8.7.14

l'incredibile storia di Odón, ingegnere di Buenos Aires che ha brevettato un sistema per aiutare i parti difficili ispirato al trucco per tirare fuori il tappo caduto nella bottiglia






STORIE DELL'ALTRO MONDO
Un meccanico in sala parto

Odón aveva un’officina vicino a Buenos Aires, poi ha inventato un sistema semplice e geniale per aiutare i parti difficili che potrebbe far sopravvivere buona parte di quei 5 milioni di neonati che muoiono ogni anno nel mondo per complicazioni mentre vengono alla luce. Ispirato al trucco per tirare fuori il tappo caduto nella bottiglia


TESTO E FOTO DI ENRICO FANTONI





        Jorge Odón, 60 anni, nello studio di casa sua a Banfield, piccola località in provincia di Buenos Aires



Jorge Odón, un meccanico di 60 anni di Banfield, piccola località vicino a Buenos Aires, ha inventato un apparecchio che salverà la vita a centinaia di migliaia di neonati. Non è un seggiolino per auto più sicuro, e nemmeno un nuovo sistema di frenaggio, ma qualcosa che aiuterà i bambini a nascere. E potrebbe far sopravvivere buona parte di quei 5 milioni di neonati (e circa 150 mila madri) che muoiono ogni anno nel mondo per complicazioni durante il parto.
Tutto è cominciato otto anni fa, con un tappo di sughero finito sul fondo di una bottiglia di vino. Jorge Odón stava pranzando con i dipendenti della sua officina quando uno di loro gli propose una sfida: estrarre il tappo
dalla bottiglia vuota, senza romperla. Arrendendosi all’impresa impossibile, Jorge dovette ricredersi osservando le mosse dello sfidante: l’uomo aveva inserito una busta di plastica per la spesa nel collo della bottiglia, lasciandone fuori l’estremità coi manici, poi aveva inclinato la bottiglia in modo che il tappo entrasse in contatto col sacchetto, infine aveva soffiato nel sacchetto per gonfiarlo, aveva tirato le maniglie e... pop! Il tappo era uscito docilmente.
Era solo per l’azione combinata di due principi fisici (la pinza pneumatica e il nastro trasportatore), ma a Odón parve una magia. Quella stessa notte si svegliò con un’idea in testa: lo stesso principio poteva essere usato per aiutare i neonati a lasciare l’utero materno, operazione spesso difficile. Jorge, padre di cinque figli, un po’ di esperienza sul campo ne aveva. «Mi succede spesso di svegliarmi nel cuore della notte con soluzioni a vari problemi», confida quando mi riceve nello studio ricavato nella soffitta di casa sua, una villetta con giardino in una zona residenziale a un’ora dal centro della città. «Di solito non chiamo mia moglie, ma quella volta lo feci e le dissi cosa avevo pensato. Lei si girò e si rimise a dormire».
Il prototipo nel garage
Il giorno dopo Jorge ripete il trucco con Carlos Modena, un amico ingegnere: a fine pasto gli lascia sul tavolo alcuni oggetti - un coltello, un cavaturaccioli, una forchetta - e un sacchetto di plastica. Poi lo invita a tirar fuori il tappo dalla bottiglia con gli oggetti a disposizione. Si danna una buona mezz’ora, Carlos, prima di darsi per vinto e vedere l’espressione trionfante sulla faccia dell’amico quando estrae il tappo dopo avere soffiato nel sacchetto. Jorge gli spiega la sua idea e gli offre di mettersi in società: «Lui mi rispose: ma tu sei un meccanico, che ne sai di parti?». Così Carlos prese appuntamento con un amico ostetrico. Pochi giorni dopo, eravamo nel suo studio. L’amico si mise a sedere dall’altra parte della stanza, come a dire: io non c’entro niente con questa follia. Ma a dimostrazione finita disse: idea geniale.
Seguono mesi di febbrili esperimenti nell’officina di Jorge. Prima provano con un barattolo di biscotti e un bambolotto; poi con un utero di vetro che Jorge si fa costruire da un artigiano, da cui cercano di estrarre Luna, la bambola preferita di Jadira, sua figlia più piccola. «Stavamo ore chiusi in bagno a trafficare con le bambole: i miei impiegati pensavano che fossi diventato pazzo», confessa Jorge.
Il prototipo sembra funzionare: è l’ora di cercare alleati autorevoli. Javier Schvartzman è un ostetrico del Cemic, un centro medico nato nel 1958 che dipende dall’Università di Buenos Aires: dal 2008 è anche il ricercatore principale del dispositivo, colui che lo ha svilupparlo e testato. Quando lo incontro lo riconosco subito: Schvartzman ha fatto nascere mia figlia Anna, 13 anni fa. Anche lui si ricorda di me, o meglio, del parto «più complicato» della sua carriera. Quel 2 febbraio 2001 era comiciato tutto come al solito - la rottura delle acque, la corsa in ospedale, le contrazioni. Poi qualcosa andò storto, le facce dei medici e delle infermiere tradivano preoccupazione. Era la posizione: Anna era supina, il collo piegato e le spalle incastrate nel canale del parto. Schvartzman decise di usare il forcipe: mentre tirava, due infermiere si erano distese sul ventre della madre, facendo pressione. «Non esce, non ci riesco», fu l’ultima frase del dottore, prima di ordinare alle infermiere di prepararsi per un cesareo. Nessuno pensò a dirmi di uscire e così la prima immagine che ho di mia figlia fu mentre veniva estratta dalle viscere della madre, la pelle grigia per l’anossia. Passata la paura, tutti concordammo che solo la freddezza di Schvartzman, nel decidere per il cesareo, aveva salvato la vita di mia figlia.
Pensavano a uno scherzo
Sei anni dopo, nel dicembre 2007, il dottor Schvartzman conosce il meccanico di Banfield. Grazie a un giornalista amico riesce a contattare Enrique Gadow, genetista di fama mondiale, che presiede il Cemic. Questi non vuole scontentare l’amico, ma l’idea di conoscere un ostetrico dilettante non l’entusiasma. Da secoli non s’inventa niente di nuovo in quel campo: il forcipe ha 400 anni e la ventosa è poco più giovane. Possibile che ci riesca un meccanico? Gadow passa la patata bollente a Javier Schvartzman, un suo sottoposto. «La prima volta che l’ho incontrato credevo fosse uno scherzo, una candid camera», confessa. «Quando Jorge ha tirato fuori dalla borsa una bottiglia e un sacchetto di plastica, cercavo di indovinare dove fosse la telecamera. Poi, quando ha ripetuto il trucco con un bambolotto e un utero di vetro, ho ammesso che la cosa era interessante». I due, a cui si unisce un altro medico del Cemic, Hugo Krupitzki, cominciano a riunirsi periodicamente per perfezionare il dispositivo. Le modifiche apportate in officina sono passate al vaglio dei medici: è Schvartzman a notare che non è necessario avvolgere tutto il corpo del neonato, basta la testa. Anche Mario Merialdi, l’italiano a capo del Human Reproduction Team della World Health Organization è scettico quando i medici del Cemic insistono perché dia un’occhiata all’invenzione: a Buenos Aires per il congresso plenario dell’organizzazione, Merialdi concede all’inventore 10 minuti in una saletta di un hotel. Dopo due ore, Merialdi diventa il principale sostenitore dell’idea e chiede a Schvartzman e Krupitzki di elaborare per la WHO i protocolli necessari all’approvazione del dispositivo - la prima cosa da dimostrare è che non sia dannoso - e il “facilitatore di Odón” passa il test.
L’ok degli scienziati
Il resto è storia recente: adottata dalla WHO, l’invenzione è testata con successo su 30 donne. Jorge assiste a tutti i parti, apportando modifiche fino a rendere il dispositivo molto simile a quello che la BD (Becton, Dickinson and Company), la ditta Usa che si è aggiudicata il brevetto, comincerà a produrre a breve. L’Odón Device è composto di un manico di teflon attorno a cui si attorciglia una speciale borsa di plastica con due forti maniglie. Il manico è quello che serve al posizionamento nell’utero, una coppetta di gomma aderisce alla testa del bebé indicando quando è in posizione. A quel punto il medico o l’infermiere (il dispositivo è molto semplice) srotola la borsa, rimuove il posizionatore e aziona una pompetta che gonfia la borsa, stringendola come un delicato cappio attorno al collo del bebé - non c’è rischio di soffocarlo, ancora respira attraverso il cordone ombelicale. Poi si tirano le maniglie, fino a far uscire la testa
Il 99% dei decessi di madri e neonati si registra nei paesi in via di sviluppo: ecco perché Jorge Odón ha preteso (e ottenuto) che BD aggiungesse come clausola del suo contratto una lista di 70 paesi del Sud del mondo dove il dispositivo verrà offerto al prezzo di costo: 50 dollari. Ma ci sono altri effetti benefici: «L’abbattimento dell’incidenza dei tre principali fattori di morte materna: atonia uterina, infezioni dell’utero e parto ostruito», spiega Schvartzman. Un altro effetto virtuoso è di limitare il contatto del bebé con le mucose del canale di parto, principale causa di eventuale trasmissione del virus Hiv al neonato». Nei paesi più sviluppati potrebbe anche ridurre la necessità di ricorrere al parto cesareo, costoso e spesso inutile. Nel Cemic c’è grande attesa per la fase 2 della sperimentazione, che durerà tutto il 2014, su due gruppi di donne al primo parto: il primo lo affronterà coi mezzi consueti, al secondo verrà applicato il dispositivo di Odón. I risultati saranno poi messi a confronto.
Nel frattempo, la vita dei protagonisti di questa storia è cambiata: Mario Merialdi ha lasciato la WHO e lavora per la BD come responsabile dello sviluppo. Schvartzman e Krupitzki, rimasti a capo del team di sperimentazione, sono invitati ai simposi di mezzo mondo e non sembrano preoccupati del fatto che non avranno partecipazioni sui proventi: «Aver contribuito a un’invenzione che potrebbe cambiare la storia non ha prezzo», dicono. Il cambiamento più radicale è avvenuto nella vita l’ex-meccanico di Banfield: ceduta l’officina al figlio, oggi si dedica totalmente alla sua invenzione e passa le mattine in teleconferenza con Singapore, dove si danno gli ultimi ritocchi al dispositivo che porta il suo nome. La sua storia è finita sul New York Times e Forbes ha inserito la sua tra le 5 invenzioni più interessanti per ricadute sociali. Non si sente un pesce fuor d’acqua, tra gli scienziati di tutto il mondo: «Essere un meccanico è un vantaggio», dice. «Perché devi sempre inventare nuove soluzioni»

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