22.7.14

Parità scolastica, il paradosso italiano La nostra Repubblica continua a riconoscere e finanziare istituti di istruzione che fanno della discriminazione sessuale un valore fondante. Il caso di Trento.

La cosiddetta "parità scolastica", con lo stato che foraggia scuole confessionali che hanno un indirizzo ideologico discriminatorio e non garantiscono piene tutele ai lavoratori potendo esercitare una larga discrezionalità, mostra tutte le sue contraddizioni con l'ultimo caso di Trento. I clericali --  sempre  secondo l'account  facebook  di  UAAR Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti --rivendicano la "libertà" del proprio indirizzo formativo, pretendendo che gli insegnanti si adeguino ai principi professati. 
Infatti  Lo scandalo non è di certo questo, quanto il fatto che lo stato continui a spendere centinaia di milioni di euro l'anno (http://www.icostidellachiesa.it/),  violando  l'articolo 33  della  costituzione 


L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
E` prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.
in particolare la frase  : 

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. legittimando di fatto discriminazioni e parzialità e sottraendo risorse alla scuola pubblica ( pseudo laica corsivo mio ) laica

Infatti 






Cecilia M. Calamani
lunedì 21 luglio 2014 16:29

Parità scolastica, il paradosso italiano

La nostra Repubblica continua a riconoscere e finanziare istituti di istruzione che fanno della discriminazione sessuale un valore fondante. Il caso di Trento.


















La vicenda dell'insegnante trentina alla quale una scuola cattolica non ha rinnovato l'incarico perché lesbica apre scenari che vanno al di là del semplice principio di non discriminazione sancito dalla nostra Costituzione.
Il fatto: a contratto in scadenza, la docente viene convocata dalla madre superiora e direttrice dell'istituto parificato, il Sacro Cuore di Trento. Nel colloquio, le viene chiesto di smentire la sua vociferata omosessualità pena il mancato rinnovo. «Chiaramente - commenta l'insegnante al Fatto quotidiano - mi sono rifiutata di rispondere: mi sono sentita offesa, per quella domanda che entra a gamba tesa dentro la vita privata di una persona. Lei però non ha desistito: sembrava che le bastasse una mia smentita in quella sede, ma alla fine ha detto che se non rispondevo era perché evidentemente le voci erano vere e se non dimostravo il desiderio di risolvere quel problema non c'erano possibilità d'intesa». E quindi contratto addio.
Nel putiferio di reazioni che l'episodio ha scatenato, il fronte cattolico difende la legittimità dell'operato della direttrice sostenendo che gli insegnanti di un istituto privato devono rispettare i valori professati dall'istituto stesso. Una persona omosessuale, in sintesi, non può insegnare in una scuola cattolica perché i suoi comportamenti privati ledono i principi del cattolicesimo sulla famiglia. Questa, almeno, la versione ufficiale, a cui però sarebbe bene aggiungere, almeno per onestà intellettuale, che il cattolicesimo continua a considerare l'omoaffettività un «disordine morale» e a condannarla in tutti i documenti dottrinali, Catechismo compreso.
Ora, non basta appellarsi alla nostra carta costituzionale, che sancisce la piena uguaglianza sociale di tutti i cittadini «davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Questo è solo l'aspetto più evidente della faccenda e potrà essere impugnato, se la docente lo riterrà opportuno, in sede giudiziaria. La riflessione che il mero fatto di cronaca dovrebbe aprire ha un respiro un po' più ampio. Le scuole cattoliche, se paritarie come quella di Trento, sono equiparate a tutti gli effetti a quelle pubbliche pur rispondendo a principi completamente diversi. E infatti educano gli studenti a una visione religiosa del mondo con tutto ciò che questa comporta, dall'insegnamento del creazionismo - per i più evoluti "disegno intelligente" - al "peccato" derivante dall'esercizio, in ambito sessuale, riproduttivo e affettivo della libertà personale. In più lo Stato italiano finanzia questi istituti per un totale annuo di circa 325 milioni, ai quali si aggiungono gli almeno 500 milioni di contributi che a vario titolo Comuni, Province e Regioni erogano in modo autonomo (inchiesta Uaar "I costi della Chiesa"). Tutti fondi sottratti all'istruzione pubblica, quella aperta a tutti e che non ammette discriminazioni ideologiche sia verso gli studenti sia verso i docenti perché, per principio costituzionale, laica.
In quest'ottica, la vicenda di Trento mette il dito in una piaga dolente comunque vada a finire. La discriminazione operata dalle scuole cattoliche non avviene solo ex post, come in questo caso, ma ancheex ante senza che ciò costituisca una violazione ai principi di uguaglianza fondanti del nostro ordinamento giuridico e scolastico. E, ciò che è ancor più grave, con il beneplacito e il sostegno economico dello Stato.
Il quadro è a dir poco schizofrenico: un Paese che si proclama laico e condanna per bocca dei suoi rappresentanti la violenza di stampo omofobico, non lesina nel riconoscere e per giunta finanziare chi semina discriminazione - ossia il germe di quella stessa violenza - nei cittadini di domani. Su queste basi, ogni istanza di progresso civile sui temi legati all'autodeterminazione della persona ha il sapore amaro dell'ipocrisia.

                                                  Cecilia M. Calamani 

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