la strada è come la vita dovunque e comunque , ci si perde , ci si ritrova insomma racconta chi sei le storie di Franco Arminio poeta e di Caio Mario Garrubba un fotogiornalista

 «Ogni giorno dovremmo fare una cosa nuova e una cosa vecchia. Tu vai a letto a mezzanotte e ti chiedi: oggi cosa ho fatto di nuovo e cosa ho fatto di antico? Non devono essere cose eccezionali, basterebbe semplicemente percorrere una strada che non hai mai fatto, semplicemente metterti una maglia che non ti sei mai messo perché pensavi ti stesse male, una piccola cosa, ma allo stesso tempo recuperare anche un gesto antico: come salutare uno sconosciuto o dire una preghiera. Queste due cose insieme fanno futuro».

Il poeta Franco Arminio (© Franco Arminio)

Franco Arminio è il poeta del silenzio, dei paesi spopolati, delle relazioni umane, è nato nel 1960 a Bisaccia, in Irpinia, dove ancora vive e il suo sguardo sul mondo non finisce di sorprendermi. L’ho conosciuto nel periodo più difficile del primo lockdown, in quei giorni di inizio primavera del 2020 quando eravamo chiusi in casa e avevamo già smesso di cantare dalle finestre. Franco aveva condiviso il suo numero di telefono sui social e si era messo a disposizione di chi chiamava, non per dare risposte ma per offrire ascolto, per rompere la bolla di solitudine. Lo avevo raccontato su questa newsletter e ora che finalmente ci possiamo incontrare di persona ripartiamo da lì: «In quel periodo il mio telefono suonava senza sosta, ma se lo rifacessi domani mattina succederebbe la stessa cosa: c’è un enorme bisogno di raccontare i propri dolori, i propri abbandoni. Forse oggi siamo tutti connessi ma in realtà la gente non sa con chi parlare». La voce di Franco è calda, lenta, misurata, ho pensato che fosse la persona giusta per fare un podcast per ragionare di questo tempo di trasformazione e di come interpretarlo.«Io indago i silenzi, oggi i paesi non hanno più una colonna sonora, prima c’era il canto degli animali, quello dei mestieri e si cantava in osteria, oggi invece c’è silenzio. Ed è un silenzio che fa bene se lo vivi per un’ora, se scappi dal rumore cittadino ma se ci stai dentro, ogni giorno, ti fa male». Per questo Arminio scrive poesie e gira l’Italia per raccontare le terre spopolate, i borghi dove sono rimasti solo gli anziani e la vita si sta spegnendo. Lo fa guidato dalla 
da il suo  istangram 
 https://www.instagram.com/francoarminio/
nostalgia ma anche dalla necessità di dare valore a ciò che sta fuori dalle grandi città e dai percorsi turistici tradizionali. Lo fa con una dose di improvvisazione, tenendo aperta sempre la porta alle sorprese, tanto che è più corretto dire che “girovaga” anziché viaggia.                Da lui ho imparato l’idea che sia necessario lasciarsi contaminare dall’impensato:
«La vita può sempre portare delle situazioni nuove, dobbiamo mettercelo in testa, possono essere belle o possono essere terribili. E questo è il mistero. Noi non dobbiamo mai ridurre la quota di mistero, noi non sappiamo cosa ci può accadere tra un’ora. Se noi tendiamo a rendere prevedibile la giornata, a fare solo cose programmate, a sapere già cosa faremo questa sera alle otto, allora un po’ si impoverisce la vicenda umana. La vita è una danza tra mistero e cose conosciute, l’impensato è una grande risorsa». La sfida mi sembra di quelle da accogliere: guardare le cose con occhi nuovi e osservare ciò che ci circonda: «Il mondo esterno ci può guarire, uscire di casa la mattina con curiosità aperti all’incontro con gli altri è una grande medicina. Dobbiamo avere più fiducia in quello che c’è fuori».

Franco Arminio in uno dei sui viaggi in Italia (© Franco Arminio)

Arminio non sta mai fermo e nel nostro dialogo podcast mette in guardia dal vizio che abbiamo di piangerci addosso, di ripetere continuamente che siamo stanchi: «Ci sono energie enormi e risorse che non utilizziamo, non bisogna risparmiarsi nella vita: la salute aumenta consumandola. Dobbiamo avere il coraggio di essere fragili, ogni giorno consumiamo un sacco di energie a nascondere le nostre crepe, a truccare le carte, è veramente tempo perso, facciamo prima a dire: non ce la faccio».
Parla di crepe e occasioni e non può non venirmi in mente quel bellissimo verso di una canzone di Leonard Cohen che io ripeto spesso: “In ogni cosa c’è una crepa, è da lì che passa la luce”
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«Caio Mario amava la strada, dovunque e comunque, e diceva: io vedo l’uomo così com’è soltanto sulla strada. Nelle sue foto non c’è mai qualcuno che posa: per fare uno scatto che a te può sembrare posato, lui ha dovuto camminare mesi». Caio Mario di cognome faceva Garrubba, era un fotogiornalista speciale, il suo set erano le strade del mondo, lavorò sempre come freelance e pubblicò su tutte le più importanti riviste dagli Anni Cinquanta ai Settanta, dal Mondo di Pannunzio all’americana Life. È mancato a 91 anni nel 2015, senza aver avuto la notorietà e gli onori che meritava dopo la fine della sua carriera, ma oggi è in atto una sua riscoperta la cui artefice è stata la donna che ha amato per 43 anni e che aveva conosciuto a una festa a Varsavia nel 1961.

USA, New York, 1970 (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)
Unione Sovietica, Mosca, 1968 (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)
Cecoslovacchia, Praga, 1957 (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)

Alla Folonietov, polacca di origine cosacca, due anni dopo la morte di Caio Mario decise che tutti i negativi, le diapositive e i provini che il marito aveva catalogato non potevano andare perduti. Così cedette l’intero archivio all’Istituto Luce, salvandolo dall’oblio e regalandogli una nuova fortuna. Io l’ho scoperto in una mostra meravigliosa che si può visitare fino al 28 novembre a Palazzo Merulana a Roma, curata da Emiliano Guidi e Stefano Mirabella.  
Emiliano, che si occupa della conservazione della parte fotografica dell’Archivio storico Luce, ricorda il giorno in cui Alla gli aprì la porta della casa di Spoleto: «Mi aveva detto di non presentarmi prima delle tre del pomeriggio, perché amava dormire tutta la mattina. Temevo fosse una donna schiva, invece non vedeva l’ora di raccontare, e per giorni mi parlò del marito fino a notte fonda. Voleva che non andasse perduto nessun ricordo, voleva dargli una seconda vita e continuava a ripetermi quanto lo avesse amato. Tanto che io decisi di riprenderla e registrammo un’intervista di più di cinque ore (potete ascoltarne qui un breve estratto). Due anni dopo quella prima visita scomparve anche lei, ma sicuramente serena di aver fatto la sua parte».

Autoritratto insieme alla moglie Alla Folomietov (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)

«Nella casa di Spoleto c’erano foto appese ad ogni parete, non smettevo di guardarle, e rimasi subito affascinato dallo sguardo delle persone che aveva ritratto. Poi mi portò a vedere l’archivio: 60mila negativi contenuti in una lunga fila di scatole da scarpe. Ricordo l’emozione del privilegio di mettere le mani nella vita intera di un fotografo che ha raccontato il mondo e le sue strade. Quando pensavamo di aver visto tutto, Alla mi disse che in una piccola casa che avevano in campagna doveva esserci qualcos’altro. Ci andammo e dietro una porta chiusa da anni, in un sottoscala, trovammo degli scatoloni con una scritta a pennarello: “Scarti”. Erano pieni di diapositive, che nella sua severità Caio Mario non aveva mai voluto pubblicare, ma che non aveva nemmeno veramente eliminato. In quegli scatoloni c’erano delle perle». Oggi il lavoro di Carrubba è stato tutto digitalizzato, ci sono voluti quattro anni per farlo, e al Luce stanno catalogando ogni foto per renderle tutte fruibili e pubbliche.

Unione Sovietica, Mosca, anni Sessanta (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)
USA, New York, 1970 (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)
Grecia, Atene, 1955 (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)

«È giunta l’ora di riscoprirlo, è stato un incredibile innovatore che già negli anni Cinquanta scattava delle foto con uno stile e un’idea che era molto più moderna del suo tempo. Una fotografia fatta di sfumature, come dice Tano D’Amico che non lo ha mai dimenticato: “Nelle sue foto non succede nulla, c’è solo la vita che scorre”. È così: Garrubba non è il fotografo del momento decisivo, dell’attimo, ma è un fotografo di atmosfera e ha un linguaggio che troveremo poi nei grandi fotografi di strada americani».
«Quello che amo – diceva Garrubba – è la fotografia stradale, perché solo sulla strada trovo l’umanità così com’è. Io sulla strada trovo documenti preziosi». E di strade percorse quelle di tutto il mondo: era in Cina nel 1959, dove fece un reportage di 4000 scatti nel decennale della rivoluzione. Il secondo fotografo a raccontare la Pechino di Mao dopo Cartier Bresson.

Cina, Xi’an, 1959 (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)

Il fotografo degli sguardi amava anche fotografare le persone di spalle, una cosa che ha fatto in ogni luogo e in ogni lavoro. Voleva lasciare aperta un’idea, la possibilità di immaginare. È come se congedandosi ci avesse detto: io posso arrivare fino ad un certo punto, il resto lo dovete fare voi.

Italia, Roma, anni Sessanta (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)
Germania Occidentale, Amburgo, 1965 (© Archivio Storico Luce / Cinecittà)

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