Ritrova l'equilibrio, il bronzo e soprattutto se stessa. Era la cosa più importante, per Simone Biles: cacciare via i
demoni e i tormenti che per una settimana, quella più importante, l'avevano tenuta lontana dalla ginnastica che l'hanno resa la più grande di sempre. Dopo il no a sorpresa martedì scorso alla finale a squadre "per salvaguardare la mia salute mentale", la 24enne americana,
aveva rinunciato anche a tutte le seguenti gare individuali dove era candidata all'oro: niente all-around, né volteggio, parallele asimmetriche e corpo libero.
Il no alle altre gare
Ma oggi, sulla trave che era l'ultima delle prove che assegnavano medaglie ai Giochi di Tokyo, Simone ci voleva essere contro i suoi twisties, i
black out mentali che fanno perdere in volo i riferimenti spaziali e che aveva scoperto sulla pedana giapponese proprio poco prima di andare in finale. Non voleva compromettere l'esito della gara delle sue compagne (poi d'argento) e nemmeno la sua salute mentale. Si è presa del tempo per se.
"Non siamo solo show"
Ed è tornata e c'è stata, col suo costume rosso bianco e blu e più di 5mila cristalli luminosi. Sale sulla trave, non perde l'equilibrio (tranne una breve incertezza a metà esercizio), semplifica un po' le figure, conclude atterrando con un lieve saltino. Gli è sufficiente per essere terza. Soprattutto, per ritrovare fiducia. Solo applausi per lei e clic dei fotografi. A guardarla, anche il presidente del Cio, Thomas Bach. Lei si mette la mano sul cuore. Batte. "Non siamo solo spettacolo, parliamo di più del problema della salute mentale degli atleti. E siccome non siamo più bambini, ora che siamo cresciuti possiamo farlo da soli", ha detto. "Non pensavo di prendere una medaglia: ho gareggiato solo per me stessa, e questa gara vale tutto il mondo".
Oro cinese
La campionessa americana ha chiuso il suo esercizio con 14.000 punti e si è presa il bronzo come a Rio 2016: è la sua settima medaglia olimpica. Davanti a lei le due cinesi teenager, Chenchen Guan, 16 anni, oro con 14.633 punti e la 18enne Xijing Tang, argento con 14.233.
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"Sappiamo dove abiti", minacce di morte agli atleti di Tokyo 2020
dal nostro inviato Giampaolo Visetti
(reuters)
I campioni giapponesi denunciano gli attacchi violenti sui social. Mizutani, stella del ping-pong: "Ho paura a prendere in mano il telefono". La ginnasta Murakami: "Neanche andare ai Giochi ti dà un attimo di felicità". Il legale: "Gli insulti legati alla pandemia"
TOKYO – “Devi morire”, oppure “Vattene per sempre”, o ancora “Sappiamo dove abita la tua famiglia”. Jun Mizutani, 32 anni campione giapponese del ping-pong, non aveva immaginato che vincere una medaglia d’argento alle Olimpiadi lo avrebbe trasformato in vittima di minacce di morte.
Invece per la prima volta ai Giochi debutta anche l’odio via social e decine di atleti denunciano in queste ore di essere presi di mira da una globale violenza virtuale. Insulti e minacce non travolgono solo gli account di chi non si conferma all’altezza delle attese agonistiche dei tifosi. Colpiscono anche gli atleti di punta che conquistano una finale, ma che non arrivano alla medaglia d’oro.
Il campione di ping-pong: "Vogliono uccidermi"
Jun Mizutani nella finale del doppio ha perso contro una coppia cinese. “Da quel momento – ha detto – non ho più il coraggio di prendere in mano il cellulare. Su Instagram migliaia di sconosciuti promettono di venirmi a cercare per uccidermi e coprono di ingiurie anche la mia anziana madre. Con un argento al collo sono costretto a vivere nella paura”. L’escalation degli haters è tale che il Comitato olimpico internazionale è stato costretto a fornire un servizio di consulenza per bloccare i “messaggi inappropriati” contro gli atleti. La polizia giapponese ha annunciato che i post di minaccia, o diffamatori, saranno sequestrati per arrivare a identificare gli autori.
La ginnasta Murakami: "Non posso tornare a casa"
Le Olimpiadi, ispirate agli ideali di pace di Pierre de Coubertin, non erano mai state il proscenio di una gogna digitale tanto allarmante. La ginnasta May Murakami, 24 anni, colpevole di non aver arricchito il bottino di medaglie del Giappone, non ha potuto rientrare a casa per il timore di essere picchiata, come promesso su Twitter. “Sono molto triste – ha detto – ho dedicato la vita allo sport e scopro che nemmeno arrivare ai Giochi ti dona un attimo di felicità”. Per gli atleti del Villaggio la gestione dei social, quando sfugge il gradino più alto del podio, sta diventando il problema più difficile e la peggiore fonte di stress. La maggioranza possiede siti personali e account con milioni di followers. Fino a ieri i social erano il luogo in cui immagini personali, video e descrizioni di momenti privati riscuotevano i like entusiasti dei sostenitori. Ora si rivelano la piazza per processi collettivi che spingono molti nella depressione.
Gli insulti a Simone Biles
Il peso dei social non schiaccia solo i campioni giapponesi. La fuoriclasse della ginnastica Usa Simone Biles, dopo aver rinunciato al concorso collettivo rivelando il proprio disagio psicologico, sulla Rete è stata attaccata con insulti razzisti e sessisti. Dopo la finale degli Europei di calcio i tre giocatori britannici che hanno sbagliato i rigori contro l’Italia sono finiti nel mirino del razzismo inglese per il colore della loro pelle. Minacce di morte contro la famiglia sono state recapitate via social anche al calciatore spagnolo Alvaro Morata, pure per l’errore fatale di un calcio dal dischetto. L’odio a distanza anche nello sport non è una novità. Le Olimpiadi invece non si erano mai confrontate con un fenomeno tanto diffuso, preoccupante e decisivo. “Ormai sai che se non vinci la medaglia d’oro – ha detto il nuotatore Daiya Seto, 27 anni, finito quarto nei 200 misti – vieni travolto dall’odio e sei costretto a sparire. Questo non permette più di competere sereni, le prestazioni ne risentono e molti di noi sono tentati di smettere”.
Con la pandemia cresce l'intolleranza
Una tempesta di ingiurie ha travolto perfino la stella nascente giapponese Daiki Hashimoto, 19 anni, medaglia d’oro nella ginnastica, e il campione di surf Kanoa Igarashi, 23 anni, finito secondo. L’esercito degli odiatori, in gran parte stranieri, contro di loro si è scatenato per denunciare il presunto pagamento di mazzette per corrompere i giudici e per stabilire senza appello che i due “non sono all’altezza di una medaglia e disonorano le Olimpiadi”. L’avvocato Kazuya Tanaka, membro dell’associazione giapponese “Bar” per la tutela giuridica dei diritti umani, sostiene che questo boom dell’odio nello sport e contro gli atleti dei Giochi è connesso con la pandemia. “La gente, in Giappone e in buona parte del mondo, vive da mesi reclusa in casa con l’incubo del Covid. Molti hanno perso il lavoro e non sanno come mantenere la famiglia. La salute mentale e nervosa dell’umanità sta rapidamente peggiorando. In Giappone poi si somma l’ostilità della maggioranza contro queste Olimpiadi, svolte nonostante la moltiplicazione dei contagi: gli atleti sono considerati colpevoli di non essersi rifiutati di competere per non mettere a rischio la vita dei propri connazionali”. I comitati olimpici di diversi Paesi si stanno così muovendo per offrire agli atleti del Villaggio una “difesa social” e il rimborso delle spese legali a chi decide di fare causa contro gli odiatori che vengono identificati. I giganti del web promettono di bandire chi “impugna i social come l’arma di un killer contro la bellezza dello sport olimpico”, di cui anche la sconfitta è ingrediente essenziale. Tra le misure allo studio, l’esclusione dall’e-commerce di chi diffonde ingiurie e minacce. Vittima della campagna che ha preso di mira Tokyo 2020 è anche la famiglia imperiale. L’imperatore Naruhito è stato attaccato a livello personale sui social per aver cambiato la formula pronunciata all’inaugurazione, evitando il sostantivo “festa” in piena emergenza Covid. Sono volati insulti pesanti. Risultato: alla cerimonia conclusiva, l’8 agosto, l’imperatore non parteciperà, come aveva fatto invece suo nonno Hirohito nel 1964. A chiudere i Giochi sarà il principe Akisinho, erede al trono. Certi dettagli silenziosi in Giappone sono più eloquenti delle parole.
Kiraly, il signore del volley che ha ridisegnato lo sport
di Valentina Desalvo
(ansa)
Origini ungheresi, cresciuto a Santa Monica, da giocatore ha vinto due ori olimpici negli anni Ottanta, per poi conquistare il terzo oro nella prima edizione del bach volley ad Atlanta '96. Guida la squadra delle ragazze statunitensi che ai quarti sfida la Repubblica Dominicana. E ora punta al quarto oro
Tutto ciò che oltrepassa la rete si può prendere...”. Così Karch Kiraly è diventato la pallavolo. In uno sport dove spesso ci si innamora degli schiacciatori, il suo bagher e le sue difese erano più sexy di una diagonale nei tre metri. Oggi a 60 anni Karch Kiraly fa l’allenatore della nazionale femminile degli Stati Uniti, e continua a essere, anche in panchina, la pallavolo. Figlio di un immigrato ungherese (il cognome vuol dire “re”, forse una profezia, mentre il nome sta per Carlo), cresciuto a Santa Barbara, in California, diplomato a Ucla in biochimica, da sempre insieme a Janna con due figli Kristian e Kory, Kiraly ha reso semplice quello che per tutti era impossibile.
Più che il Micheal Jordan del volley, ha detto qualcuno, è stato come Steve Jobs: con la nazionale americana, all’inizio degli anni Ottanta, ha cambiato il gioco per sempre, partendo dal design della ricezione, diventata a due mentre tutti gli altri seguivano le rotazioni facendola a quattro. Due medaglie d’oro alle olimpiadi (1984 e 1988), un mondiale (1986), la forza di rovesciare il regno dei paesi dell’Est arrivando dal nulla e dalle spiagge americane.
Kiraly ha vinto tutto con la nazionale e con il club (quando Ravenna lo portò in Italia nel 1990 insieme a Steve Timmons conquistando scudetto, coppa campioni e campionato del mondo per club) ma sarebbe meglio dire il contrario: la nazionale e il club hanno vinto tutto con lui. Perché ha creato uno stile, la capacità di essere sempre dove serviva, senza sforzo, e di reggere da solo (in realtà c’era sempre un altro compagno) le battute degli avversari. Biondo, non altissimo (190 centimetri), ci ha fatto innamorare per la sua intelligenza sportiva, per la sua calma, per il suo rapporto privilegiato con la palla, ubbidiente e fedele, quando la chiamava lui.
Anche in attacco, dove poteva colpire con forza, ma anche indirizzare con dolcezza spiazzando gli avversari. Dopo le medaglie indoor, Kiraly ha deciso di vincere anche nel beach, diventando l’unico, con l’oro di Atalanta 1996 (prima edizione per questa disciplina), ad aver trionfato in palestra e in spiaggia. Tre ori olimpici in dodici anni. Per questo, insieme a Lorenzo Bernardi, è stato scelto come migliore del ventesimo secolo. Ha giocato a beach fino a 45 anni, battendo i ragazzi nei ricchi tornei del circuito, poi nel 2009 ha iniziato a fare l’allenatore. Nel 2014 con la nazionale femminile degli Usa ha vinto il mondiale e adesso, a Tokyo, prova a vincere l’olimpiade.
Prima nel girone dell’Italia, la nazionale di Kiraly giocherà i quarti con la Repubblica Domenicana, con la strada abbastanza spianata per la semifinale e per provare a vincere i giochi. La storia nella storia, perché per lui sarebbe la quarta volta. Come ha detto Bill Neville nello staff tecnico di Doug Beal nel 1984, «Karch è speciale, unico. A cominciare dal nome. Quanti Karch conoscete a parte lui?».
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