il femminicdio non è solo omicidio . Violenza sulle donne, vi racconto il disagio degli uomini., Violenza sulle donne / Alma, violentata due volte. Ma il suo processo entrò nella storia sociale ed cultiurale ( anche se ancora c'è ancora mlto da fare ) ed altre storie

 Anziché farvi il solito  pippone   sul femminicidio , credo che siano sufficienti   questi  post    ( I  II  III ) voglio riportare  quattro    anzi tre  ( per  chi volesse  approfondire  oltre  ai collegamenti   del  blog
 trova  soprattutto la seconda  rimando  alla  sitografia  a   fine post  ) ,  visto che
una l'ho  già raccontata   precedentemente in questo post  qui    . La prima  riguarda anche  noi  uomini  e  le nostre paure    ed la nostra lotta ( quando riusciamo ad  affrontarla )  contro il maschio alfa  .

da repubblica  non ricordo la data 


                       "Violenza sulle donne, vi racconto il disagio                                          degli uomini"

                                    di Stefano Cristante



Gli interrogativi e i sentimenti, a cominciare dalla vergona. Stefano Cristante, docente dell'università del Salento e membro di un'équipe di ricerca sui femminicidi: "Forse bisognerebbe cominciare a pensare alla violenza contro le donne in termini di tabù, come azione tra quelle proibite dalla mente stessa"
Tanti anni fa, mentre frequentavo il liceo, durante un'autogestione studentesca un ragazzo di sinistra ebbe un battibecco con una ragazza del collettivo femminista della mia scuola. Gli uscirono parole stonate e offensive, e lei fece girare un volantino sull'accaduto che mi parve esagerato. Glielo dissi. Lei replicò con una specie di apologo fatto di sole domande, che ricordo ancora: "Secondo te se un maschio violenta una femmina si tratta di violenza?" "Ovvio" - risposi. "E se le mette le mani addosso è violenza?" "Sì". "E se le dà della puttana?" "Sì". "E se le rivolge un complimento pesante?" Anche". "E se fa allusione alle sue caratteristiche fisiche?" Capii dove voleva arrivare. Risposi, alla fine, che messa così lei aveva ragione: ci sono molte azioni violente - verbali e non verbali - che gli uomini compiono verso le donne, forse senza rendersi conto di ciò che stanno facendo. E replicai che mi sembrava però comunque esagerato mettere quel nostro compagno alla berlina nel modo che lei aveva scelto. Ma il mio disagio di fronte alle argomentazioni della mia coetanea era evidente.
Passati vari decenni da quel momento, mi è capitato di far parte di un'equipe di ricerca allargata a quattro sedi universitarie (si chiamano Prin, Progetti di rilevante interesse nazionale) che, alla fine dello scorso anno, ha portato alla pubblicazione del volume L'amore non uccide. Femminicidio e discorso pubblico: cronaca, tribunali, politiche (a cura di Pina Lalli, il Mulino). Per tutta la durata della ricerca, in cui la mia unità locale (Università del Salento) si è occupata di come la stampa locale rappresenta i femminicidi, ho provato una sensazione di disagio in qualche modo apparentata con quella provata tanti anni prima. Perché?
Me lo sono chiesto più volte. Innanzitutto per il fatto che la nostra ricerca - come tante altre, d'altronde - ha evidenziato che il "mio" genere è protagonista a senso unico di atti di violenza su cui la gradazione della mia antica compagna di scuola femminista non ha nemmeno bisogno di essere squadernata, e su cui il termine "femminicidio" non è sbagliato né esagerato, perché avviene in grande numero da parte di maschi che esercitano violenza e femmine che sono costrette a subirla. Si tratta di botte, di pugni, di coltellate, quasi sempre preceduti o accompagnati da una sequela di minacce, di stalking, di sfuriate, spesso messe in atto davanti a eventuali figli. E questo non può non creare malessere nei maschi che cercano di non vivere in questo modo i propri rapporti sentimentali.
Lo stato emotivo che prevale è la vergogna. Scaricare sui disadattati (e criminali) che si abbandonano a questi comportamenti non implica d'altronde una piena distanza, perché il brivido che attraversa il cervello di un maschio medio è in realtà generato anche dai ricordi più bui delle proprie relazioni. Certamente ci saranno maschi di una correttezza assoluta nei rapporti sentimentali, ma in tantissimi siamo arrivati vicini a forme detestabili, a fronteggiare nostra moglie o la nostra fidanzata o la nostra partner come in una rissa tra bulli adolescenti, mettendo in scena una maggiore potenza fisica, riverberata da toni di voce che sono il prolungamento di quella stessa (fortunatamente sempre più eventuale) superiorità fisica. Di fronte al "poteva capitare anche a me?" il maschio mediamente sensibile e consapevole giura in cuore proprio di saper distinguere tra un conflitto relazionale - per quanto aspro - e la violenza fisica e psichica. Forse occorrerebbe cominciare a pensare alla violenza contro le donne in termini di tabù, cioè di inserire tra le azioni proibite dalla mente stessa (individuale e collettiva) questo tipo di comportamenti estremi.
Infine, c'è un altro tipo di sentimento che attraversa con dolore la mente maschile, ed è il riconoscimento dell'imperdonabile abbandonarsi di molti uomini all'idea di poter tormentare una donna per il fatto di essere stati lasciati. Come se certi cervelli maschili non potessero accettare la verità - dura ma inscalfibile - che i rapporti d'amore sono legami che possono essere sciolti in qualsiasi momento anche solo da uno dei due partner, e senza dover fornire - nella sostanza - altre spiegazioni che non siano la fine dell'amore provato, o il malessere che la relazione produce. Non lo so che cosa accada nella mente di un maschio che non è in grado di rassegnarsi alla fine di un amore voluta dall'altra parte, ma gli effetti travalicano ogni proporzione. Con quale coraggio psicologico si mettono in atto comportamenti deliberatamente puntati a distruggere la vita di una persona che si pensa (spesso senza alcuna chiarezza) di amare? Con quale obiettivo, se non lo scatenarsi di una violenza così spaventosa da non risparmiare nella stragrande maggioranza dei casi nemmeno il carnefice? Cosa significa tutto questo nell'antropologia e nella sociologia del genere umano nel XXI secolo? Non è forse venuto il momento che i maschi parlino di tutto questo e si assumano le proprie responsabilità di genere psicologicamente debole e impreparato al cambio mentale di cui c'è bisogno per accettare che i Sapiens si declinano in due e più generi che esigono parità ed eguaglianza?
Un'ultima osservazione: ma com'è possibile che la sicurezza di una donna che denuncia le violenze di cui è vittima sia ancora oggi così labile da consentire al persecutore di andare fino a fondo alla propria ossessione criminale? Qui il deficit non è più solo di un genere, ma delle istituzioni. Cioè di apparati che dovrebbero tutelare tutti e tutte, e che non possono permettersi disattenzioni che hanno il sapore di un fallimento civico universale.

La seconda  
è  del primo processo   a porte  aperte  per  stupro  in Italia (1976)  a cui seguirà un altro caso  simile  rappresentato  dal documentario <<  Processo per stupro è un film del 1979 realizzato da sei giovani programmiste, filmaker e registe: Loredana Rotondo, Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti, Anna Carini. Fu il primo documentario su un processo per stupro mandato in onda dalla RAI. Ebbe una vastissima eco nell'opinione pubblica relativamente al dibattito sulla legge contro la violenza sessuale.   continua  ... https://it.wikipedia.org/wiki/Processo_per_stupro >>

 repubblica   23 Novembre 2021
Vittime non credute e procedure lente. Tutte le falle nelle leggi a difesa delle donne
                                di Viola Giannoli

            

Grazie alla ricerca inedita di Nadia Filippini, che diventerà presto un libro di Viella, quello celebrato a Verona nell'ottobre del 1976 riacquista il suo carattere di novità assoluta nell'ambito dei processi per violenza sessuale. Fu il primo dibattimento pubblico al quale parteciparono le donne al fianco della vittima. E il primo ripreso dalle telecamere della Rai e dai taccuini dei cronisti che lo trasformarono in un caso politico. Sarebbero passati ancora due anni prima di assistere a Latina al secondo processo per stupro aperto alla platea femminile, un evento diventato assai più famoso per il fortunato documentario realizzato da sei giovani registe e per la celebre arringa di Tina Lagostena Bassi.
L'avvocatessa delle donne era presente anche nell'aula di Verona, dove aveva portato l'esperienza maturata l'anno prima al processo del Circeo, segnato dalle domande assurde rivolte a Donatella Colasanti,  viva per miracolo. Essere stuprate, alla metà degli anni Settanta, era ancora una colpa, non una violenza subita. E per questo molto spesso taciuta. Alma, nome di fantasia, scelse di non tacere. Tornava a casa insieme al fidanzato, un giorno di giugno del 1976, quando due ragazzi la violentarono su un sentiero della campagna veneta, a pochi chilometri dal paese. Si ritrovò a terra, stordita e umiliata; vicino il suo amore pestato a sangue.
Alma ha 16 anni. E' una ragazza semplice, anche un po' timida, figlia d'una famiglia della microborghesia rurale. Si sente sprofondare in una sorta di paralisi, il "senso di colpa" comune a tante donne nella sua condizione. Ma dentro di sé avverte l'urgenza della denuncia. Con la firma del padre, resa necessaria dalla minore età, sporge querela contro gli stupratori. E, incoraggiata dal movimento delle donne, chiede che il processo si svolga a porte aperte. "Un gesto dal profondo significato politico e simbolico", commenta la storica Nadia Filippini. "Per la prima volta le donne misero sotto accusa la legge che faceva rientrare la violenza carnale non nei delitti contro la persona ma contro la moralità pubblica e il buon costume. E per la prima volta misero sotto accusa la  doppia violenza, quella degli stupratori e quella esercitata dalle istituzioni conniventi".
A questo punto bisogna dare la parola ad Alma, che nell'ottobre dello stesso anno, in coincidenza con il processo divenuto mediatico,  decise di rilasciare la sua prima intervista a Repubblica, quotidiano molto sensibile al movimento delle donne.  Come è stato l'interrogatorio di polizia? "Mi accorgevo che le mie parole non venivano credute. Il maresciallo mi rimproverava la mia incapacità di azione e faceva delle assurde ipotesi chiedendomi se non era stata una mia scappatella. Oppure se io avessi organizzato il tutto per giustificare una mia probabile gravidanza. Mi chiesero come mai non avessi agito nemmeno durante il coito; mi dissero che se una donna non vuole che avvenga il rapporto sessuale, per costringerla bisognerebbe legarla, insinuando che in fondo avessi voluto io il rapporto. Mi chiesero anche se ero vergine".

Che domande le sono state fatte in aula a porte chiuse? "Il Pubblico Ministero mi ha chiesto se sono stata spogliata con la forza o se mi sono spogliata da sola; qual era la posizione delle mie gambe e come mai erano aperte  e piegate. E ancora: abbracciavo gli imputati durante il coito? Ho smesso di fare resistenza a un certo punto? Ho avuto precedenti rapporti sessuali?". Domande vergognose che fissano un canone destinato a resistere per svariati decenni, i cui echi ancora oggi risuonano incredibilmente nelle aule di giustizia. Come persistente appare "il senso di colpa" nominato da Alma, una "tremenda paura, una insicurezza che mi impedì di agire contro la violenza che subivo. Questa mia debolezza interna mi impressionò molto". Alma è un'adolescente che parla con la maturità di un'adulta, aiutata probabilmente dalle femministe di Verona che non l'hanno lasciata sola. E che non si arrendono alla decisione del giudice di allontanarle dall'aula al momento dell'interrogatorio della vittima.
Fu il primo processo a porte aperte grazie alla decisione della Corte che dopo un iniziale rifiuto aveva acconsentito alla richiesta, ma a condizione che nella fase più delicata dell'udienza il pubblico uscisse dall'aula ("i particolari possono turbare la pubblica opinione", fu la giustificazione dei giudici a ricalco del Codice Rocco).  Le proteste dentro e fuori del Palazzo di Giustizia indussero i magistrati a sospendere il dibattimento. Ma alla ripresa del processo le avvocatesse Lagostena Bassi e Maria Magnani Noja - accorse a Verona per rafforzare la difesa di Vincenzo Todesco - ricusarono la Corte per le domande inaccettabili rivolte ad Alma. L'istanza di ricusazione fu negata, nel tribunale risuonò la protesta finché l'aula venne sgombrata dalla polizia. Per gli stupratori arrivò la condanna a quattro anni e  sei mesi di carcere. Una sentenza allora giudicata corretta dalla stessa Lagostena Bassi, ma che allo sguardo di oggi potrebbe apparire fin troppo morbida.
Alma lascerà per sempre il suo paese, che era il paese dei violentatori. Non le avrebbero perdonato la militanza con le femministe, notoriamente delle "poco di buono". Nadia Filippini, storica e testimone, ricorda ancora le urla sguaiate delle madri degli imputati. "Puttane, siete delle puttane", gridavano in tribunale rivolte alle donne dalla parte di Alma. "Fu allora che le nostre vite cambiarono", dice la studiosa. "Molte di noi scelsero la militanza politica,  il destino individuale si fondeva a quello collettivo. Alcune intrapresero gli studi di giurisprudenza per difendere i diritti delle donne. E io cominciai a occuparmi della storia di genere".
Fu comunque una grande vittoria perché per la prima volta veniva rotta "l'aspettativa del silenzio", il sacrificio della vittima muta per difendere l'onore proprio e della famiglia.  "Da quel processo sarebbero scaturiti i centri antiviolenza, la parola pubblica di Alma avrebbe dato forza a molte altre vittime di stupro. E vent'anni dopo anche la legge sarebbe cambiata. Di lei ho perso le tracce, ma è giusto riconoscerle un grande coraggio e un posto di rilievo nella storia delle conquiste femminili".

la terza    piena  di  speranza  e   di rinascita  sempre  da repubblica  24 NOVEMBRE 2021



Violenza sulle donne, il riscatto dopo i soprusi. "Mi diceva non vali nulla, ora ho un'impresa tutta mia"
Cinque anni accanto a un marito che la picchiava e umiliava. "Poi ho detto basta e sono rinata, alle donne dico di riprendersi la vita"

di Romina Marceca





"Ero isolata e mi vergognavo della condizione in cui vivevo. Ero così vessata che ormai cercavo di anticipare i suoi desideri per evitare che lui potesse infierire su di me".
Paola aveva 34 anni quando ha varcato la soglia di uno dei centri antiviolenza di Differenza donna di Roma. Sul collo aveva ancora i segni di un tentativo di strangolamento e a casa aveva lasciato il suo bambino di tre anni insieme al marito, l'uomo che l'aveva ridotta in quelle condizioni. Non si era mai rivolta a un ospedale per i segni lasciati sul suo corpo. Oggi, a quasi 40 anni, è un'imprenditrice apprezzata e sicura di sé. Paola è un nome di fantasia perché questa donna ha deciso che il passato fa parte solo della sua anima ferita.
"Racconto la mia storia perché spero che chi soffre come è successo a me, possa sperare in un futuro migliore". Cinque anni fa, Paola era una donna molto indebolita dalle umiliazioni, dagli insulti e dalle aggressioni verbali e dalle botte anche davanti al figlio. Poi ha deciso di dire basta.
"Il giorno che Paola è entrata al centro e abbiamo notato quei segni sul collo ci siamo molto allarmate. Le abbiamo detto che c'erano dei rischi per lei e per il bambino", ricorda Cristina Ercoli, responsabile della casa rifugio di Villa Phamphjli di Differenza Donna.
Lui faceva uso di cocaina, era sempre più violento. Paola si trascinava ogni giorno in un'esistenza sempre più difficile. "Non avevo mai lavorato, ero una casalinga ma non per mia scelta". Una vita al contrario rispetto al presente. Sono bastati pochi colloqui con le operatrici e Paola è entrata nella casa rifugio. Ha portato con sé il figlioletto. Ha chiuso la porta di casa. Pian piano è arrivata la consapevolezza del passato.
"Era arrivato il momento della forza, ho capito che dovevo prendere in mano la mia vita. Affrontare i rischi e soprattutto denunciare quell'uomo". Paola l'ha fatto. Si è presentata a una avvocata civilista per ottenere l'affido esclusivo del suo bambino. Il marito è stato prima allontanato, poi ha perso la responsabilità genitoriale.
"Nello stesso periodo in cui il mio vecchio mondo crollava, arriva una splendida occasione: la possibilità di partecipare a un corso con Gambero Rosso. Amo cucinare e dopo questo primo corso ho ottenuto uno stage in un ristorante ".
Da lì è stato un percorso tutto in salita. È arrivato il finanziamento per un'impresa individuale. E Paola è diventata un'organizzatrice di catering con laboratorio vicino al centro di Roma. Al suo fianco tre dipendenti. "Sono tutte donne, non poteva essere altrimenti. Credo profondamente nella loro forza".


sito  grafia 
http://www.femminismo-ruggente.it/femminismo/violenza.html
https://ilmanifesto.it/gli-anni-settanta-e-la-richiesta-di-porte-aperte-nei-tribunali/













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