La Cronaca Italiana.
01 marzo 2017
CASTIGLIONE DELLE STIVIERE
Anna racconta la sua anoressia: «Così sono uscita dall’inferno»
A tredici anni i primi disturbi alimentari, poi il controllo delle calorie e infine il rifiuto totale del cibo I genitori l’hanno affidata a un’équipe dell’ospedale di Pieve: «A medici e assistenti dobbiamo tutto»
CASTIGLIONE DELLE STIVIERE. Una storia di gravi disturbi alimentari, di un’adolescente che porta con sé la consapevolezza che uniti si può vincere la paura degli altri e si può risalire la scala dell’inferno. Non senza impegno, ma uscire a rivedere le stelle è possibile. È la storia di una ragazzina che oggi ha quindici anni e che soffriva di anoressia da due anni (la chiameremo Anna, anche se non è il suo vero nome) e di una famiglia di Castiglione delle Stiviere che ha affrontato con lei un lungo calvario. E che ha saputo, non senza fatica, trovare una via d’uscita, un aiuto e una soluzione.
Tanto da arrivare alla guarigione di Anna, una cosa che sembrava impossibile. «Non è stato facile» dicono i tre componenti della famiglia, uniti in un racconto intimo che li ha visti prima separati e isolati e ora seduti attorno allo stesso tavolo a parlare del lungo percorso non ancora terminato.
«Vorremmo far conoscere la nostra storia per dare una mano a chi vive questa situazione – dicono in coro – abbiamo perso del tempo ma siamo riusciti a trovare il giusto percorso e questo ci ha permesso di essere aiutati. Non c’è nulla di male a chiedere aiuto, questo è il primo consiglio. Perché servono specialisti e perché da soli non si può fare nulla. Bisogna stare attenti alle piccole cose che sfuggono nella routine quotidiana o si camuffano nelle tensioni tipiche degli adolescenti verso la propria famiglia».
«Forse il tutto inizia così – racconta Anna, che ha cominciato ad avere disturbi alimentari a tredici anni – di preciso non so dire come sia iniziata. Forse alle scuole medie, con le amicizie, i primi discorsi sull’essere apprezzata, ma anche i primi rapporti con il cibo spazzatura». E allora ecco la dieta forzata, il vomito indotto, il corpo che si fa sempre più sottile, come il rapporto con gli altri.
Questa storia aggiunge un elemento, figlio della nostra epoca, molto spesso sottovalutato, il mondo dei social. Facebook, Tumbler, ma soprattutto Instagram. La colpa non è tutta loro, ma in questa vicenda (e non solo in questo caso) i social entrano da co-protagonisti.
«Arrivata alle scuole Superiori il confronto con le compagne, nel contatto diretto e via social, piano piano mi ha spinto alla ricerca di informazioni sul cibo e sull’essere sana. Questo volevo essere, una ragazza sana. Ho scoperto le cure proposte dai social, quella dell’acqua e limone e dell’acqua e fragole ad esempio, per purificare l’organismo. O quella del the verde. Bevevo litri di the verde. Poi sono arrivata alla fase vegetariana e alla fine vegana. Non volevo grassi, latticini, cibi animali. Poi sono passata alla fase dell’ortoressia, la scelta e l’eliminazione volontaria dei cibi. Poi al calcolo delle calorie, in ultimo sono arrivata a ingerirne solo 200 al giorno, fino alla scoperta di cibi con 5 calorie (le gallette) o con 1 caloria (la Coca-cola 0 o quella Light). Ero sola, per me esisteva solo la bilancia. Mi pesavo di continuo. Mangiare a tavola con i miei era una lotta. Mentivo di continuo, a me stessa e ai miei genitori. A loro dicevo che mangiavo di pomeriggio ma non era vero. Se facevo sport non volevo mangiare, avrei ripreso quello che avevo perso. Masticavo 80 volte prima di ingurgitare il cibo; mangiavo lo yogurt, ma poco e con il cucchiaio girato, sfiorandolo e basta. Tenevo un diario, i miei genitori lo hanno visto dopo. Ci scrivevo quello che mangiavo e che non volevo più mangiare. Ero in un nido, continuavo a perdere peso, esistevo solo io, chiusa in me stessa».
Non è una questione di piacere agli altri – continua Anna – ma solo di ossessione verso il cibo. Non è vero che non hai fame; ne hai, eccome. Qualcosa dentro di te, però, ti dice di non mangiare. Sono uscita da questo inferno con le unghie. Ho chiesto aiuto ai miei, e dopo una dura lotta con me stessa ho trovato nell’equipe di Pieve persone che sanno come si entra in quel nido costruito con tanta cura e tanto dolore. Voglio dire alle altre ragazze che quel nido non è vita, la vera vita è la libertà di non aver paura di mangiare. Nascondersi in quel nido non ci protegge, ma ci isola e tutto perde valore e si resta soli. Chiedere aiuto, anche se difficile, è fondamentale. Chiedere aiuto, uscire dal nido e riassaporare la libertà restituisce tutto, ma è un percorso lungo, bisogna aggrapparcisi con le unghie. E così torna il sorriso...».
«Abbiamo scoperto un mondo di cui non avevamo alcuna coscienza – raccontano i genitori – pagine e pagine sui social, foto, applicazioni, blog dove si parla di fantomatiche diete, di soluzioni per purificare il corpo e renderlo sano, dove vengono messi in mostra corpi scheletrici e l’autolesionismo come vetrina di esposizione».
In questo caso funziona il contrario di quanto insegna ogni personal trainer che si rispetti. E cioè: dividi il problema e affrontane un pezzo alla volta. La nascita di questo problema va guardata nella sua complessità, senza tralasciare nulla, senza poter separare una cosa dall’altra, perché tutti questi elementi concorrere insieme a genera e far esplodere il problema.
«Per questo è complesso – afferma la famiglia – serve l’aiuto di un’equipe preparata che lavori coordinata. Noi abbiamo avuto questa fortuna, ma non è stato facile. Il medico di base è spesso impreparato e inoltre, svuotato della sua funzione, non può essere di grande aiuto. Siamo stati a Gussago (Brescia) ma in quella struttura curano dai 16 anni in su. Siamo stati al reparto di neuropsichiatria al Civile di Brescia, ma anche in quel caso la struttura non è adatta a questi problemi, che sono di diversa natura. Ci sono stati mesi di attesa. Siamo stati anche da una psicologa, però non si è rivelata la persona giusta. Spesso il problema viene letto come causa di noia, indecisione se non di eccesso di possibilità, anche perché colpisce soprattutto ragazze con situazioni familiari e una situazione economica sicure. Dopo mesi di attesa siamo arrivati all’ospedale Poma, al reparto di Neuropsichiatria. E da lì, finalmente, ci hanno indirizzati a Pieve di Coriano dove, nel reparto di Pediatria, c’è un settore di neuropsichiatria, Qui abbiamo trovato l’equipe giusta, a cui va tutta la nostra riconoscenza. Da quel momento, lentamente, abbiamo iniziato una lunga risalita. L’équipe è formata e specializzata in disturbi dell’alimentazione ed è in grado di affrontare la situazione nella sua complessità. Dobbiamo tutto alle dottoresse Accorsi (primario), Bellissimo, Faldoni e Di Genni, alla coordinatrice Ferraresi e a tutto il personale infermieristico e agli Oss che hanno preso a carico la nostra situazione. Nostra figlia è stata ricoverata in una struttura che ha pochi letti e meriterebbe molto più spazio: purtroppo ci sono molte situazioni come la nostra. Il fattore tempo è decisivo, non serve perderne. Se fossimo arrivati qui prima, sarebbe stato meglio per tutti».
Il tempo gioca un ruolo decisivo in tutta la vicenda, sia sul fronte dei genitori – «abbiamo vissuto mesi duri, di lotte e di liti feroci, ma anche di attese alla ricerca di un aiuto che abbiamo trovato e che oggi ci vede frequentare un gruppo di genitori per parlare e confrontarci» sia sul fronte di Anna.
Anna racconta la sua anoressia: «Così sono uscita dall’inferno»
A tredici anni i primi disturbi alimentari, poi il controllo delle calorie e infine il rifiuto totale del cibo I genitori l’hanno affidata a un’équipe dell’ospedale di Pieve: «A medici e assistenti dobbiamo tutto»
CASTIGLIONE DELLE STIVIERE. Una storia di gravi disturbi alimentari, di un’adolescente che porta con sé la consapevolezza che uniti si può vincere la paura degli altri e si può risalire la scala dell’inferno. Non senza impegno, ma uscire a rivedere le stelle è possibile. È la storia di una ragazzina che oggi ha quindici anni e che soffriva di anoressia da due anni (la chiameremo Anna, anche se non è il suo vero nome) e di una famiglia di Castiglione delle Stiviere che ha affrontato con lei un lungo calvario. E che ha saputo, non senza fatica, trovare una via d’uscita, un aiuto e una soluzione.
Tanto da arrivare alla guarigione di Anna, una cosa che sembrava impossibile. «Non è stato facile» dicono i tre componenti della famiglia, uniti in un racconto intimo che li ha visti prima separati e isolati e ora seduti attorno allo stesso tavolo a parlare del lungo percorso non ancora terminato.
«Vorremmo far conoscere la nostra storia per dare una mano a chi vive questa situazione – dicono in coro – abbiamo perso del tempo ma siamo riusciti a trovare il giusto percorso e questo ci ha permesso di essere aiutati. Non c’è nulla di male a chiedere aiuto, questo è il primo consiglio. Perché servono specialisti e perché da soli non si può fare nulla. Bisogna stare attenti alle piccole cose che sfuggono nella routine quotidiana o si camuffano nelle tensioni tipiche degli adolescenti verso la propria famiglia».
«Forse il tutto inizia così – racconta Anna, che ha cominciato ad avere disturbi alimentari a tredici anni – di preciso non so dire come sia iniziata. Forse alle scuole medie, con le amicizie, i primi discorsi sull’essere apprezzata, ma anche i primi rapporti con il cibo spazzatura». E allora ecco la dieta forzata, il vomito indotto, il corpo che si fa sempre più sottile, come il rapporto con gli altri.
Questa storia aggiunge un elemento, figlio della nostra epoca, molto spesso sottovalutato, il mondo dei social. Facebook, Tumbler, ma soprattutto Instagram. La colpa non è tutta loro, ma in questa vicenda (e non solo in questo caso) i social entrano da co-protagonisti.
«Arrivata alle scuole Superiori il confronto con le compagne, nel contatto diretto e via social, piano piano mi ha spinto alla ricerca di informazioni sul cibo e sull’essere sana. Questo volevo essere, una ragazza sana. Ho scoperto le cure proposte dai social, quella dell’acqua e limone e dell’acqua e fragole ad esempio, per purificare l’organismo. O quella del the verde. Bevevo litri di the verde. Poi sono arrivata alla fase vegetariana e alla fine vegana. Non volevo grassi, latticini, cibi animali. Poi sono passata alla fase dell’ortoressia, la scelta e l’eliminazione volontaria dei cibi. Poi al calcolo delle calorie, in ultimo sono arrivata a ingerirne solo 200 al giorno, fino alla scoperta di cibi con 5 calorie (le gallette) o con 1 caloria (la Coca-cola 0 o quella Light). Ero sola, per me esisteva solo la bilancia. Mi pesavo di continuo. Mangiare a tavola con i miei era una lotta. Mentivo di continuo, a me stessa e ai miei genitori. A loro dicevo che mangiavo di pomeriggio ma non era vero. Se facevo sport non volevo mangiare, avrei ripreso quello che avevo perso. Masticavo 80 volte prima di ingurgitare il cibo; mangiavo lo yogurt, ma poco e con il cucchiaio girato, sfiorandolo e basta. Tenevo un diario, i miei genitori lo hanno visto dopo. Ci scrivevo quello che mangiavo e che non volevo più mangiare. Ero in un nido, continuavo a perdere peso, esistevo solo io, chiusa in me stessa».
Non è una questione di piacere agli altri – continua Anna – ma solo di ossessione verso il cibo. Non è vero che non hai fame; ne hai, eccome. Qualcosa dentro di te, però, ti dice di non mangiare. Sono uscita da questo inferno con le unghie. Ho chiesto aiuto ai miei, e dopo una dura lotta con me stessa ho trovato nell’equipe di Pieve persone che sanno come si entra in quel nido costruito con tanta cura e tanto dolore. Voglio dire alle altre ragazze che quel nido non è vita, la vera vita è la libertà di non aver paura di mangiare. Nascondersi in quel nido non ci protegge, ma ci isola e tutto perde valore e si resta soli. Chiedere aiuto, anche se difficile, è fondamentale. Chiedere aiuto, uscire dal nido e riassaporare la libertà restituisce tutto, ma è un percorso lungo, bisogna aggrapparcisi con le unghie. E così torna il sorriso...».
«Abbiamo scoperto un mondo di cui non avevamo alcuna coscienza – raccontano i genitori – pagine e pagine sui social, foto, applicazioni, blog dove si parla di fantomatiche diete, di soluzioni per purificare il corpo e renderlo sano, dove vengono messi in mostra corpi scheletrici e l’autolesionismo come vetrina di esposizione».
In questo caso funziona il contrario di quanto insegna ogni personal trainer che si rispetti. E cioè: dividi il problema e affrontane un pezzo alla volta. La nascita di questo problema va guardata nella sua complessità, senza tralasciare nulla, senza poter separare una cosa dall’altra, perché tutti questi elementi concorrere insieme a genera e far esplodere il problema.
«Per questo è complesso – afferma la famiglia – serve l’aiuto di un’equipe preparata che lavori coordinata. Noi abbiamo avuto questa fortuna, ma non è stato facile. Il medico di base è spesso impreparato e inoltre, svuotato della sua funzione, non può essere di grande aiuto. Siamo stati a Gussago (Brescia) ma in quella struttura curano dai 16 anni in su. Siamo stati al reparto di neuropsichiatria al Civile di Brescia, ma anche in quel caso la struttura non è adatta a questi problemi, che sono di diversa natura. Ci sono stati mesi di attesa. Siamo stati anche da una psicologa, però non si è rivelata la persona giusta. Spesso il problema viene letto come causa di noia, indecisione se non di eccesso di possibilità, anche perché colpisce soprattutto ragazze con situazioni familiari e una situazione economica sicure. Dopo mesi di attesa siamo arrivati all’ospedale Poma, al reparto di Neuropsichiatria. E da lì, finalmente, ci hanno indirizzati a Pieve di Coriano dove, nel reparto di Pediatria, c’è un settore di neuropsichiatria, Qui abbiamo trovato l’equipe giusta, a cui va tutta la nostra riconoscenza. Da quel momento, lentamente, abbiamo iniziato una lunga risalita. L’équipe è formata e specializzata in disturbi dell’alimentazione ed è in grado di affrontare la situazione nella sua complessità. Dobbiamo tutto alle dottoresse Accorsi (primario), Bellissimo, Faldoni e Di Genni, alla coordinatrice Ferraresi e a tutto il personale infermieristico e agli Oss che hanno preso a carico la nostra situazione. Nostra figlia è stata ricoverata in una struttura che ha pochi letti e meriterebbe molto più spazio: purtroppo ci sono molte situazioni come la nostra. Il fattore tempo è decisivo, non serve perderne. Se fossimo arrivati qui prima, sarebbe stato meglio per tutti».
Il tempo gioca un ruolo decisivo in tutta la vicenda, sia sul fronte dei genitori – «abbiamo vissuto mesi duri, di lotte e di liti feroci, ma anche di attese alla ricerca di un aiuto che abbiamo trovato e che oggi ci vede frequentare un gruppo di genitori per parlare e confrontarci» sia sul fronte di Anna.
Luca Cremonesi
la seconda ( come la terza , non ricordo la fonte , ricordo solo che è un dei tanti giornali del gruppo GeoLocal ( pagina fb La Cronaca Italiana ed account twitter @gelocalcronacaitaliana
)
Empoli, il piccolo Gabriele ha chiesto ai genitori una colletta in favore dei suoi coetanei vittime del terremoto. Poi ha devoluto i soldi all'associazione di volontariato Misericordia. Il suo gesto non è rimasto innoservato tanto che L’Empoli calcio l'ha premiato con una maglia e invitato ad assistere ad un allenamento per farla firmare dai giocatori azzurri
Gabriele Bochicchio (a sinistra), accanto il fratellino Lorenzo e dietro i genitori Stefania e Massimiliano (Foto Agenzia Carlo Sestini)
EMPOLI. Un detto popolare dice che, dai bambini c'è solo da imparare. Il loro animo puro, il loro altruismo e la loro generosità devono essere presi da esempio da molti aduli La generosità e l'altruismo dei quali fare tesoro questa volta sono quelli del piccolo Gabriele Bochicchio. Un "pulcino" di 8 anni, ma con un cuore grande, anzi gigantesco che ha deciso di aiutare chi non è stato fortunato come lui. Gabriele vive a San Pantaleo, una piccola frazione collinare adagiata sulle colline di Vinci. Va a scuola e gioca a pallone nel Montalbano. Come tutti i suoi coetanei passa le giornate tra i banchi e in mezzo al campo di pallone.
A fine agosto era a casa con i genitori, quando sullo schermo della tv ha visto passare le terribili immagini del terremoto che ha colpito il Centro Italia. Case crollate, paesi straziati, piccole frazioni come quella dove abita lui completamente distrutte. Bambini, proprio come lui che hanno perso tutto quello che avevano. Scene che lo hanno impressionato e colpito, a tal punto che parlando con i genitori ha deciso di fare una scelta inconsueta e generosa. Pochi giorni più tardi, l' 8 settembre, sarebbe stato il suo compleanno, da festeggiare come sempre con amici e parenti e soprattutto con tanti regali. Ma lui ha detto no e ha chiesto a mamma e a papà di non ricevere regali ma di utilizzare i soldi che amici e parenti avrebbero speso per farlo felice per aiutare chi ha più bisogno.
«Di regali e giochi ne abbiamo già tanti a casa - racconta il papà Massimiliano - qualcuno in più probabilmente non lo avrebbe reso più felice».
Niente doni, ma un regalo ben più grande è prezioso lo ha fatto a quei bambini come lui, ai quali il terremoto ha strappato il sorriso. E così ha messo su una colletta con il denaro raccolto tra amici e parenti e che doveva essere utilizzato per i doni. Con la somma raccolta lui e la famiglia hanno effettuato un bonifico alla Misericordia di Empoli per aiutare l'Arciocnfraternita nei progetti di aiuto e sostegno alle famiglie terremotate. «Abbiamo scelto la Misericordia perché so quanto impegno mettono in queste iniziative - racconta ancora il papà - proprio alla Miserciordia di Empoli ho fatto l'obiettore». Ha spalancato le sue braccia a chi aveva più bisogno, il piccolo Gabriele, ma un gesto così nobile non poteva certo cadere nel vuoto. È così giovedì 2 marzo proprio la Miserciordia ha voluto donare a Gabriele, quei regali a cui lui aveva rinunciato per il suo compleanno.
Nella sede dell'Arcionfraternita in via Cavour il piccolo Gabriele è arrivato emozionantissimo insieme al papà Massimiliano, alla mamma Stefania e al fratellino Lorenzo. Ad accoglierlo Fabrizio Sestini - presidente della Misericordia - e Alessia Puccini responsabile locale della Onlus Empoli for Charity, l'associazione benefica dell'Empoli calcio che collabora proprio con la Misericordia nei progetti di aiuto alle popolazioni terremotate. Al piccolo Gabriele è stato consegnato un kit con zaino, quaderno e altro materiale dell'Empoli, oltre ad una maglia della squadra azzurra, con l'invito ad assistere ad un allenamento per farla firmare dai calciatori azzurri. «Sono molto contento» ha detto con un filo di voce un emozionantissimo Gabriele. Ma di tante parole questa volta non ce n'è bisogno. Questa volta a fare la differenza è stato un gesto. Semplice ma allo stesso tempo immenso.
Si fanno i selfie lungo i binari e bloccano il traffico dei treni
Protagonisti tre giovani di Montelupo che sono stati identificati dai carabinieri per aver mandato in tilt la circolazione sulla linea Empoli- Firenze
MONTELUPO. Mezz’ora di traffico bloccato sulla linea Empoli Firenze. Il motivo? Tre selfie di troppo che altrettanti giovani si sono fatti lungo i binari ignari o comunque non curanti del fatto che questo avrebbe provocato il blocco della circolazione ferroviaria. Con centinaia e centinaia di passeggeri bloccati nelle stazioni del tratto interessato. E in attesa per decine di minuti che la circolazione potesse ripartire.
L’allarme è scattato intorno alle 15,30 di venerdì 3: «Ci sono persone lungo i binari», questa la notizia data anche da “Muoversi in Toscana”. E si è subito pensato a un incidente, a qualcosa che giustificasse la presenza di persone poco prima della stazione di Montelupo venendo da Firenze, in un tratto vicino a una galleria.Da qui l’intervento della polizia ferroviaria di Empoli. Essendo, però, impegnati in un servizio vicino a Pisa, sul luogo sono giunti prima i carabinieri della stazione di Montelupo fiorentino. Che hanno perlustrato tutto il tratto fino a capire chi erano le persone che erano state segnalate da un macchinista di uno dei treni in transito.In pratica all’altezza di un’ ex vetreria abbandonata sono stati trovati i giovani che, dall’immobile abbandonato, aveva deciso di trasferirsi in prossimità dei binari per farsi selfie col telefono, come da loro stessi candidamente affermato.
Sono tre i ragazzi, giovani e italiani, che i carabinieri hanno trovato e identificato. Nel frattempo nelle stazioni i disagi si stavano accumulando. Con centinaia di pendolari e studenti in attesa dei treni e di notizie su quanto stesse accadendo lungo la linea.Alla fine il bilancio del loro svago è stato pesante. Hanno subito ritardo numerosi treni regionali: 3167 Firenze Santa Maria Novella – Livorno Centrale 30 minuti; 11779 Firenze SMN – Siena 30 minuti; 3115 Firenze SMN – Grosseto 20minuti; 23363 Firenze SMN – Pontremoli 30 minuti; 23384 La Spezia - Firenze SMN 30 minuti; 3156 Livorno Centrale - Firenze SMN 20 minuti; 6876 Siena - Firenze SMN 25 minuti.
Non solo: grazie ai selfie Rete ferroviaria italiana è stata costretta anche a due cancellazioni: la corsa numero 11724 Empoli –Firenze Porta a Prato e la
11725 Firenze Porta a Prato – Empoli.Il traffico ferroviario è ripreso a scorrere regolarmente dopo le 16. Per quanto riguarda i responsabili dei disagi, dopo la loro identificazione, bisognerà capire ora se i carabinieri proseguiranno con una denuncia per interruzione di pubblico servizio.
«A otto anni – dice – imparai a suonare utilizzando le campane che mi regalavano genitori e parenti, sino alle prime esperienze da campanaro nella chiesa del mio paese. A Mezzana c’è una centralina computerizzata che, attraverso una tastiera, fornisce gli impulsi alle cinque campane in Fa-crescente che dominano dall’alto il paese. Ho imparo a comporre anche diverse melodie».Ogni domenica, prima della messa, Riccardo si esibisce nella chiesa del paese, poi si dedica al suono a corde, cioè alla vecchia maniera, delle due campane della chiesa di Cascine Nuove. «Sono un autodidatta sia con il suono a computer sia con l’uso tradizionale a corde, ma l’ultimo passo l’ho fatto imparando il suono delle tastiere a percussione – spiega il 14enne –. E a Castelnuovo Scrivia, sulla chiesa di San Desiderio, è ancora funzionante una tastiere che si aziona a colpi di palmi delle mani: un suono straordinario di cinque campane in Mi bemolle. Mi sono esibito già alcune volte sotto le indicazioni di alcuni campanari del Monferrato. È stata una vera emozione destare la gente con un concerto a distesa».Riccardo ha anche una collezione di campane: «Tra le varie campane metalliche che negli anni ho ricevuto in regalo, ne spiccano alcune di valore storico tra cui una in bronzo risalente a metà ‘800, comprata da un antiquario, un’altra altrettanto antica, anche se più piccola, che ho inserito nella torre campanaria del mio modellino di chiesa antistante la casa, una nuova e di ottimo valore realizzata l’anno passato dalla celebre fonderia di Reggio Emilia. È una collezione destinata a crescere».Intanto Riccardo pensa al suo futuro. «Dopo il diploma di geometra, vorrei specializzarmi in “campanologia”, la scienza che studia i suoni delle campane e i loro restauri – dice -. A Mezzana Bigli, due delle cinque che svettano dal campanile sono rovinate e potrebbero essere proprio le prime su cui intervenire. E poi il restauro delle chiese. Per ora ho disegnato a mano libera le facciate delle parrocchiali di Mezzana, Sannazzaro, Pieve del Cairo, Mede, Castelnuovo».Dinanzi casa il modellino della chiesetta in legno costruito da papà Paolo e mamma Raffaella con quattro piccole campane ben accordate: «Le uso per esercitarmi con un allenamento ormai quotidiano». E, quando Riccardo non è a scuola, suona anche il mezzogiorno per l’intero rione con un ben accordato scampanio.
Paolo Calvi
Nessun commento:
Posta un commento