Che fare? È l'angosciante e rabbiosa domanda che sale sulle labbra di ognuna di noi, nel constatare ancora una volta non la resa dell'Occidente, non la ferocia talebana né la religione prostituita ai giochi di potere, ma la totale indifferenza nei confronti delle donne, di tutte le donne. Perché attenzione, non si tratta solo delle afghane. La loro tragedia ci tocca da vicino perché le prossime saremo noi, lo saremmo già qualora la cosiddetta "Realpolitik" lo esigesse. A qualsiasi latitudine.
Noi proclamiamo: #AfghanistanWeCare, dell'Afghanistan c'importa. Kabul è la Shoah delle donne, cui dovrà seguire una Norimberga. Sarà un gran giorno, allora, e sarà vendetta e sarà giusto. Sul banco degli imputati non vorremmo vedere solo gli orrendi barbuti ma anche i loro complici, i firmatari degli sciagurati accordi di Doha. Con i/le collaborazioniste a vario titolo
asservite.
Sì, ma questo dopo, se sarà possibile, obietterete. Ma ora? Cosa facciamo, ora?
Ora, abbiamo la definitiva conferma della nostra solitudine davanti al mondo. Ma abbiamo anche dei doveri.
Ci svegliamo la mattina in un declino d'estate dove ogni raggio di sole, ogni lembo di pelle scoperta sono stati pagati col sangue nel corso dei secoli. Non possiamo tirare un sospiro di sollievo. Vorremmo dire basta, lasciar perdere tutto, e ritirarci da qualsiasi lotta.
È l'ultima tentazione, la più maligna perché comprensibile, umana.
Ma poi penso ad Atai Ataye, che lo scorso anno invitai a scuola. In Dad. Ci parlò di tante cose. Ci colpì la sua dolcezza, il suo stupore verso la bellezza della vita, dell'arte. Tutte cose che i #talebani (e non chiamateli "studenti", maledizione, sono bruti ignoranti) odiano e distruggono. Ci parlò di quella sorella, Salma [nella foto], sfuggita a un matrimonio forzato col barbuto e divenuta poi medica. Rimasta in patria per soccorrere donne e bambini. Oggi la sua struttura è stata assaltata, lei ferita, uno zio ucciso. Seppellirlo è impossibile: in quanto "infedele", il suo corpo verrà dilaniato dai cani.
Ma penso pure a suor Shahnaz Bhatti. Lei pure rimane, assieme alle sue consorelle. Il loro è l'unico ospedale per bimbi disabili esistente nel paese. Gestiscono una scuola per ragazze. Sono lì, hanno rifiutato di spostarsi nella "green zone", più sicura: "Stiamo con la gente". Sono lì con le belle facce abbronzate e i veli variopinti, che nel giovedì santo sembrano presbitere sororali, tutte Oriente, e gli abitanti sanno che sono cristiane - e le amano, fanno del bene - in un paese dove il rischio per questa confessione è come per un ebreo ad Auschwitz. Chissà che fine avranno fatto, quando anche i preti abbandonano. E non abbiamo più notizie di Alberto Cairo, anch'egli intenzionato a non lasciare i suoi mutilati.
Glielo dobbiamo. Ognuna di noi glielo deve. Cioè lottare, non arrendersi. L'Afghanistan è vicinissimo. Per prima cosa, esigiamo #corridoi umanitari per donne e bambini. Ma dobbiamo pretendere, costruire una Nomadelfia afghana: dove ogni bambina/o abbandonata possa trovare una famiglia, una persona, senza inutili intoppi burocratici.
Dobbiamo portare l'Afghanistan e le sue donne nelle scuole, nei libri, nella nostra vita quotidiana. Ognuna come sa è come può. Ma conscia che non può delegare l'impegno a nessuno.
Le istituzioni siamo noi. Con questa certezza, dolorosa, ma che almeno fa piazza pulita delle illusioni, possiamo forse, ognuna a suo modo, costruire quella lenta, straziante, ma necessaria rivoluzione antropologica attesa dal mondo intero. Altrimenti le donne spariranno, e sarà finita. Per tutti.
©Daniela Tuscano
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