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da http://laprovinciapavese.gelocal.it/tempo-libero/ del 18 marzo 2017
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VOGHERA. A vederla adesso, il sorriso generoso e la voce squillante, non indovinereste mai cosa si nasconde nel passato di Erica Grazioli, trentaduenne di Magherno che alla libreria Ticinum di Voghera ha presentato il suo romanzo autobiografico “Cioccolato e cannella”. Nel libro edito da Selecta ( copertina a destra ) , Erica ha messo nero su bianco la sua lunga lotta contro una malattia insidiosa, di cui si parla raramente e spesso senza capirla appieno: l’anoressia. Per quasi sette anni ha combattuto per riuscire a sconfiggerla, e una volta uscita dal tunnel ha deciso di trasformare la sua esperienza in qualcosa che potesse essere d’aiuto a tante altre ragazze come lei, che ogni giorno cercano di vincere la battaglia contro il proprio corpo.
Erica, come ci si ammala di anoressia?
«Per ognuna è diverso, non è vero quello che si dice che per lo più diventano anoressiche quelle ragazze che aspirano a un corpo perfetto, che desiderano raggiungere canoni di bellezza impossibile. Io mi sono ammalata relativamente tardi, in un periodo di stress: nel tentativo di accontentare tutti, di risultare sempre impeccabile, ho finito per dimenticarmi di me stessa, per annullarmi completamente. Fino a pesare trenta chili. Ci sono ragazze che si ammalano per carenza di affetto, per attirare l’attenzione della famiglia. In ogni caso si ammalano per lo più ragazze troppo sensibili e con una bassa autostima».
Sono tante?
«Tantissime, molte più di quanto non credessi. Nonostante durante la malattia abbia parlato spesso con altre ragazze con il mio stesso problema, non mi sono resa conto di quante fossero fino a che non ho pubblicato questo libro. Quando ne parlo con qualcuno, più o meno una persona su ciqnue mi confida di aver sofferto in prima persona di anoressia o di avere una sorella, una zia, un’amica con lo stesso problema. Spesso si crede che questa malattia riguardi solo le ragazze giovani ma non è così: anche se l’età media di chi ne viene colpito si sta abbassando, ci sono anoressiche di tutte le età, anche di sessant’anni».
Come ci si accorge che una persona è anoressica?
«Quando imbocchi la strada dell’anoressia, la malattia ti cambia. Non sei più tu. Io ero nervosa, scostante, in certi casi cattiva sia nei miei confronti che in quelli degli altri. Non uscivo più, non ridevo più, trascorrevo molto tempo da sola. Ciò non significa che chiunque si comporti così stia diventando anoressico, ma se notate un cambiamento in questo senso forse è il caso comunque di indagare: i disturbi alimentari, infatti, sono solo uno dei possibili esiti di un simile comportamento».
Come si cura?
«L’iter medico tradizionale prevede flebo e ricostituenti, ovviamente, e ricoveri in ospedale o in strutture riabilitative abbinati a una terapia psicologica individuale e di gruppo. E per lo più, anche la somministrazione di psicofarmaci. Io però non ne ho mai voluto sapere».
Di psicofarmaci?
«Sì, e anche della psicoterapia. Ho fatto una sola seduta in vita mia e mi sono resa conto subito che non faceva per me. Non me la sentivo di affrontare con un estraneo certi argomenti, di spiegargli cosa c’era che non andava in me. Così in larga parte ( fatto salvo per un periodo di un paio di mesi in ospedale quando proprio non ho potuto farne a meno) ho portato a termine da sola il mio percorso, ne sono uscita con le mie sole forze».
Cosa l’ha aiutata?
«Parlare con chi aveva il mio stesso problema è stato di grande aiuto, ed è anche per questo che ho scritto un libro sulla mia esperienza e continuo a frequentare ragazze malate di anoressia. I disturbi alimentari sono subdoli, difficili da comprendere. Uno pensa “che ci vuole a uscirne, devi solo mangiare”, e non si rende conto che è contro la tua mente che lotti, e che non ne riesci ad avere il controllo. Non è diversa da qualunque altra malattia mentale, in effetti».
E se ne esce davvero?
«Se ne esce, sì, ma non è detto che se ne esca per sempre. Nel mio caso, avendo avuto origine da un periodo di stress, torna a bussare alla porta quando aumentano le tensioni, sia a livello relazionale che a livello lavorativo. Ora però ho imparato a riconoscerne
i segnali e quando mi accorgo di essere a rischio, metto la mia salute al primo posto. Tiro fuori un po’ di sano egoismo, e lo faccio perché se c’è una cosa che questa malattia mi ha insegnato, è che devo voler bene a me stessa e al mio corpo».
Serena Simula
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