatto un favore", cioè una semplice cortesia nella vita quotidiana si è trasformata in "una metafora che allude alla possibilità data ai mafiosi di attingere in modo parassitario alle ricchezze altrui". I mafiosi avrebbero ingentilito la loro attività, ammantandola di quella falsa umiltà e cortesia che da sempre caratterizza il loro linguaggio. Successivamente si è associata la parola pizzu a pizzino, cioè al pezzo di carta su cui si scriveva la richiesta di tangente.
È convincente questa spiegazione? Sicuramente "pizzino" in siciliano non corrisponde a "lettera di estorsione", ma a pezzo di carta "arrotolato o ripiegato in cui stava scritta una richiesta, una supplica, più raramente una valutazione riservata su questo o su quel personaggio. Il foglietto conteneva ciò che non stava bene chiedere o dire in pubblico". Pizzo e pizzino in dialetto siciliano sono due cose distinte, l'uno non deriva direttamente dall'altro. "Il pizzino era uno degli oggetti simbolici della struttura clientelare. Le clientele, quelle vaste e minute fatte di migliaia di persone, si nutrivano dei pizzini. Dopo ogni comizio l'oratore se ne trovava le tasche della giacca zeppe, molti entrati a sua insaputa, durante un bacio o una frettolosa stretta di mano", ricorda Nando dalla Chiesa. È indubbio che il vocabolo ha raggiunto la massima diffusione dopo la cattura nel 2006 di Bernardo Provenzano e il ritrovamento di centinaia di biglietti manoscritti dell'allora capo di Cosa nostra ai suoi fedelissimi e di altrettanti a lui diretti. Da quel momento in poi la parola è abbinata a messaggio di ordini, consigli, suggerimenti, cioè a una particolare modalità di tenuta delle relazioni da parte di un capomafia latitante con il suo mondo. In ogni caso, non come lettera di estorsione. È proprio la scoperta delle modalità di comunicazione di Provenzano a intaccare il rapporto linguistico tra pizzo e pizzino.
Ma contrariamente a quello che si crede, la parola pizzo non deriva dal siciliano ma è una parola della lingua napoletana usata nel circuito carcerario. Ne abbiamo una testimonianza storica da ciò che scrive nelle sue memorie il duca di Castromediano che finì in carcere per cospirazione contro il regime borbonico nel 1851: "Il campo più propizio a un camorrista erano appunto carceri e galere. Nelle une e nelle altre regnava la camorra. Imposizioni fisse per consuetudine all'ingresso nelle strutture detentive per i nuovi arrivati erano il contributo per l'olio della lampada posta davanti a un'immagine della Madonna e il pagamento per il pizzo, cioè per il posto dove dormire, prezzando specie i migliori". E proprio questo abbinamento della parola pizzo a giaciglio carcerario ottenuto in cambio di un pagamento, che ci fa riportare la parola pizzo a una origine napoletana e non siciliana. Se ne dà conferma nel libro "La mala setta" di Franco Benigno. Il termine si riferirebbe appunto al piccolo giaciglio di paglia a cui avevano diritto i carcerati appena entrati. I camorristi disponevano del controllo di questi miseri letti e li assegnavano ai nuovi entrati in cambio di soldi: da qui l'identificazione del vocabolo pizzo con estorsione.
Un ulteriore legame della parola pizzo al dialetto napoletano ci viene segnalato dallo studio di Marc Monnier La camorra del 1862. Leggiamo questo passo in cui un cocchiere napoletano intervistato dall'autore sulla vendita dei cavalli così risponde: "Io sono un uomo assassinato. Ho comprato un cavallo morto, che non conosce le strade, non vuole passare che dai luoghi che a lui piacciono. Che sdrucciola alle salite, cade alle scese, ha paura de' mortaretti e delle campane, che ieri si è impennato nella grotta di Posillipo e ha schiacciato un branco di pecore che gli impediva il cammino. Un camorrista che mi protegge e che aveva il suo pizzo al mercato de' cavalli, mi avrebbe risparmiato questo furto. Egli sorvegliava le vendite e riceveva la sua mancia dal venditore e dal compratore. Io l'anno scorso avevo da vendere un cavallo cieco, ed egli l'ha fatto passare per buono, perché mi proteggeva. È stato messo in prigione e io sono stato costretto a comprare senza di lui questo cavallaccio. Era un galantuomo!" Come è evidente, il carrettiere fa riferimento a pizzo come luogo in cui il camorrista svolge la sua (per lui benefica) attività estorsiva. Nel dialetto napoletano la parola pizzo, infatti, vuol dire piccolo angolo, piccolo luogo o posto. Il camorrista, dunque, è nel suo "pizzo", al suo "posto di lavoro", nel suo "ufficio all'aperto" e controlla il territorio e le attività che si svolgono facendosi pagare.
La reazione di massa all'estorsione
Ancora nel 1981, in un tribunale italiano, in particolare in quello di Catania, un giudice manda assolti degli imprenditori per aver pagato il pizzo con questa motivazione: "Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi... se tutti facessero così dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme". Si tratta del magistrato Luigi Russo ed è bene che la sua sentenza sia passata alla storia come tutto ciò che un uomo dello Stato non deve fare per combattere l'estorsione. Non è in discussione il fatto che gli estorti siano vittime (perché tali sono) ma la considerazione che ribellarsi al pizzo è un danno all'economia. Anzi è vero esattamente il contrario, come studi approfonditi hanno dimostrato nel corso degli anni: il pagamento del pizzo è un pesante ostacolo allo sviluppo economico delle zone interessante perché da una parte distoglie risorse che potrebbero essere utilizzate come ulteriori investimenti aziendali e dall'altro non induce a migliorare la propria attività o a ingrandirla per timore di essere sottoposti a un aumento della tassazione criminale. Ed è proprio a ridosso di quella assurda sentenza che si avvierà particolarmente in Sicilia un movimento antiracket che culminerà con la nascita della prima associazione dei commercianti di Capo D'Orlando guidati da Tano Grasso e poi dall'azione solitaria a Palermo da parte di Libero Grassi.
E sarà proprio il siciliano Libero Grassi l'emblema di quegli imprenditori italiani che in nome di un ideale e non del semplice profitto hanno sacrificato la loro vita in tempo di pace. La sua lettera aperta agli estorsori pubblicata sul Giornale di Sicilia (dal titolo Cari estorsori non vi pago in cui lui spiega le ragioni per le quali non si sottomette alle richieste estorsive) e poi le sue parole alla trasmissione televisiva Samarcamda di Michele Santoro sono alcune delle pagine più alte della storia civile del nostro Paese. L'imprenditore sarà ucciso sotto casa il 19 agosto 1991. E l'allora presidente della Confindustria in Sicilia pronunciò parole indegne. Al contrario, la contemporanea azione di contrasto al pizzo dei commercianti di Capo D'Orlando avrà successo: a dicembre 1990 viene costituita in questa cittadina la prima associazione antiracket in Italia, a gennaio 1991 vengono arrestate 20 persone sulla base della denuncia di alcuni commercianti membri dell'associazione, gli stessi commercianti si costituiranno parte civile nel processo agli estorsori che vennero tutti condannati nel novembre successivo e la sentenza fu poi confermata nel 1993 dalla Suprema Corte: un successo epocale, la dimostrazione che il pizzo si poteva non pagare, che i mafiosi potevano essere condannati, a condizione che ci fosse una stretta cooperazione tra cittadini e rappresentanti delle forze dell'ordine e della magistratura e che i commercianti si organizzassero tra loro.
L'esperienza di Capo D'Orlando divenne così un modello da seguire in tutte le zone oppresse dal pizzo: per la prima volta si "potevano denunciare gli estorsori senza mettere a rischio la propria vita, grazie alla denuncia collettiva" scriverà a proposito Tano Grasso. E fu proprio sulla base di questa rivolta organizzata che il Parlamento varò delle norme a sostegno delle imprese danneggiate a seguito di ritorsione per il mancato pagamento del pizzo, che fu istituito un Commissariato nazionale per la lotta all'estorsione e all'usura e fu incentivata la nascita di nuove organizzazioni antiracket. Con alti e bassi questo movimento di contrasto si è affermato come una stabile presenza nel campo dell'antimafia fino ad arrivare a qualcosa di inimmaginabile: l'affissione a Palermo di manifestini in cui si scriveva che "un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità", a firma di un gruppo di giovani che poi darà vita ad una associazione significativamente denominata Addiopizzo. Un'altra importante esperienza di denuncia collettiva (e di condanna degli estorsori) avverrà a Ercolano, in provincia di Napoli (si legga a tal proposito il bel libro La camorra e l'antiracket di N. Daniele, A. Di Florio e T. Grasso) in cui il sindaco, le forze di polizia, i commercianti associati e i magistrati collaboreranno pienamente dimostrando ancora una volta che non ci sono situazioni irrecuperabili e che le mafie si possono combattere con successo se i cittadini ritrovano fiducia in chi rappresenta lo Stato

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