11 Luglio 2022
Down e autistico, mamma Donatella racconta: “Emanuele era pieno di rabbia e picchiava, ora studia teologia”
Fiorentina, madre di 6 figli, quando un amico prete le chiese se volesse adottare un bambino abbandonato a Milano, con il marito rispose sì: "Abbiamo imparato a comunicare, siamo felici"
Geraldina Fiechter
Emanuele con i genitori
“Avevo sei figli, dico sei. Dai 5 ai 20 anni. Quando un amico prete mi ha chiesto se volevo adottare un bambino down abbandonato a Milano ho detto: sei matto, neanche per sogno. Ma ormai me lo aveva detto, il tarlo era entrato. E nel giro di pochi giorni siamo andati a prenderlo”.Emanuele con sua sorella Camilla
Dunque alla fine i matti sono stati loro, come disse ai genitori la figlia più grande, Camilla, che quando tornò a casa da un lungo viaggio trovò la sorpresa. Emanuele aveva 3 mesi, un’accentuata sindrome di down e – si scoprirà strada facendo – una grave forma di autismo. Oggi ha trent’anni e non parla, ma scrive pensieri che nessuno poteva immaginare e si è iscritto a teologia. “È un mistico”, ha detto di lui una professoressa. “La verità è che ci ha fregati tutti – dice Donatella Bing, la mamma di Ema – . Se avessimo creduto ai certificati e ai percorsi prescritti, mai avremmo scoperto cosa c’era dietro il muro”.
E allora osiamo: ogni comunità avrebbe bisogno di un Ema. Ovvero di una specie di alieno che esce da qualunque schema, che butta all’aria le dinamiche di una famiglia spingendola verso sentieri inesplorati, che vuole verità essenziali e affetto senza trucchi, che infine diventa il fulcro di una vita nuova da cui nessuno tornerebbe più indietro (e ci sarà pure un motivo). Parliamo con grandi sorrisi davanti a una famiglia (allargata) di alpaca, animali docili e morbidi che sono diventati il nuovo lavoro di Emanuele e di altri otto ragazzi parecchio complessi.
Emanuele e mamma Donatella
Donatella, è sicura di non essere una santa? Ha argomenti per convincerci?
“Potrei dire che molte volte ho detto: chi me lo ha fatto fare. I primi quattro o cinque anni sono stati faticosissimi. La casa era un campo di battaglia, Ema rompeva tutto, era pieno di rabbia, non comunicava, sputava addosso alla gente che non gli piaceva. E quando me lo portavo al supermercato c’era sempre qualcuno che brontolava perché faceva perdere tempo alla cassa. Sa quante volte ho sentito la frase: questi bambini dovrebbero tenerli a casa”.
Succede ancora?
“Eccome, ma ora non ci faccio neanche più caso. Oppure ne ricavo qualche soddisfazione: in metropolitana a Milano, stretti come sardine, una signora di una certa età ha detto la fatidica frase: dovrebbero tenerli a casa. E una signora accanto ha replicato: anche gli anziani”.
E quando c’è stata la svolta?
“Quando abbiamo trovato il primario di psicologia del Bambin Gesù a Roma, che ci ha dato la chiave per interpretarlo. Per esempio ci ha spiegato che la rabbia veniva probabilmente dall’abbandono e dovevamo dargli tempo. E un giorno avremmo dovuto parlargliene. Ha voluto seguire tutta la famiglia, non solo lui. Andavamo a Roma tutti e nove, con un pulmino. A volte venivano anche la sua baby sitter e l’insegnante di sostegno”.
Emanuele con la sorella Francesca
E il giorno della grande domanda è arrivata?
“Sì, quando ha cominciato a scrivere al computer. Un giorno ha chiesto di spiegargli la sua storia. E quando il babbo gli ha risposto semplicemente ‘avevamo saputo che c’eri e siamo venuti a prenderti’, ha battuto sui tasti la risposta: ‘Avete fatto bene’”.
È sempre andato in scuole pubbliche?
“Sì, e siamo stati fortunati. Alle elementari aveva una maestra tostissima, Sonia. Quando l’autista del pulmino che doveva portare la classe a una piccola gita si è rifiutato di far salire Emanuele, che secondo lui non aveva il permesso adatto, lei ha fatto scendere tutti i bambini e sono andati a piedi. È stata la prima sua vittoria: un bambino della classe, non un alieno isolato”.
Quando avete scoperto che poteva scrivere?
Emanuele con la sorella Camilla
“Alla fine delle elementari ha cominciato la musicoterapia con Giordania, maestra straordinaria, lei per prima ha capito che sapeva leggere perché suonava il tamburo su cui era scritta la parola richiesta. E allora ci ha parlato del metodo W.O.C.E., basato sulla comunicazione aumentativa con l’uso del computer: perché’ non provare a far scrivere Ema? Eravamo molto scettici, ma abbiamo detto: proviamoci”.
Ed è andata alla prima?
“Ci abbiamo messo parecchio tempo prima di convincerci. Non volevo crederci, mi sembravano tutte coincidenze, purtroppo anche noi genitori siamo vittime di pregiudizi. Quando poi l’insegnante mi ha fatto vedere che aveva individuato l’errore in una frase, cioè un più senza accento, allora ho detto ok, incredibile ma vero. E ci è cambiata la vita. È cambiata a lui, soprattutto, che ha potuto cominciare a scrivere i suoi pensieri, i suoi desideri, a relazionarsi”.
Scrive da solo?
“No, il progetto prevede un’assistente alla comunicazione, nel nostro caso Carolina, che segue Emanuele da oltre 15 anni e ha un bellissimo rapporto con lui. È con lei ha seguito i corsi all’università. Gli piace scrivere anche con mia figlia Camilla, che riesce a tirargli fuori anche i pensieri più nascosti. Una volta gli ho chiesto di farlo con me, lui mi ha scritto: “sarebbe bello, ma ci vuole pietà”. Come dire che non ho abbastanza pazienza”.
Che legame c’è fra voi due?
Emanuele alla batteria
“Fortissimo, siamo sempre appiccicati. E lui sa che lo vizio, quindi se ne approfitta e con me si impigrisce. Sta delle ore a ripetere i suoi gesti, a tirarsi giù la maglietta se secondo lui è troppo corta, a fissarsi su una scala mobile finché c’è qualcuno che scende. Devo essere molto categorica per farlo uscire dai suoi labirinti”.
E ora è anche uno studente di teologia, un miracolo dietro l’altro?
Con il Covid si è fermato. Ma all’ultimo esame aveva preso 30 e lode. Incredibile no? Quando ha finito l’istituto agrario gli abbiamo trovato un lavoro in un vivaio. Ma gli facevano riempire e vuotare i vasi di terra, e un giorno lui ci ha scritto: ‘Mio lavoro inutile non ci vado più’. E quindi? ‘Voglio andare all’università’, ci fece sapere. Ma figurati, la scuola è finita, gli ho detto. E lui: ‘Le mie sorelle l’hanno fatta, perché io no?’.”
E perché teologia?
“Un mistero. Una delle sorelle si era iscritta a teologia, prima di scegliere medicina. Chissà, qualcosa aveva captato e gli era piaciuto. In effetti ha superato un esame a domande multiple e lo hanno preso. L’anno dopo ha fatto un esame in cui doveva abbinare parole in greco antico ai passi del Vangelo. E ce l’ha fatta. Lo so che è difficile da credere, io per prima vengo continuamente spiazzata”.
Forse dovrebbe essere così con tutti i figli: sperare e credere fino in fondo nelle loro capacità, spes contra spem, per citare il famoso motto di San Paolo. E improvvisare in base a quel che accade. Si può dire cosi? Lei che ne ha sette, di figli, conferma?
“Confermo. Mai partire da aspettative o schemi fissi. Nel caso di Ema si aggiunge un passaggio: bisogna bussare prima di agire. Come dire: posso entrare? Ci sei? E aspettare che apra”.
Stiamo parlando in un parco alla periferia di Firenze dove nove ragazzi con diverse disabilità, fra cui Emanuele, si occupano di una famiglia di otto alpaca, animali da lana fra i più docili che esistano sul pianeta. È il loro lavoro. Come è nata questa idea?L’allevamento di alpaca alla periferia di Firenze: gli animali sono accuditi da nove ragazzi con diverse disabilità, fra cui Emanuele
“Con Carolina volevano trovare una soluzione di lavoro vero, un posto che desse a questi ragazzi speciali un vero scopo e una qualità di vita migliore. Abbiamo conosciuto Barbara, anche lei in cerca di qualcosa di bello per suo figlio, e la sua idea degli alpaca mi era sembrata perfetta: se non li accudisci tutti giorni soffrono, hanno bisogno di te, questo si che è un vero scopo, non un semplice passatempo. E a 70 anni mi sono messa a lavorare con fatture, buste paga, commercialista, non è mica stato facile”.
Cosa vi aiuterebbe?L’allevamento di alpaca alla periferia di Firenze: gli animali sono accuditi da nove ragazzi con diverse disabilità, fra cui Emanuele
“Avere la certezza che gli operatori della struttura vengano pagati e in modo adeguato: viviamo nella precarietà, andando a caccia di bandi, con piccoli contributi del Comune e della Regione. La stabilità ci aiuterebbe molto. Altro non chiediamo”.
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