2.8.21

olimpiadi tokyo 2021 le storie parte III il bellissimo gesto di timberi ( medagia d'oro salto in alto ) ed altre storie


le puntate precedenti 


 Ho  scelto d'aprire  le storie   d'ogggi con quella  di Timberi  salto in alto    . perchè  oltre  ad essewre  una storia  di riscatto   è  anche  una  storia  di  solidarietà , di sportività    dato che  ha deciso    d'accettare    anzichè     avanti ad  oltranza per  cercare  un vincitore     e  continuare a saltare e spareggiare oppure chiudere lì la sfida.  ha  scelto    di  chiudere    la  sfida ,     per  non   togliere  all'avversario    la gioia della vittoria,  di  prendere   una medaglia   ad  exquo  . 

Ecco perché Tamberi e Barshim si sono scambiati sul podio le medaglie



Gianmarco Tamberi e Mutaz Essa Barshim hanno regalato agli appassionati di sport momenti indimenticabili, che resteranno nella storia delle Olimpiadi.


   


 Prima la scelta di condividere l’oro del salto in alto,  possibilità contemplata dal regolamento dell’atletica ma senza precedenti in una finale olimpica. Poi, al momento della premiazione, lo scambio delle medaglie con il marchigiano che la infila al collo del campione del mondo in carica qatarino e viceversa. I due sono grandi amici, un rapporto cementato anche dalla sofferenza comune: entrambi infatti si sono rotti il tendine d’Achille all’apice della carriera, hanno sofferto e sono tornati in cima al mondo proprio a Tokyo.






Sulle ali di Tamberi: "Ho ascoltato il cuore, stava per esplodere"
dal nostro inviato Fabio Tonacci








TOKYO - Semplicemente Gimbo. Niente più barba rasata a metà, basta capelli bianchi, addio i look della follia. Gimbo è cresciuto, è maturato. Con la sofferenza, con la fatica. Ha visto che cosa può crollare addosso a un sogno. Cinque anni fa ha scritto una promessa a se stesso sullo stivale di gesso che gli imprigionava il tendine d'Achille spezzato ed è venuto fino a Tokyo per mantenerla. "Era arrivato il momento di tirare fuori quello che sono". Lui è Gianmarco Tamberi, 29 anni di Civitanova Marche. Il più grande saltatore in alto della storia dell'atletica italiana. L'uomo che vola in cielo e atterra su una stupefacente medaglia d'oro. Semplicemente Gimbo.
"Non credevo che vincere l'Olimpiade fosse un'emozione così potente, mi sentivo esplodere il cuore", è la prima cosa che riesce a dire dopo la gara, quasi giustificandosi di quei venti minuti di esultanza tarantolata a saltellare sulla pista dell'Olympic Stadium di Tokyo. "Non mi volevano neanche far fare il giro... e come facevano a fermarmi?". Si è inginocchiato, si è gettato a terra, ha urlato, ha pianto, si è fatto il segno della croce. Steso sulla pedana che lo ha visto saltare 2 metri e 37 centimetri, non riusciva a respirare. Una mano sul cuore e l'altra sulla testa. Che poi è anche il modo migliore di raccontare la sua meravigliosa prova.
Testa e cuore. Mentalmente sempre presente, ha fatto sette salti perfetti, fino a quando l'asticella è stata alzata a 2,39, la misura che nessuno dei finalisti è riuscito a superare. Neanche Mutaz Barshim, l'atleta 30enne del Qatar che balza felice sul gradino più alto del podio insieme a Gimbo. I due si conoscono da tanto tempo, Barshim ha voluto Gianmarco anche al proprio matrimonio. Sono i vincitori ex aequo. Perché la storia del successo di Gimbo è prima di tutto la storia di amicizia profonda. Maturata sulle pedane di mezzo mondo, cementata dall'aver entrambi provato la rottura del tendine. Tamberi prima di Rio, Barshim subito dopo aver vinto in Brasile l'argento . Stessa  voglia di riscatto    come  Jury Chechi 
Dunque, la gara. Siamo al decimo salto e non si capisce cosa sta succedendo. I pochi spettatori si guardano smarriti. Chi ha vinto? Gimbo e Barshim hanno fallito entrambi, per tre volte, la misura 2.39. Il giudice olimpico si è avvicinato loro e ha bisbigliato: "Conoscete il regolamento? Sapete cosa succede ora?". Possono scegliere: continuare a saltare e spareggiare oppure chiudere lì la sfida. "Nessuno dei due voleva togliere all'altro la gioia della vittoria, solo io so cosa ho passato. E so cosa ha passato lui. Non ci siamo detti niente, abbiamo seguito il cuore". Gli amici, quando sono veri, non hanno bisogno di parole. Si capiscono con gli sguardi, con le emozioni. Va bene condividere l'oro, ci sarà tempo per stabilire chi è il numero uno. Anche se Tamberi non sembra avere dubbi. "È lui il miglior saltatore", dice mentre scherzando lo spintona, seduti su una panca prima della conferenza stampa dei medagliati. "Two is better than one", risponde Barshim. E vai con gli abbracci.
Gimbo raggiunge nell'Olimpo dei saltatori Sara Simeoni, l'unica azzurra prima di ieri a vincere medaglie ai Giochi (oro a Mosca nel 1980). Gimbo, che è figlio d'arte (il padre Marco è anche il suo allenatore), da piccolo voleva giocare a basket e suonava la batteria. Gli piaceva il rock. Invece salta e studia: si è iscritto al corso di Economia e management dell'Università Luiss di Roma. "Se questo oro me lo avessero raccontato cinque anni fa mi sarebbero venuti i brividi. Lo avessi conquistato a Rio, sarebbe stato diverso: oggi non ho vinto l'Olimpiade, ho fatto qualcosa di molto più grande, di immenso". Prima della finale, una telefonata con Chiara, la donna che sta per portare all'altare. "Era tesissima, mi ha detto: "Ho paura per te, spero che vada tutto bene". Tu goditi la gara, le ho detto. Al resto ci penso io. Lo sapevo che era una giornata magica, me lo sentivo". E magia è stata.
Quando è stato ufficializzato che Gianmarco Tamberi aveva vinto l'oro, Marcell Jacobs si avvicinava ai blocchi di partenza. Stavamo per assistere agli undici minuti che hanno rivoluzionato la storia dell'atletica leggera di casa nostra. "Gli ho urlato con tutta la forza che avevo in corpo, forse gli ho trasmesso anch'io un po' di forza per fare quell'incredibile tempo". Nella sera di Tokyo c'erano due campioni che si abbracciavano. Gli italiani che fecero l'impresa. Citius, altius. Più veloce, più in alto. È il motto dei Giochi olimpici. Da ieri è l'inizio di una favola azzurra.



Equitazione, una donna batte gli uomini: la tedesca Krajewski oro nel completo. Hoy bronzo a 62 anni

Julia Krajewski (ansa)


Prima volta al femminile nella storia olimpica della specialità. Argento al britannico Tom McEwen e bronzo all'eterno Andrew Hoy, 62 anni, alla sua ottava partecipazione. Susanna Bardone è diciottesima


Una donna su un trono finora occupato solo da uomini. Per la prima volta nella storia del Completo il gradino più alto del podio è al femminile: la tedesca Julia Krajewski in sella ad Amande de B'Neville, ha messo in fila il britannico Tom McEwen e l'eterno Andrew Hoy.
Hoy sul podio a 62 anni, 18/a Bardone
La trentaduenne tedesca era salita al comando della classifica provvisoria nella prova di qualifica con un percorso impeccabile che ha poi bissato con un secondo giro sugli errorabili macchiato solo dall'aggravio sul tempo. Argento a Tom McEwen che, insieme al suo Toledo, dopo aver conquistato l'oro a squadre ha saputo far meglio del più blasonato connazionale Oliver Towned, giunto poi quinto.
Applausi a scena aperta, invece, per Andrew Hoy che, a 62 anni e alla sua ottava partecipazione olimpica, è riuscito a salire sul gradino più basso del podio con Vassily de Lassos. Diciottesima l'italiana Susanna Bardone che, dopo essersi qualificata alla finale grazie a uno strepitoso percorso di qualificazione di salto ostacoli, ha commesso un errore nella seconda parte di gara



Hubbard, la prima transgender alle Olimpiadi eliminata ma felice: "Grazie Cio, lo sport è inclusione"


La neozelandese, 43 anni, esce subito di scena nella categoria +87 chili del sollevamento pesi. La sua medaglia è comunque la partecipazione: "E' stato stabilito che lo sport è per tutte le persone, inclusivo e accessibile"


TOKYO - Laurel Hubbard, la sollevatrice di pesi transgender di 43 anni, è stata subito eliminata: non è riuscita a completare nemmeno uno dei suoi primi tre esercizi nella categoria +87. Ma questo conta poco rispetto al messaggio di Laurel, prima transgender nella storia a partecipare a una Olimpiade. Alla fine il suo vero premio sono state le dichiarazioni di Richard Budgett, capo dello staff medico del Cio: "È una donna e competerà secondo le regole della sua federazione. Noi dobbiamo rendere onore al suo coraggio e alla sua tenacia che l'hanno portata a qualificarsi per i Giochi olimpici".
Troppa emozione, tre nulli
La neozelandese è stata eliminata in meno di mezz'ora, non riuscendo a concludere la prova di strappo con un'alzata valida: tre nulli alla fine. Sicuramente è stata tradita dall'emozione ed è crollata nel tentativo di rispondere alla dichiarazione dell’americana Robles (120 kg) e per restare in scia alla cinese Li Wenwen, partita addirittura da 130 kg e poi autrice, a quota 140 kg, del nuovo primato olimpico. Al suo ingresso in pedana, molti dei presenti, tecnici e non, hanno applaudito, ma alcune delle rivali non hanno nascosto la loro contrarietà alla partecipazione. "Rispetto lei - ha dichiarato la belga Anna Vanbellinghen - ma ribadisco la mia posizione: è un brutto scherzo".
"Grazie al Giappone e al Cio"
A fine gara, prima di uscire dalla sala, Laurel si è congedata mettendo la mano destra sul cuore in segno di saluto ai presenti. Quindi, dopo giorni di silenzio, ha finalmente parlato: "Vorrei solo ringraziare il popolo giapponese per aver ospitato le Olimpiadi in circostanze così straordinarie - ha detto Hubbard -. Penso che tutti conoscano i sacrifici che sono stati fatti e la situazione attuale in Giappone, quindi quanto è stato fatto è straordinario ed è encomiabile". "Non sono ignara delle polemiche che circondano la mia partecipazione a questi Giochi. E per questo motivo vorrei ringraziare il Cio per aver affermato il suo impegno per i principi olimpici e per aver stabilito che lo sport è per tutte le persone, inclusivo e accessibile", ha aggiunto Laurel Hubbard.

Daley, l'oro olimpico che lavora a maglia in tribunadal nostro inviato Maurizio Crosetti

Tom Daley



Immortalato mentre faceva la maglia allo stadio. Il campione che si batte per i diritti Lgbt, oro nei tuffi sincronizzati, su instagram ha un intero campionario: maglioni, coperte, copri teiere, plaid, pupazzi, unicorni





TOKYO – Tom sferruzza guardando le gare, e il mondo guarda lui. E’ un uomo e lavora a maglia: embé? E’ anche un campione, il britannico Tom Daley, medaglia d’oro nei tuffi sincronizzati in coppia con Matty Lee dopo i bronzi di Londra e Rio, un campione olimpico e un gay. "Orgoglioso di essere entrambe le cose", ha detto l’altro giorno in conferenza stampa, seduto accanto agli atleti russi e cinesi che aveva appena battuto: nei loro paesi, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è vietato dalla legge.




Immagini subito virali, quelle di Tom con i ferri in mano, la sua grande passione. Nel profilo Instagram “madewithlovebytomdaley” è possibile ammirare un intero campionario di lavori e lavoretti: maglioni, coperte, copri teiere, plaid, pupazzi, unicorni, persino una poltroncina per il gatto e un gilet per il cane. "Da anni mi applico al lavoro a maglia, e durante il lockdown mi sono perfezionato perché ho avuto ancora più tempo a disposizione".



Non è solo una curiosità a margine dei Giochi, ma un altro punto (senza croce) a favore di questo sport olimpico così inclusivo, del quale Tom Daley è stato un precursore: il suo coming out, uno dei primi tra campioni di livello planetario, risale infatti al 2013. Da tempo Tom si batte per i diritti Lgtb, oltre che per la lotta al cancro che gli portò via il suo amato papà. Sposato con lo sceneggiatore americano Dustin Lance Black, premio oscar per il film “Milk”, Daley è stato precoce in tutto: nell’agonismo di altissimo livello, visto che a 14 anni già disputava la prima Olimpiade, a Pechino, e naturalmente nella vita e nelle sue scelte.






E’ una persona molto amabile, si fa voler bene e soprattutto nessuno ha strabuzzato gli occhi in quella tribuna del Tokyo Aquatics Centre di Tokyo, quando Tom si è messo a sferruzzare. Per tutti è stato normalissimo, perché lo è. Sempre più uomini si dedicano al crochet, e comunque i Giochi stanno dicendo al mondo che non esistono steccati tra generi, e che in questo immenso e libero spazio ognuno si esprime, ama, gioca, gareggia, si ritira e vive come vuole.



Tom è anche padre di Robbie, che porta lo stesso nome del nonno che non ha conosciuto. Tom Daley e il marito Dustin lo hanno avuto tre anni fa grazie alla maternità surrogata. In un post sui social, Dustin aveva scritto a Tom: "Questo bambino vedrà suo padre diventare campione olimpico". Detto fatto. Quel bimbo un giorno vedrà anche il video di papà mentre sferruzza, e quello di Tom sul podio con gli occhi rigati di lacrime, una perla di pianto che scivola dalle pupille e cade dentro la mascherina. A proposito, tra i lavoretti a maglia di Daley c’è anche un profetico “porta medaglia”. Aveva cominciato a lavorarci prima di Tokyo, sicuro che non sarebbe stato tempo perso.











L'ora di Ondra, l'intellettuale che incanta Tokyo dal nostro inviato Giampaolo Visetti
(reuters)


Adam Ondra è il Phelps, il Bolt, la Pellegrini o il Djokovic delle salite in palestra e su roccia. Non è rimasto un bambino-prodigio: è il fuoriclasse capace di superare costantemente i propri exploit e di spingere il suo sport sempre un passo oltre il limite: “Un arrampicatore alle Olimpiadi vale il primo uomo sulla luna”




TOKYO – “E’ pazzesco essere finalmente qui. Immagino sia la sensazione di un astronauta che posa il piede sulla luna, il sogno di una vita che si realizza. Io ho sperato di poter arrampicare alle Olimpiadi da quando avevo otto anni: non avrei immaginato di doverne aspettare altri venti”. Adam Ondra è il Phelps, il Bolt, la Pellegrini o il Djokovic delle salite in palestra e su roccia. Non è rimasto un bambino-prodigio: è il fuoriclasse capace di superare costantemente i propri exploit e di spingere il suo sport sempre un passo oltre il limite.
L’arrampicata sportiva, grazie al boom mondiale di passione tra i giovani non solo di montagna, domani debutta ai Giochi e la stella ceca di Brno è il grande favorito per la conquista della prima medaglia d’oro nella storia delle salite. Se il successo dipendesse solo dalle discipline classiche dell’arrampicata naturale, il lead e il boulder, il pluricampione mondiale di entrambe sulla carta non avrebbe rivali. La combinata olimpica prevede però anche lo speed, la velocità su plastica, che Ondra e altri atleti non gradiscono che e continuano a considerare uno sport a sé: al punto che già a Parigi 2024 avrà una medaglia riservata. Gli aspiranti al primo titolo olimpico, anche tra le donne dove l’Italia punta sulla romana Laura Rogora, tra i 40 qualificati così aumentano: in corsa giapponesi, americani, spagnoli e francesi, oltre alla slovena Jania Garnbret e alla svizzera Petra Klinger.
A Tokyo 2020 tutte le lancette sono però puntate “sull’ora di Ondra”, l’unico uomo sulla terra a scalare vie sia 9c+ che 9a+ a vista, il solo ad eccellere in tutto e ad aver ripetuto in libera la terrificante “Daw Wall” su El Capitain. Più che un astronauta è un marziano e ai Giochi, dopo gli ultimi allenamenti nell’Aomi Urban Sports Park affacciato sull’oceano, teme più di tutto le condizioni climatiche. “C’è sempre molta umidità – dice – le prese scivolano e nemmeno il magnesio asciuga le mani. Forza, resistenza e tecnica devono così essere supportate da una attenta strategia di gara”. Durante i lunghi mesi del lockdown Ondra si è allenato in patria, nella palestra di casa. Sostiene che “questo tempo della sofferenza” potrebbe cambiare perfino il mondo dell’arrampicata, prima concentrato solo sugli exploit. “Tra le molte cose che causa Covid non saranno più come prima – dice – ci siamo anche noi. Finora abbiamo riscoperto il piacere di stare in famiglia e con gli amici, presto saremo chiamati a trasformare tutto in vera solidarietà. Essere generosi è il segreto per superare anche i problemi nascosti nelle pareti”. Ondra, laureato in economia, parla cinque lingue ma nel mondo delle scalate non è rispettato solo per essere “l’intellettuale verticale”.
Appena divenuto maggiorenne, dieci anni fa, è diventato donatore di midollo osseo, testimonial più giovane del progetto “Climb for Life”, che diffonde tra gli arrampicatori la cultura della donazione per salvare i malati di leucemia. “Non sono un eroe – dice – solo uno dei tanti: per i cuori liberi non limitare l’orizzonte a se stessi è naturale, come camminare sulle montagne della terra”. L’arrampicata sportiva è una delle discipline più spettacolari e telegeniche di questi Giochi e per la prima volta una gara sarà trasmessa in diretta mondiale. Adam Ondra su una parete vale Messi su un prato. Ha cominciato ad arrampicare a cinque anni con mamma Eva e papà Miroslav. A sei anni, a Rovigno, era già sulle falesie di 6a. Il primo 9a, limite insuperabile per molte guide, quando aveva 13 anni. Due anni dopo, superando la mitica “Action Directe” aperta da Wolfgang Gullich e risolvendo in libera la “WoGu”, tra le vie più lunghe e più difficili del pianeta, è entrato nel gotha dei rocciatori. Diritto alla storia confermato a 17 anni in Madagascar: qui il minorenne Ondra ha scalato in libera e in giornata “Tough Enough”, 400 metri di granito per dieci tiri di corda da a 8c. “L’importante – ripete – è visualizzare il ritmo di una parete, capire dove poter decontrarre almeno un po’ per alcuni secondi. Poi si deve spegnere il cervello e salire come si deve”. Escludere i pensieri per abbassare lo stress, in Olimpiadi condizionate da pandemia, assenza di pubblico dal vivo e isolamento, è l’ossessione di tutti gli atleti. Il debutto dell’arrampicata sportiva impone però a chi punta a una medaglia anche la polivalenza. Molti specialisti di boulder e lead hanno rinunciato. Ondra no, ha raccolto l’ennesima sfida. “Mi alleno sette ore al giorno – dice – mi piace tutto e cambiare stile è la cosa più divertente che ci sia.
Alla fine anche qui a Tokyo è decisivo prendere decisioni il più rapidamente possibile e poi crederci fino alla fine”. Il suo sogno, dopo i Giochi, è tornare su El Capitain per superare a vista una delle vie-mito del free climbing, ma pure “alzare sempre più la quota delle ascese su roccia” esplorando Himalaya, Patagonia e Groenlandia. “Resto uno da scarpette – sorride - non da scarponi. Ma è tempo di abbattere il muro culturale che ancora divide alpinismo e arrampicata sportiva”. Per un campione nato in un Paese dell’ex blocco sovietico, grande ambasciatore di una Ue “con sempre meno barriere”, un oro in Giappone sarebbe il primo calcio all’ultimo confine che taglia le montagne.






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