27.6.21

silenzio opportunistico e utopia della perfezione

un silenzio interesato che dimostra come ormai anche la scienza si pieghi allo show business la prima stpria visto che : << [....] se divulghi troppo dopo non ti chiamano più [...]  >>   (  vedere     screenshot   a   dell'articolo   di republoica  del  27\6\2021    riportatoi a  sinistra   ) . 
La  seconda  è  di    la  storia  di un utopia    ,  un otta  quotidiana   per raggiungere    una  cosa  che   non lo  sarà mai   al 100   %    e     che  spesso  ( almeno per    me  era  cosi   )    si diventa  frustrati      quando non si raggiunge, almeno  che      come   sembra    aver  dichiarato Bolle  in questa   intervista  sempre  a republica  del  27\6\2021  ,  non  s'accetti  i propri limiti  come  suggerisce    anche la  canzone   la  libertà  di Guccini    scelta  come  colonna  sonora  del post  d'oggi  . 

                 Bolle “Il mio corpo un dono prigioniero della perfezione”
                                di Dario Cresto-Dina


Una vita a rincorrere l’impossibile della vita. Roberto Bolle ha 46 anni, è alto un metro e 82 centimetri, pesa ottanta chili. Tre numeri che rappresentano il recinto della sua professione. Il corpo è la sua salute e la sua malattia sin dall’infanzia passata tra Casale Monferrato e Trino Vercellese. Famiglia molto unita: padre piccolo imprenditore, madre casalinga, quattro figli. La danza, dice Bolle, vive del corpo e allo stesso tempo lo tiene prigioniero: «Lo plasma, lo forza a movimenti innaturali, a posizioni disumane.
Gli impone sacrificio e dolore. È un’arte che cerca la perfezione che tuttavia non è di questo mondo. La perfezione del gesto, delle proporzioni, delle pose».
Il paradosso di Achille e la tartaruga nelle versione di Borges.
Rincorrete la perfezione senza mai raggiungerla per un difetto infinitesimale. Nella biologia spesso è raccolto il destino. È stato così per lei?
«Credo di sì. Il fisico poteva condurmi verso lo sport oppure verso il cinema, ma la passione per la danza si è manifestata precocemente. Già verso i tre anni mi incantavo davanti alla televisione a guardare i balletti e provavo a rifarli. A cinque anni chiesi a mia madre di iscrivermi a danza, mi rispose di continuare a fare nuoto e se l’anno successivo lo avessi voluto ancora, mi avrebbe accontentato. L’anno dopo facevo danza».
Qual è il primo ricordo che afferisce al suo corpo?
«Sono stato un ragazzino disciplinato, ma dalle grandi energie. Ho sempre avuto un corpo molto reattivo, flessibile, portato per le discipline sportive, e una consapevolezza innata del fisico che adesso ho imparato a chiamare propriocentrismo. È un dono che va allenato, altrimenti si disperde, ma è un dono».
Il dono, una vocazione. Qualcosa di divino che dunque va oltre il talento?
«Alla scuola di danza si sono accorti subito che possedevo un non so che di speciale. Il talento sta forse un gradino più sotto. Che avrei fatto della danza una professione, la mia professione, sono arrivato a pensarlo intorno ai quattordici anni, dopo la terza media. Ho capito che lì con la danza classica sarebbe cominciata e finita la mia vita».
In una professione si inseguono anche simboli, leggende, figure da emulare. Le sue quali sono state?
«Ho avuto buoni maestri sin dall’inizio. Ho diverse fonti di ispirazione, prime fra tutte Nureyev e Carla Fracci non solo perché hanno guidato intere generazioni di ballerini, ma perché hanno avuto una visione: portare la danza a tutti, fuori dai teatri. Molto di ciò che ho fatto per la danza non avrei potuto farlo se loro non mi avessero preceduto».
Lei parla di sacrifici, io di allenamento. Mi racconti dell’uno e degli altri.
«Mi alleno dalle sei alle sette ore ogni giorno tra lezioni e prove in sala, stretching e a volte anche palestra. Non seguo una dieta particolare, ma sono molto attento a quello che mangio. Non è una questione di calorie, chiaramente, perché noi ballerini consumiamo molto, ma di qualità. Ho praticamente eliminato la carne, in particolare quella rossa. Mangio pesce, verdure, frutta e, anche se Pif mi prende pubblicamente in giro per questo, molti semi e frutta secca. Non ho mai fumato e bevo vino solo per brindare. Amo molto il cioccolato fondente che mi accompagna anche in sala ballo. Mi nutro con piccoli snack tra una prova e l’altra e bevo almeno sette litri di acqua al giorno».
I 50 anni si avvicinano e il tempo ha unghie affilate. Si è posto un limite oltre il quale non andrà?
«Sento l’usura, come qualsiasi lavoratore. Negli ultimi anni ascolto molto di più il mio corpo e devo confessare che il periodo del lockdown è stata davvero una esperienza difficile e angosciante, come mai prima ho avvertito la fragilità della mia esistenza. Andrò avanti fino a quando riuscirò a farlo ad un livello che mi soddisfa, che mi fa stare bene e sentire nel posto giusto. Quello che mi piace di questa fase del mio percorso artistico è un’accresciuta maturità scenica che va di pari passo con la crescita personale, umana. Ci sono ruoli e personaggi, come quello del cattivo in Madina, che solo adesso posso affrontare, scoprendo lati e sfumature artistiche prima impensabili per me. Mi viene naturale credere che quello che sono e penso adesso sia frutto del passare del tempo, di quello che sono stato, che ho fatto».
La ricerca della perfezione può essere sintomo di una dipendenza accompagnata dalla frustrazione, di una vita separata dalla realtà?
«Sì. Tutti noi ballerini siamo dediti alla ricerca della perfezione. Abbiamo lo specchio come alleato, a volte amato, più spesso odiato quando non ci restituisce l’immagine di noi che avevamo in mente. È un continuo tentativo di afferrare quello che non si può afferrare. La perfezione. Ma questo desiderio è talmente insito in noi che diventa una forma mentale, con risvolti anche etici. Non accontentarsi, imparare a inseguire un ideale di sé migliore, ti mantiene umile. Che il fisico cambia, noi ballerini lo capiamo già a vent’anni. Impariamo molto presto a fare i conti con uno strumento che non è mai lo stesso, ma mutevole. Per l’età, gli infortuni, i dolori che ci accompagnano ogni giorno e ogni notte e che sono le nostre cicatrici».
Ha mai dovuto fare i conti con la depressione o con momenti in cui ha pensato di smettere?
«Certo che ci sono stati. Ne ricordo due in particolare: il primo dopo tre anni che stavo a Milano e la nostalgia di casa si faceva sentire in maniera prepotente. Pregai allora mia madre di iscrivermi anche alla prima liceo a Vercelli, così da avere tempo di valutare bene che cosa sentivo di voler fare. Alla fine per fortuna vinse la danza. Il secondo è stato qualche anno fa, dopo un brutto infortunio alla schiena. Il rischio che non riuscissi a riprendermi era molto alto. Ce la misi tutta e rientrai prima di ogni aspettativa. I critici, che non sapevano ciò che mi era accaduto, scrissero che avevo raggiunto un nuovo livello di maturità. Era vero».
Lei tiene nascosti amori, felicità, affetti, dolori. Perché questa chiusura ermetica?
«Molti trovano sollievo nell’aprirsi, io sono abituato a vivere le mie emozioni più profonde in maniera personale, riservata, intima appunto. Abituato alla solitudine fin da ragazzo, mi ci sono affezionato. Sono uno di quegli uomini che piange dentro e, le assicuro, il rumore è ancora più forte».
Qualcuno ha detto che in questo mondo la bellezza è l’unica consolazione. Il suo corpo è anche un oggetto di desiderio. Come vive questa condizione?
«Le sembrerà strano ma non ci penso mai. Il mio corpo è per me uno strumento d’arte, come lo è il pennello per il pittore o il violino per un musicista. E poi, credo lo abbia detto Mandela, siamo tutti nati per risplendere come fanno i bambini».
Chi è Roberto Bolle quando esce di scena?
«Un uomo come tanti, incredibilmente pigro, amante delle cose semplici: una cena con amici, una giornata in famiglia, il mare appena si può. Leggo molto, leggo di tutto, i giornali prima di tutto, di tutto il mondo».
Lei ha lottato per ripartire subito, dopo la lunga stagione della pandemia e sta per cominciare un tour estivo di spettacoli. Dal 13 al 15 luglio sarà a Roma con una prima assoluta nella cornice del Circo Massimo, il 17 luglio a Firenze in piazza Santissima Annunziata e il 3 agosto all’Arena di Verona. Che cosa ci ha insegnato il flagello luttuoso del Covid?
«Guardi, credo nulla. Lascia ferite profonde nel tessuto sociale, economico, culturale, umano. Io non sono tra quelli che hanno inneggiato alla splendida opportunità del lockdown, per carità, è stata una tragedia per troppi e ancora lo è. Credo che ora sia estremamente importante restare uniti, non lasciare indietro nessuno. Da una caduta così grave ci si rialza solo insieme, cercando di porre le basi per un sistema più solido, più giusto e più solidale. Mi auguro che questa consapevolezza, se ci sarà, non si trasformi in paura».
E lei, giunto fin qui, può ritenersi un uomo fortunato?
«Sì, ma credo di avere onorato la fortuna con l’intelligenza».

  colonna   sonora
  • La tua Libertà - Francesco Guccini
  • Nella Mia Ora Di Libertà - Fabrizio de  Andrè 


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