alla lotta antimafia e a parlare di mafia . Ma non divaghiamo ed ritorniamo al discorso originale . Per quanto riguarda la strage di via d'Amelio il mio è un ricordo di un ragazzo di 16 anni . Eroo con mio padre ed mio fratello a fe una passeggiata ed a raccogliere bacche di mirto , mentre mia madre era rimasta con i miei nonni . Quando tornammo a prenderla , per poi rientrare a Tempio , vedevo mia nonna materna scossa e sullo fondo le immagini del palazzo sventrato e delle auto bruciate . Ed li che apprendemmo della strage di via d'amelio che vide la morte del giudice paolo borsellino e della sua scorta .
A Sestu, una decina di chilometri a nord di Cagliari, c’è una palazzina rosa di tre piani. Il primo è disabitato da molti anni. Le persiane sono sempre chiuse. In una cameretta il tempo si è fermato 30 anni fa. Il letto è intatto, i pupazzi sono distribuiti con amore, la scrivania è in ordine. Le pareti sono tappezzate di fotografie che ritraggono una ragazza allegra. Si chiamava Emanuela Loi, aveva 24 anni, faceva la poliziotta. Il 19 luglio del 1992, alle 16.58, invia D’Amelio, a Palermo, un’autobomba piazzata all’interno di una 126 amaranto l’ha fatta saltare per aria assieme al giudice Paolo Borsellino e a quattro suoi colleghi della scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina). Emanuela è la prima agente donna rimasta uccisa in servizio. «Moltissime persone, in tutti questi anni, mi hanno chiesto di visitare la sua stanza, adesso voglio fare di più: per ricordare mia sorella creerò un museo in sua memoria».
PASSAGGIO DI TESTIMONE Sopra Emanuela Loi, 29, guarda la foto della zia da cui ha ereditato il nome. Figlia del fratello dell’agente
Non sapevamo che scortava Borsellino. Ci tranquillizzava dicendo che il suo lavoro non era a rischio
Mia nipote è nata quattro mesi dopo la morte di Emanuela. Darle il suo nome è stato naturale.
Ora è una poliziotta anche lei
È la promessa, svelata con voce commossa, della sorella Maria Claudia, 56 anni, che abita al piano superiore di quella che un tempo era “la casa di famiglia”.
Come sarà il museo?
«Sorgerà qui, nella mansarda. Ci sarà tanta luce, le teche con gli oggetti che hanno fatto parte della vita di Emanuela: i vestiti, le catenine, la sua divisa, il cappello. Esporrò tutto quello che in questi 30 anni ho ricevuto in regalo per lei da ogni parte d’Italia: lettere, poesie, targhe, quadri, pupazzi. Verranno anche proiettati dei filmati inediti. Finalmente, la gente potrà sentire la voce di Emanuela e capire come era».
Che rapporto avevate?
«Eravamo legate da un amore indissolubile. Io, timida e introversa
; lei, chiacchierona. Invidiavo questo suo lato. Emanuela era molto legata alla famiglia e alla Sardegna, la sua terra. Quando lavorava a Palermo aveva chiesto di essere trasferita vicino a casa nostra».
Lei è più tornata a Palermo?
«Per 25 anni non ho avuto il coraggio di andarci. L’ho fatto per la prima volta nel 2017, con la Nave della Legalità. Avevo quasi paura di calpestare lo stesso suolo che aveva visto morire Emanuela, poi ho superato il blocco. Quest’anno non sarò presente alla commemorazione, preferisco ricordarla a Sestu. Parteciperò a una cerimonia più intima, nei luoghi che lei amava e dove ha vissuto».
È cambiato qualcosa in questi 30 anni?
«Non abbiamo più paura di esporci, di dire no a Cosa Nostra, di scendere in piazza. Subito dopo le stragi del 1992, ricordo le lenzuola bianche appese ai balconi delle case di Palermo e la gente che partecipava alle fiaccolate. Prima di allora era impensabile, c’era molta omertà. Oggi scuotiamo le coscienze delle generazioni future. Io ci provo quando giro le scuole d’Italia e ai giovani parlo di Emanuela. I bambini di sei anni si avvicinano emi dicono: “Da grande voglio fare il poliziotto come tua sorella”. In questi 30 anni sono venute a trovarci centinaia di scolaresche, le portano i fiori sulla tomba, una scultura unica, fatta di specchi e acqua, il simbolo della vita».
Che cosa chiede oggi per sua sorella?
«Che si faccia chiarezza sui mandanti. Nonostante diversi processi e sentenze, ci sono ancora tanti punti oscuri su questa strage di stampo mafioso-terroristico. Sono una persona molto religiosa, se i colpevoli dovessero pentirsi in modo sincero, sentito, forse potrei perdonarli».
Dove era quel 19 luglio?
«Ero in vacanza sul Lago di Garda. Le avevo scritto una cartolina, non ricordavo il suo indirizzo, così chiamai mia madre per farmelo dare. Lei rispose al telefono con voce un po’ agitata, disse che c’era appena stata una strage a Palermo, di lasciare libera la linea di casa perché probabilmente Emanuela la stava chiamando per rassicurarla, cosa che aveva
fatto il giorno in cui era morto Falcone. La sua telefonata non arrivò mai. Poi la sera sentii la notizia e il nome di Emanuela pronunciato al telegiornale. Svenni».
Sapevate che scortava il giudice Borsellino?
«No, ci diceva che era al servizio di un uomo importante, ma quando provavamo a farle qualche domanda cambiava discorso. “Non faccio un lavoro a rischio, state tranquilli”, ci rispondeva».
E dopo quella strage?
«Troppi lutti. Via D’Amelio non mi ha tolto solo mia sorella. Dopo sono venuti a mancare i miei genitori. Mio padre per quattro anni ha avuto la febbre ogni giorno, le sue difese immunitarie si erano abbassate, eppure prima di morire era a Palermo per ricordare mia sorella. Mia madre se n’è andata per un tumore al fegato nel 2006. Nel 2010 mio nipote è morto in un incidente stradale, aveva 19 anni, e l’anno prima era morta, a 40 anni, sua madre, la moglie di mio fratello».
Chi le ha dato la forza?
«La fede innanzitutto. Sono sicura che i miei cari si trovano in una dimensione migliore di quella terrena. Proprio lì ci ritroveremo tutti insieme. E poi devo molto a mio marito, che mi è sempre stato vicino, e a quello che è rimasto della mia famiglia: mio fratello e mia nipote Emanuela. Si chiama come mia sorella ed è una poliziotta anche lei».
Ha seguito le orme della zia.
«È una donna sensibile, ma anche forte e tenace, mamma di una splendida bambina di 7 anni. Emanuela si sarebbe dovuta chiamare Azzurra, è nata quattro mesi dopo via D’Amelio, ma darle il nome della zia è stato naturale. Sin da piccola ha partecipato alle commemorazioni in suo ricordo, ha respirato il senso di giustizia».
Come era arrivata in Polizia sua sorella?
«Tra noi due ero io quella che voleva fare la poliziotta, lei sognava di diventare maestra perché amava i bambini, aveva anche partecipato al concorso, aspettava solo l’esito. Nel frattempo, la convinsi a sostenere il concorso in Polizia, lei lo superò, io no. Quando seppe di essere stata assunta come insegnante, non ebbe dubbi: decise di restare in divisa, era felice».
Si è mai sentita in colpa per averla spinta a fare questo lavoro?
«Questa è una domanda che mi fanno spesso i ragazzi delle scuole. No, non ho mai avuto nessun rimpianto. Emanuela amava il suo lavoro e quando ha avuto la possibilità di lasciarlo non lo ha fatto. Per lei era una missione».
Nonostante diversi processi e sentenze, ci sono ancora tanti punti oscuri su questa strage
L’ultimo ricordo che ha di lei?
«Qualche giorno prima di morire, era in vacanza a casa nostra, in Sardegna. Aveva la febbre, mia madre le aveva detto di non tornare in Sicilia, di aspettare che passasse. Lei disse di no: “Se non vado, il mio collega non potrà andare in ferie. Lui ha una famiglia, è giusto che stia con i suoi bambini”. Questa era Emanuela».
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