31.7.14

Da Sassari alla cattedra di Microbiologia in California, Manuela Raffatellu racconta il suo sogno americano


L’attitudine a bruciare le tappe l’ha dimostrata sin da piccola «ho imparato a leggere prima di aver compiuto due anni, grazie a mia madre, docente di Lettere alla scuola media» e, a vedere i risultati, l’ha mantenuta intatta nel tempo. Laurea con 110 e lode a 24 anni in Medicina e Chirurgia a Sassari, Manuela Raffatellu, vive dal 2002 negli Stati Uniti. Qualche settimana fa è diventata professore associato con “tenure” -col posto fisso – di Microbiologia e Immunologia alla facoltà di Medicina dell’UCI (Università della California, Irvine), 149 esima nel ranking mondiale secondo il QS World University Rankings 2013, e prima assoluta tra quelle americane nate meno di 50 anni fa.                                                                                                                                                        A 38 anni, la docente sassarese vanta una serie impressionante di riconoscimenti; citiamo in ordine sparso: il premio ICAAC della ASM (Società Americana di Microbiologia), l’Astellas della IDSA/NFID (Società Americana di Malattie Infettive) e quello della fondazione Burroughs Wellcome
Fund per lo studio delle malattie infettive. Nel 2013 e nel 2014 è stata menzionata per la qualità eccellente del suo insegnamento all’interno dell’università ed è stata invitata a tenere diversi seminari, incluse alcune lezioni magistrali, in tutto il mondo: dalla Svezia a Taiwan, dalla Germania al Messico e in tanti prestigiosissimi atenei quali Berkeley e Stanford.
«Attualmente – racconta – faccio soprattutto ricerca di base, dirigo un gruppo di otto persone e insegno Microbiologia e Immunologia agli studenti del corso di Medicina. Mi interessoprincipalmente dell’interazione di batteri patogeni come la salmonella con l’ospite e con il microbiota, la flora normale intestinale. Con la mia équipe studio anche i meccanismi d’azione dei probiotici, batteri che hanno effetti positivi sulla salute; ci occupiamo inoltre del potenziale sviluppo di vaccini. Passo la maggior parte del tempo nel mio ufficio a scrivere lavori scientifici e progetti. Quasi ogni giorno mi confronto con gli studenti, i dottorandi e i post-doc: analizziamo i dati e discutiamo gli esperimenti successivi. Circa una volta al mese faccio un viaggio per illustrare la mia attività. Faccio circa 50 mila miglia di volo ogni anno».                                                                                                                                     Un talento, il suo, che non è sfuggito al sistema a stelle e strisce, lestissimo ad accaparrarsi sistematicamente i migliori, puntando su merito e trasparenza. Due principi che, soprattutto in Italia, riempiono da anni il dibattito pubblico ma che sono poco praticati, diversamente da quanto avviene negli USA, come racconta lei stessa: «Sei anni fa, superando la concorrenza di 150 candidati, una ragazza straniera di 32 anni ottenne all’unanimità l’incarico di realizzare un laboratorio; le affidarono 700 mila dollari per comprare strumenti, assumere personale e fare ricerca. Nel tempo ha portato all’università molti più soldi di quelli che le erano stati concessi e, quindi, si è rivelata un ottimo investimento. Quella ragazza ero io. Questa fiducia nei giovani non esiste altrove, che io sappia».Certamente non nel nostro dove, da decenni, i posti di responsabilità sono occupati militarmente dalle stesse persone; alfieri di un sistema ingessato che ci tiene inchiodati malinconicamente ai nastri di partenza della competitività, spingendo chi vuole emergere a cercare altri approdi. Una scelta, quest’ultima, che Manuela Raffatellu ha preso 12 anni fa: «Sono andata via perché volevo imparare a fare ricerca e capire se quella poteva essere la mia strada. Ho scelto gli Stati Uniti perché sono ancora il Paese più all’avanguardia in questo settore e anche perché sono la terra delle opportunità. Recentemente sono andata alla cerimonia per i nuovi dottorandi di tutte le facoltà della mia università, c’erano giovani di 100 nazionalità differenti che parlavano 80 lingue diverse. Credo che la forza degli Stati Uniti sia proprio l’accoglienza e la valorizzazione dei migliori, indipendentemente dalla loro provenienza. Io dico sempre ai ragazzi che mi scrivono dall’Italia e che vogliono venire qui per fare un’esperienza lavorativa di pensarci bene; questa è una realtà difficile da lasciare. L’altra faccia della medaglia è che gli USA sono basati sulla competizione. Mi rendo conto che questo stile di vita non è adatto a tutti. La mia esperienza sinora è molto positiva, sono riuscita a realizzare molto di più di quello che pensavo. Il mio progetto è continuare a fare il mio lavoro ad alti livelli e contribuire alla formazione di altri ricercatori. Tuttavia – conclude Manuela – non escludo di poter tornare in Italia, un giorno, se si dovessero presentare le opportunità giuste».
Giovanni Runchina

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