in sottofondo le nuvole di fabrizio de Andrè
L’intervista alla poliedrica artista emiliana che ha pubblicato “Tornano Sempre”, un album nato dall’incontro con Giorgio Canali nel 2010 con il tributo ai Joy Division
di Giulia Zanichelli - 23 marzo 2017
Un lunghissimo filo di pensiero, decadente e intriso di inquietudine, rabbia malconcia e malinconiche asserzioni. Sono 10 le canzoni di Tornano sempre, ottavo album di Angela Baraldi. Sono tracce selvatiche, nate da un’improvvisazione corale, dall’unione della voce e del pianoforte di Angela Baraldi con le corde di Giorgio Canali (anche produttore del disco), i tasti o le chitarre di Stewie DalCol e la batteria di Vittoria Burattini dei Massimo Volume. Sono tracce infine addomesticate in un disco che lascia un segno, un lungo graffio, sul suo ascoltatore.
Angela, sei una donna totalizzata dall’Arte: musica, teatro, cinema, televisione… Come hai fatto a convivere tutto questo, tutta questa passione in una sola persona e in una sola vita?
“Pensa, ho anche studiato danza moderna da piccola (ride)! Credo sia un fatto un po’ caratteriale: mi sono sempre stancata a fare la stessa cosa. Diciamo che io sono stata molto attratta dall’idea del palcoscenico fin da quando ero bambina, e palcoscenico vuole dire tante cose…. Ma la parentesi del cinema è stata la più densa tra tutte le cose che ho fatto oltre alla musica”.
Il tuo suono è influenzato sia dal punk dei CCCP e CSI, da Massimo Zamboni, Giorgio Canali, che anche dalla scena cantautorale bolognese, Lucio Dalla in primis, un bel mix… “Sì in realtà ho cominciato in pieni anni 80, quindi diciamo che l’episodio CSI è l’ultimo di tutte le cose che mi sono successe. Non riesco a dirti che vengo da quella cosa lì. Inizialmente ho gravitato nell’ambiente dell’underground bolognese ed è lì che ho incontrato per la prima volta Zamboni, che ancora non aveva registrato niente, si erano tutti appena conosciuti. E poi ho rincontrato Massimo (Zamboni, ndr) dopo un sacco di tempo. Nel frattempo a me era successo di tutto: cinema, dischi, ho lavorato con Dalla, sono stata in giro con De Gregori ad aprire i suoi concerti…sì, in realtà sono frutto di una bella insalata mista di roba, proprio come dici”.
E quanto ti hanno diversamente segnato e condizionato queste esperienze, anche profondamente diverse, nelle tue scelte professionali?“Credo che spontaneamente tutto quello che vivi ti influenza: io cerco di fare tesoro di ogni esperienza di vita, dei grandi vantaggi che si hanno nel mio mestiere, del bello di crescere e diventare adulti. Cerco di incamerare tutto il meglio. Ad esempio, questi ultimi anni mi hanno dato molta sicurezza nei concerti, ho ripreso ad avere un dialogo con quello che faccio anche in pubblico, grazie al ruolo di interprete che per me era una cosa nuova (ha affiancato Zamboni nel 2016 nel tour di Solo una terapia: dai CCCP all’estinzione). Fino a pochi anni fa cantavo solo i miei pezzi, quindi questa ultima esperienza mi ha fatto crescere molto anche vocalmente”.
Il video del branoTornano sempre dall’album omonimo di Angela Baraldi su Rep.it
Parliamo di Tornano sempre, il nuovo disco. Com’è nato e perché? Cosa sentivi il bisogno di dire, se c’è qualcosa che volevi comunicare?
“Il disco è nato dall’incontro con Giorgio Canali, avvenuto con il tributo che abbiamo fatto insieme nel 2010 ai Joy Division, Suonando insieme abbiamo iniziato a pensare all’idea di fare anche un disco insieme, con lo stesso piglio con il quale abbiamo caratterizzato questo tributo. Così in questi anni abbiamo iniziato a fare diverse sessioni improvvisate e nel frattempo tra un concerto e l’altro io andavo avanti con i testi. Se devo dirti se avevo un’idea precisa di quello che stavo facendo la risposta è no, è stato tutto in progressione. Devo dire che una volta finito il disco il risultato mi ha anche meravigliato: è un lavoro coerente, involontariamente, ma mi fa piacere perché evidentemente nonostante tutto questo tempo sono rimasta collegata a un filo conduttore emotivo che ha dato al disco un carattere univoco. Sono molto soddisfatta quindi, è difficile mantenere l’attenzione per così tanto tempo”.
Chi è per te Michi Maus e perché dà il titolo a una tua canzone? Quando canti “Asfaltano le strade che vanno al mare e asfaltano anche me, e aspettano che tu sia solo” stai parlando della società di oggi?“Ho scelto Michi Maus perché lo trovo un personaggio triste, non mi è mai stato particolarmente simpatico. È un personaggio che immagino invecchiato, con le orecchie smangiucchiate: è nato nei primi del Novecento, poi ha avuto tante metamorfosi è stato rappresentato in tanti modi…io sono un po’ affezionata a quello di Pazienza, che è quello che molesta un po’ a livello psicologico, che viene fuori quando sei un po’ depresso, che ti indica la strada per approfondire i tuoi problemi. In realtà è stata una scelta involontaria, non saprei tornare indietro e capire perché è uscito lui…forse proprio perché è il meno simpatico della mia fantasia da bambina, mi piaceva molto più Pippo ad esempio. Non so poi se sto parlando della società di oggi o di quella di sempre…adesso sì, io sono testimone del mio tempo, e nei momenti di fragilità penso che sia un tempo crudele, con tutta quest’ansia da prestazione che c’è: come appari fisicamente, se sei solo o hai qualcuno, se hai fatto sesso tardi o presto, tutte queste cose che sono un po’ esistenziali, e un po’ anche adolescenziali. Trovo che sia un mondo particolarmente difficile per chi è tenero. Forse è sempre stato così, non lo so, ma questo è il grande momento dell’Esposizione Universale di tutti noi attraverso l’iper-comunicazione”.
Josephine invece è una sorta di inno alla libertà, a un essere selvaggio, un omaggio a chi lotta per alzarsi e rialzarsi ogni volta. Questo è anche il modo in cui tu intendi la vita?
“Questo pezzo è prima di tutto una dedica specifica a un personaggio, Josephine Baker, anche lei dei primi Novecento ma che rispetto a Topolino sta molto più avanti: è una donna che ha avuto una vita incredibile, c’è poca letteratura che la riguarda ma che io l’ho sempre molto amata, la trovo veramente una storia fonte di ispirazione. Secondo me la sua è la reazione giusta alla vita, non tutti ci riescono, ma lei è stata particolarmente forte: da schiava è riuscita a diventare una stella, pur essendo donna, pur essendo nera. Consiglio a tutti di leggere qualcosa della sua vita, soprattutto alle donne che magari si sentono ancora in un mondo con dei valori un po’ antiquati. Il nostro dopotutto è un Paese con un patriarcato ancora molto forte e sentito. Credo che lei sia una donna molto avanti e molto moderna, mi piace ricordarla e lodarla nella mia musica, come modello, come esempio da seguire”.
In Uomouovo e anche – seppure in modo diverso – in 1000 poeti si parla al contrario di un’indifferenza che regna sovrana, di una vacuità umana.
“Sì, sicuramente in Uomouovo l’indifferenza è il tema centrale. Secondo me è una cosa che c’è sempre stata l’indifferenza, non è una cosa di oggi. Un’indifferenza come autodifesa, chiusi nel proprio privato, nella propria casa pulita e ordinata. Allo stesso modo c’è un’indifferenza nella partecipazione a un mondo che conosciamo sempre di più attraverso questa iper-connessione che si rivela talvolta crudele. 1000 poeti parla invece della qualità e della quantità in questo mondo. È una canzone che ho finito di scrivere il giorno in cui è morto Bowie, e parla di ispirazione, di poesia. Ho sentito subito la mancanza di una figura seminale come lui, indicatrice anche di altre forme d’arte: seguendo lui ho conosciuto tanti altri artisti. Mancano in questo momento figure così. Sicuramente c’è tanta proposta, tanta più roba rispetto a prima, ma la qualità va cercata. Forse parla proprio di questo il pezzo: del riconoscere la qualità, che è una dote quasi divina”.
Hollywood Babylonia racconta una realtà disincantata, dove non si può più credere alle favole, dove si presentano personaggi non più così perfetti come mentalmente li pensavamo. Secondo te bisogna accettare un Peter Pan che si buca le vene e si fa di bufera o continuare a guardarlo volare su un cielo di cartone?
“Questi personaggi di cui parlo sono casi estremi, sono le prime star popolari. Mi piaceva raccontare queste storie, ho fatto l’attrice per un periodo e mi ha interessato anche umanamente questo ruolo, l’effetto che ha sulle persone. Faccio riferimento al famoso libro Hollywood Babylonia di Kenneth Anger, che racconta questa storia decadente e drammatica dell’ascesa e del crollo di questi primi idoli del cinema che ancora non avevano dimestichezza con la propria immagine e con l’idea che la gente aveva di loro. E che quindi sono stati portati molto in alto velocemente e ferocemente tirati giù dalla massa. Penso che queste persone vedessero di avere una vita bugiarda davanti: la percezione che la gente ha di te non è mai quello che tu sei realmente, e quando diventi un personaggio pubblico la cosa può essere veramente invasiva. Però io credo che, pur restando con i piedi molto per terra, uno debba permettersi di sognare. Il problema nasce quando il sogno e la realtà finiscono troppo assieme, quando la gente ti punta il dito. Qui io ho voluto solamente fermare un momento drammatico della vita di queste persone, non volevo trovare una morale, mi interessava solo il lato umano di questa storia. Ma comunque penso sia meglio godersi la vita, in generale”.
Tutti a casa, Chiudimi gli occhi, ma anche Immobili: sono tutte storie di vite che si perdono o vengono perse, vittime della violenza, del gelo umano. La disumanizzazione dell’uomo è un tema ritornante, drammatico e filtrante in tutto il tuo lavoro. Quanto credi che il “progresso” possa essere definito tale?
“Io penso che il progresso da solo, quello tecnologico, se non è accompagnato da un progresso umano, spirituale, possa essere delle due quasi un problema: immagino una macchina sempre più sofisticata guidata da una persona ancora primitiva, che ha ancora paura del buio e della solitudine. Noi siamo ancora legati a delle paure primordiali, quelle dell’uomo: da dove veniamo, dove andiamo. Il mistero che è proprio della condizione umana rimane quello. E questo progresso ci dà l’illusione di essere molto liberi, più formati e migliori, ma è un po’ uno specchio per le allodole. Penso che non sia questo o solo questo, penso che progresso sia anche empatia: sapersi mettere nei panni degli altri, avere questo tipo di educazione, avere un’educazione diversa nelle scuole, avere un’educazione sessuale diversa, più tollerante, più aperta. Trovo che sia più facile lanciare uno shuttle in aria che far progredire l’essere umano in una direzione spirituale, inteso non come religiosa ma come stato dello spirito, come capacità di relazionarsi con gli altri, di essere civili, semplicemente”.
Hai qualche progetto per il futuro, qualche sogno ancora nel cassetto nonostante le infinità di soddisfazioni che già ti sei presa?“Ne ho tanti, potrei stare ore ad elencarteli tutti! Ad esempio, ho avuto la fortuna di lavorare con un regista come Salvatores, è stato bellissimo e chissà che non possa ripetersi in futuro. Ma posso dirti? Il mio vero desiderio è essere felice, è il mio desiderio più grande per il mio futuro. E questo può comprendere tante cose, non solamente il lavoro. Non mi sono mai sentita completamente felice o realizzata, vorrei tanto essere una di quelle persone illuminate, che riescono ad avere questa possibilità. Io ho un carattere che mi porta sempre a guardare avanti, ci sto poco a gingillarmi nel brodo dell’autocompiacimento. Non credo che la felicità sia uno stato d’animo che può durare in maniera costante per molto tempo, penso sia una magia, come la musica”.
DA REPUBBLICA DEL 17 aprile 2017
Addio a Bruce Langhorne, il folksinger che ispirò 'Mr Tambourine Man' di Bob Dylan
Aveva 78 anni. Chitarrista e session musician collaborò, oltre che con Dylan, anche con Joan Baez e Gordon Lightfoot. Nel 1963 accompagnò la folksinger Odetta prima del celebre discorso di Martin Luther King
Bruce Langhorn Arrivò in studio con un tamburo turco extralarge decorato di campanellini e nacque una canzone immortale. Oggi il mondo della musica dice addio a Bruce Langhorne, il chitarrista che ispirò Mr Tambourine Man di Bob Dylan. Ma Dylan fu solo il nome più importante che incrociò la sua strada: suonò, tra gli altri, anche con Joan Baez, Gordon Lightfoot e Buffy Sainte-Marie. Langhorne è morto nel giorno di Venerdì Santo a Venice, in California. Aveva 78 anni.
Nato a Tallahassee, in Florida, si era trasferito da giovanissimo a Spanish Harlem, New York, Langhorne. Cominciò studiando il violino, poi fu la volta della chitarra. Ma nel corso degli anni avrebbe provato a suonare moltissimi altri strumenti. Bazzicava gli stessi luoghi di Dylan, in particolare il Greenwich Village. Era la fine degli anni Cinquanta, quando Dylan iniziava a interessarsi al folk, lasciando da parte l'iniziale passione per il rock&roll.
È stato lo stesso Dylan a dare a Langhorne - era il 1985 - il giusto credito di essere stato la sua musa. "Se c'era Bruce a suonare con te, quello che avevi bisogno di fare era praticamente nulla", ha ricordato Dylan. Mentre l'attore Peter Fonda, per il quale Langhorne aveva composta la colonna sonora del film The Hired Hand, raccontava: "Anche quando entravi nella stanza e non lo vedevi, sentivi al sua presenza. Semplicemente emanava amore e gentilezza, oltre che essere un virtuoso di qualcosa come 50 strumenti".
Ma Langhorne è noto soprattutto per essere stato l'anima di Bringing It All Back Home, l'album fondamentale dy Dylan del 1965, in cui i suoi accordi elettrici hanno tessuto la trama di canzoni come Maggie's Farm, Love Minus Zero/No Limit e She Belongs to Me. Il chitarrista suona dapprima in Corrina, Corrina, brano incluso in The Freewheelin' Bob Dylan, poi viene chiamato per lavorare su gran parte delle tracce del capolavoro Bringing It All Back Home.
Impegno musicale e impegno politico: nell'agosto 1963 Bruce salì sul palco allestito al Mall di Washington per accompagnare la folk singer Odetta subito prima del celebre discorso di Martin Luther King I have a dream.
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