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3 giugno 2022 | diMario Calabresi
La nave Vlora nel porto di Bari (© Luca Turi / Wikimedia Commons) |
Del crollo del comunismo in Albania noi italiani abbiamo visto le conseguenze: navi cariche all’inverosimile che arrivavano nei porti pugliesi e uomini e donne magrissimi che cercavano #lavoro e un futuro. Ma di come avessero vissuto prima, abbiamo sempre saputo poco e immaginato ancor meno. Quando è caduto il comunismo nel suo Paese, Lea aveva undici anni, viveva a Durazzo, sulla costa, e i suoi ricordi di quel tempo sono la rivelazione di un mondo in cui i bambini spiavano i turisti in spiaggia, ma a cui le maestre spiegavano di diffidare degli stranieri e di non accettare mai le caramelle, sicuramente avvelenate. Di un tempo in cui a scuola le compagne discutevano se potesse essere vero che in Italia esistevano negozi senza code, come quelli che si vedevano in televisione.«Il mio non era un Paese libero anche se sono cresciuta con l’impressione che fosse il posto più libero del mondo, come ci avevano insegnato a scuola. Un Paese indipendente, orgoglioso di essere tagliato fuori da tutto, sia dal capitalismo che dagli altri Paesi comunisti».Poi nel dicembre del 1990, un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, crolla il comunismo in Albania. Di quei giorni ricorda confusione e incertezza e la rivelazione, in una notte, che i suoi genitori erano dissidenti ma lo avevano sempre nascosto anche a lei. Da quel momento il suo Paese sprofonda nel caos, arrivano schemi finanziari truffa che si mangiano tutti i risparmi degli albanesi, salta lo Stato, la violenza e la paura diventano la regola. E la gente comincia a scappare.I suoi genitori non erano mai usciti dall’Albania, ma un giorno sua madre e suo fratello vedono una nave che sta salpando per l’Italia e decidono di saltarci sopra. Lea e suo padre restano a casa e non riescono a credere che siano scappati senza di loro. Per Lea la partenza arriverà a 18 anni quando andrà a Roma a studiare filosofia. Di quegli anni all’università ha un ricordo molto bello e intenso, anche se non ha dimenticato l’ostilità di molti italiani verso gli albanesi che oggi racconta con ironia: «Un giorno alla stazione Termini a Roma aiutai una donna a portare la valigia fino al treno, alla fine lei mi salutò e mi disse: “Grazie, sa qui è pieno di albanesi”».Oggi Lea Ypi è una delle più originali pensatrici della filosofia politica, capace di ragionare sulle possibilità della #libertà e sui limiti delle società occidentali. Dopo aver insegnato a Parigi, Francoforte e Berlino oggi ha la cattedra a Londra e scrive editoriali per il Guardian. Quando gira l’Europa porta sempre con sé uno dei suoi tre figli.La voce di Lea, che parla un italiano perfetto con una musicalità che la rende speciale, la potete ascoltare anche i “Voce ai libri”, il #podcast in cui ogni settimana Silvia Nucini intervista scrittrici e scrittori sui loro ultimi lavori.
La più grossa lite a cui Lea ha assistito da bambina è avvenuta tra sua madre e la vicina di casa, fino a quel giorno una cara amica. L’oggetto del contendere: una lattina di Coca Cola. Vuota. Vero status symbol nell’Albania degli Anni Ottanta, tanto che chi riusciva ad accaparrarsene una la collocava al posto d’onore in salotto, di solito su un centrino ricamato sopra il televisore. La mamma di Lea era convinta che l’amica gliela avesse rubata e se ne gridarono di tutti i colori arrivando ad insultarsi per strada.
Del crollo del comunismo in Albania noi italiani abbiamo visto le conseguenze: navi cariche all’inverosimile che arrivavano nei porti pugliesi e uomini e donne magrissimi che cercavano lavoro e un futuro. Ma di come avessero vissuto prima, abbiamo sempre saputo poco e immaginato ancor meno.
La più grossa lite a cui Lea ha assistito da bambina è avvenuta tra sua madre e la vicina di casa, fino a quel giorno una cara amica. L’oggetto del contendere: una lattina di Coca Cola. Vuota. Vero status symbol nell’Albania degli Anni Ottanta, tanto che chi riusciva ad accaparrarsene una la collocava al posto d’onore in salotto, di solito su un centrino ricamato sopra il televisore. La mamma di Lea era convinta che l’amica gliela avesse rubata e se ne gridarono di tutti i colori arrivando ad insultarsi per strada.
Del crollo del comunismo in Albania noi italiani abbiamo visto le conseguenze: navi cariche all’inverosimile che arrivavano nei porti pugliesi e uomini e donne magrissimi che cercavano lavoro e un futuro. Ma di come avessero vissuto prima, abbiamo sempre saputo poco e immaginato ancor meno.
Quando è caduto il comunismo nel suo Paese, Lea aveva undici anni, viveva a Durazzo, sulla costa, e i suoi ricordi di quel tempo sono la rivelazione di un mondo in cui i bambini spiavano i turisti in spiaggia, scoprivano l’odore della crema solare, ma a cui le maestre spiegavano di diffidare degli stranieri e di non accettare mai le caramelle, sicuramente avvelenate. Di un tempo in cui a scuola le compagne discutevano se potesse essere vero che in Italia esistevano negozi senza code, come quelli che si vedevano in televisione, dove potevi entrare con il carrello e scegliere quello che volevi dagli scaffali. «Le file da noi duravano anche giorni e la gente lasciava un mattone o una borsa come segnaposto e tornava a casa. A noi bambini colpiva tantissimo che ci fossero le marche – racconta Lea –, perché da noi c’era la pasta e basta. Di un solo tipo. Le maestre allora ci dicevano che i marchi erano i nomi dei proprietari, mentre noi stavamo con i lavoratori».
Lea Ypi, la voce narrante di questa storia che intreccia ricordi autobiografici con il destino di un Paese e una riflessione su cosa sia la libertà, è nata in Albania nel 1979, ha studiato in Italia, a “La Sapienza” a Roma, ha vissuto in Germania e ora insegna filosofia politica alla London School of Economics. La sua storia di bambina e poi di ragazza oggi è diventata un libro (“Libera. Diventare grandi alla fine della storia”) pubblicato prima in inglese e ora in italiano da Feltrinelli.
La voce di Lea, che parla un italiano perfetto con una musicalità che la rende speciale, la potete ascoltare in una nuova serie podcast che si chiama “Voce ai libri”, in cui ogni settimana Silvia Nucini intervista scrittrici e scrittori sui loro ultimi lavori.Il podcast di Silvia Nucini“Voce ai libri”
«Il mio non era un Paese libero – ricorda – anche se sono cresciuta con l’impressione che fosse il posto più libero del mondo, come ci avevano insegnato a scuola. Un paese indipendente, orgoglioso di essere tagliato fuori da tutto, sia dal capitalismo che dagli altri Paesi comunisti. Per me allora la libertà era tornare a casa quando volevo e andare a scuola da sola. Era una libertà molto spontanea». Poi nel dicembre del 1990, un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, crolla il comunismo in Albania, quando Lea Ypi aveva 11 anni. Di quei giorni ricorda confusione e incertezza e la rivelazione, in una notte, che i suoi genitori erano dissidenti ma lo avevano sempre nascosto anche a lei: «Io ero contro i nemici di classe, ma poi ho scoperto che quei nemici erano i miei familiari».
Da quel momento il suo Paese sprofonda nel caos, arrivano schemi finanziari truffa che si mangiano tutti i risparmi degli albanesi, salta lo Stato, la violenza e la paura diventano la regola. E la gente comincia a scappare: «L’imperativo immediato era lasciare l’Albania. La domanda non era “Perché?” ma soltanto “Come?”. Era una fuga disordinata, verso un mondo idealizzato, visto in televisione. Spesso con un costo altissimo, molti non sapevano poi dove andare e facevano la fame, erano senzatetto».
I suoi genitori non erano mai usciti dall’Albania, ma un giorno sua madre e suo fratello, mentre sono in spiaggia, vedono una nave che sta salpando per l’Italia e decidono di saltarci sopra. Lea e suo padre restano a casa e non riescono a credere che siano scappati senza di loro. Per Lea la partenza arriverà a 18 anni quando andrà a Roma a studiare filosofia. Di quegli anni all’università ha un ricordo molto bello e intenso, anche se non ha dimenticato l’ostilità di molti italiani verso gli albanesi che oggi racconta con ironia: «Un giorno alla stazione Termini a Roma aiutai una donna a portare la valigia fino al treno, alla fine lei mi salutò e mi disse: “Grazie, sa qui è pieno di albanesi”».
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