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Vorrei provare a fare un breve elogio della letteratura attraverso la sua capacità di colmare le distanze, cioè di viaggiare. Non un viaggio fisico, ma uno stupefacente viaggio interiore.Solo che il viaggio che la letteratura ci propone (alla sua essenza) non è un viaggio fisico, ma uno stupefacente viaggio interiore. Al tempo stesso si tratta di un viaggio che avviene salendo a bordo di una scialuppa molto particolare: il mezzo di navigazione più sofisticato e veloce fino ad ora a nostra disposizione: il pensiero, la mente umana. Certo, potremmo dire che la letteratura occidentale
nasce nel nome del viaggio e della guerra. Anzi: della guerra e del viaggio, attraverso l’iliade (la guerra) e l’odissea (il viaggio). Attraverso le gesta di chi incarna l’istinto primordiale della guerra (Achille, la forza fisica) e chi incarna l’astuzia e l’intelligenza di cui deve armarsi chi intraprende un viaggio verso l’ignoto (Ulisse). Sarebbe bello poter dire (Iliade vs Odissea) che il viaggio a cui siamo destinati (il nostro vero ritorno a casa) è un viaggio iniziatico attraverso il quale siamo chiamati a mettere da parte tutta la nostra aggressività, la nostra arroganza, la nostra violenza, in modo che il ritorno a Itaca ci trovi molto diversi. Pacificati, liberi dalla violenza. Ma temo che questa sia una prospettiva molto rassicurante. La storia della letteratura è piena di viaggi pericolosi che sembrano non portare a niente. Il Viaggio al termine della notte di Céline, per esempio: un viaggio al cuore del Novecento, dove si trovano fondamentalmente guerra, colonialismo, miseria, ingiustizia. Oppure il viaggio che Conrad ci fa intraprendere in Cuore di Tenebra, lungo il fiume Congo, alla scoperta del lato più oscuro e vergognoso dell’animo umano.
Ma non è questo il cuore del problema. Non è che per far viaggiare il lettore la letteratura deve raccontare per forza di viaggi. Il viaggio, con la letteratura, viene intrapreso per il semplice fatto di aprire un libro e cominciare a leggere. “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura...” ed ecco: stiamo già viaggiando! Ma anche: “Quasi tutti pensavano che l’uomo fossero padre e figlio”. Anche qui: stiamo già in viaggio. Chi sono questi due individui che forse sono padre e figlio, ma forse non lo sono affatto ed è in questo fraintendimento che nasce il dramma? In quest’ultimo caso si tratta dell’incipit de Le notti di Salem di Stephen King.
SE CI PENSIAMO, LA SCRITTURA
è la forma più sofisticata di comunicazione tra mente e mente (o tra spirito e spirito). Prima cioè che la telepatia diventi possibile, se mai sarà possibile (o magari un giorno sarà possibile addentrarsi nella mente di un’altra persona attraverso la tecnologia), abbiamo il linguaggio. E il linguaggio letterario più che ogni altro tipo di linguaggio. Vorrei provare a spiegare com’è possibile questo miracolo: il viaggio tra mente e mente, il viaggio interiore attraverso la lingua letteraria. (...) Quando noi diciamo: “Un’intera nottata / buttato vicino ad un compagno massacrato / con la sua bocca digrignata / volta al plenilunio / con la congestione delle sue mani penetrate nel mio silenzio / ho scritto lettere piene d’amore / non sono mai stato tanto / attaccato alla vita”. (...) Quando noi recitiamo questi versi stiamo ripercorrendo mentalmente la stessa strada, o meglio stiamo doppiando gli stessi circuiti mentali, o meglio ancora stiamo facendo aderire la nostra mente (o il nostro spirito, a seconda di cosa sia la mente) alla mente di Giuseppe Ungaretti quando, l’antivigilia di Natale, nella notte del 23 dicembre del 1915, si ritrovò durante la Prima guerra mondiale sul Monte San Michele, a Cima Quattro, accanto a un compagno d’armi morto in trincea (reale o ricordato non importa), e dunque davanti alla morte, reagì in questo modo meraviglioso. Noi non stiamo semplicemente immaginando Ungaretti che mette in fila queste parole, noi siamo quella parte della sua mente che presiede a quel tipo di organizzazione del linguaggio, che a sua volta è il più fedele portatore di quelle emozioni. Il Monte San Michele è un rilievo del Carso, in Provincia di Gorizia, nel Friuli Venezia Giulia. Ma oltre che linguisticamente, immaginiamolo per un attimo anche biograficamente. Immaginiamo il Giovane Giuseppe Ungaretti, a 27 anni, che l’anti-vigilia di Natale, soldato, forse in seguito alla morte di un commilitone, su frammenti di carta recuperata esercita l’operazione letteraria suprema: dà una forma a ciò che prima non ce l’ha. Quello che è caos, dolore, solitudine, freddo, inquietudine, magari anche panico davanti al mistero insuperabile della morte (e davanti al mistero altrettanto insondabile della stupidità umana nella sua manifestazione suprema: la guerra), tutto questo nella poesia assume una forma (...). Il poeta o lo scrittore mette in una forma chiusa tutto questo informe e lo rende trasmissibile, non come si trasmette una notizia o una statistica, ma come si trasmette un sentimento, un moto dell’animo, un movimento dello spirito la cui complessità e le cui sfumature sono infinite rispetto a quelle di una semplice notizia. O di una semplice comunicazione. Ecco. Il contrario della letteratura è la comunicazione. La letteratura ci fa “viaggiare”, la comunicazione no. E tutto questo Ungaretti lo riesce a fare mettendo delle semplici parole in fila l’una dietro l'altra, tutto qui.
E tuttavia, di cosa ha bisogno, Ungaretti? Di cose molto concrete. Qui stiamo parlando di poesia, non di prosa, ma questo per dire che persino la poesia, che è in apparenza più astratta della prosa, si basa su cose molto concrete, e non restituisce mai un sentimento attraverso l’enunciazione di un altro sentimento. Rileggendo la poesia di Ungaretti c’è una scelta molto precisa delle parole che servono a contestualizzare. C’è un elemento diciamo così, cronologico, ma continuato: non una notte, ma “un’intera nottata”. E poi, “buttato vicino ad un compagno massacrato”. Ecco, in due versi c’è già un'immagine fortissima. Per un’intera notte l’io narrante giace, da vivo, accanto a un morto, che non è il suo nemico ma un suo commilitone (“un compagno”). Poi arriva il capolavoro linguistico che rende questa poesia immortale. “Con la sua bocca digrignata / volta al plenilunio”: quindi c’è lontanissima da una parte la luna piena, e della parte opposta c’è una bocca digrignata di un ragazzo morto (...) e le due cose sono messe in comunicazione tra di loro (...). La bocca digrignata di un ragazzo morto in qualche modo è in comunicazione – lo è per noi che leggiamo – con la luna, cioè con un satellite che sta oltre l’atmosfera, con un astro freddo e luminoso. “Con la congestione delle sue mani penetrate nel mio silenzio”. Quindi le mani gonfie e livide per il ristagno del sangue (una cosa concretissima) sono penetrate in una cosa pure in un certo senso concreta ma intangibile (“il mio silenzio”). E poi, dopo tanta torsione linguistica, c'è la liberazione molto semplice, quasi naif: “ho scritto lettere piene d’amore / non sono mai stato tanto / attaccato alla vita”.
Voi pensate la potenza del linguaggio poetico, che da una fredda notte del 1915, oltre 100 anni fa (tra le dita di un ragazzo che scriveva, in cima a un rilievo, l’antivigilia di Natale), ha fatto un viaggio di 100 anni e di alcune centinaia di chilometri (o di migliaia di chilometri se fossimo in Cina) per ricalcare nelle nostre menti capaci di leggere il linguaggio, e compiere lo stesso percorso che seguì la mente del giovane Giuseppe Ungaretti.
Presto sapremo chi siamo: a questo serve (forse) la letteratura. Molto spesso, nella nostra vita, non ci ritroviamo più. Molto spesso la nostra parte più autentica, il nostro nucleo irriducibile è lontano anni luce da dove siamo noi. La letteratura può forse, certe volte, consentirci di intraprendere questo viaggio, di colmare cioè la distanza (a volte enorme) che ci separa da noi stessi. Ecco: adesso siamo davvero pronti al viaggio.
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