21.3.14

Parla Giorgio Lupano, protagonista della pièce Oggi e domani a Sassari e domenica a Tempio “Elephant Man” La consapevolezza di essere un uomo

sembra  bello   . Ed  interessante  . Alemo da quel che  dice la  nuova sardegna del  21\4\2014

di Roberta Sanna 

SASSARI Sarà oggi e domani (ore 21) al Comunale e domenica a Tempio “Elephant Man”, spettacolo di Giancarlo Marinelli. Ne parliamo con Giorgio Lupano, nella scena Joseph Merrick, affetto da una malattia deformante e realmente vissuto nell’Inghilterra vittoriana. «Lo spettacolo racconta – dice l’attore – l’umanità di Merrick, la lenta acquisizione di questa consapevolezza. Fino ad allora aveva accettato la condizione di “uomo elefante” con rassegnazione, trattato come un fenomeno da baraccone mai da essere umano. Grazie all’aiuto del personale dell’ospedale, l’amore e l’amicizia - il dottore e sua
moglie, Rosario Coppolino e Deborah Caprioglio, e la capoinfermiera, Ivana Monti, riacquista la sua identità di uomo». Perché può interessare lo spettatore odierno? «Oggi siamo esposti ad altri tipi di esibizione:la ricerca spasmodica della bellezza, la forma fisica a tutti i costi, l’omologazione a canoni imposti di bellezza. Questa è una chiave di lettura. Dire che siamo persone e non conta l’aspetto, sembra banalità, ma nei più giovani non attecchisce. In America le ragazzine chiedono le protesi al seno per il compleanno. È un modo per diventare bellezze da baraccone». È un limite recitare con una maschera? « In teatro il volto conta meno che al cinema. Conta più il corpo, come occupiamo lo spazio o usiamo la
voce. Qui anche quella è deformata. Ma anche così posso dare la mia personale interpretazione. Sarò più chiaro: prima di me c’era Daniele Liotti e nonostante indossiamo la stessa maschera e lo stesso costume siamo due Merrick molto diversi. Capaci di dare a questa fissità del volto e della postura un carattere, una personalità precisa. Certo è una bella sfida. Appena me lo hanno proposto ho pensato: quando mi ricapita un personaggio così? C’era il timore di una storia che parla di deformità fisica, tema su cui non si può essere superficiali, e dall’altra parte una sfida, perché recitando con la maschera, la postura e la voce deformate, dovevo far emergere l’umanità. Ora so che chi viene a teatro dimentica la maschera e sta ad ascoltare l’autoironia che viene fuori, la tenerezza e a volte la cattiveria, fino a scoprire la persona che c’è dietro».


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