Jorit: «Un palazzo con un murale crea identità. E così le persone sono fiere di appartenere a un territorio»

leggi anche  

espresso dl  4\7\2022


Jorit: «Un palazzo con un murale crea identità. E così le persone sono fiere di appartenere a un territorio»
Da Maradona a Mandela, i suoi grandi volti sfregiati dominano le periferie. Writer internazionale, è ora tornato a Napoli. Con un nuovo ritratto: Fabrizio De Andrè. E parla con noi di giovani, guerra, cultura
di Tommaso Panza




Agoch (aprire gli occhi) è il suo nome di “battaglia”. Jorit, come tutti lo conoscono, è il nome che gli ha dato la madre, olandese, Ciro è il secondo nome, in onore del nonno, preteso da cinque zie. Achille Bonito Oliva, padre della Transavanguardia, e critico tra i più importanti, lo ha definito “il nuovo Caravaggio”.
Il writer napoletano, ormai famoso in tutto il mondo per i suoi giganteschi volti, grazie ai quali contribuisce a riscattare le periferie ed esprime precise posizioni critiche e ideologiche, è tornato a Scampia, dove lo abbiamo incontrato. E, nell’ambito del progetto “Maggio dei Monumenti 2022”, ha dato vita, dopo i ritratti di Angela Davis e di Pier Paolo Pasolini, al volto di Fabrizio De André.
Il nome della strada che ospita il Faber, alla cui realizzazione ha contribuito la giovane writer di Scampia Trisha Palma, dà all’opera un significato ancora più forte: è Via Don Giuseppe Diana, il prete campano ammazzato dal clan dei casalesi a Casal di Principe nel 1994.
Un artista ha un pensiero critico sulle cose, non è mai neutrale. Cosa pensa dell’ostracismo nei confronti di artisti, sportivi russi dopo l’invasione dell’Ucraina? Ha parlato con lo scrittore Paolo Nori, in un primo tempo censurato per un corso di cultura russa, dopo aver realizzato il volto di Dostoevskij? E lei stesso andrebbe oggi in Russia?
«Trovo che siano episodi inaccettabili. Con Paolo Nori ci siamo incontrati alcune settimane dopo qui a Napoli, mi ha fatto molto piacere aver partecipato alla presentazione del suo libro su Dostoevskij, è uno scrittore di cultura immensa. In Russia io andrei subito. Penso che la cultura russa vada studiata a fondo, anche per comprendere le motivazioni di questo conflitto. Sono stato in Russia nel 2019, mentre dipingevo il volto di Jurij Gagarin, e ho percepito nettamente quanto quel popolo sia orgoglioso. Bisogna conoscere e capire i contesti, altrimenti non capiremo mai come le cose, a volte, precipitano».
Putin ha elogiato apertamente il suo murale su Dostoevskij. Non ha temuto di essere considerato filoputiniano?
«È stato chiaramente un elogio inaspettato e, in effetti, è bastato perché qualcuno mi additasse come filoputiniano. Credo che ci sia un grosso equivoco. A me non sembra che tutta l’opinione pubblica sia d’accordo sull’invio di armi agli ucraini, quindi cosa vuol dire: che gli italiani che non sono a favore sono tutti filoputiniani? I ragionamenti degli italiani sono più avanti di quanto non crediamo. Ormai molti esperti in televisione si trovano lì a discutere per portare avanti un’agenda o interessi specifici. La gente comune, invece, che è più libera, può essere tranquillamente in grado di portare avanti un pensiero critico. Come persona cerco di interrogarmi sulle ragioni che hanno portato a questo conflitto, ma anche su come potrebbe finire».
Crede che la street art abbia realmente un ruolo nella riqualificazione delle periferie?
«Chiaramente sono di parte, ma dico sì, ci credo veramente. Le persone riescono a sentirsi parte di qualcosa che non finisce nel dimenticatoio e non resta anonimo. Un palazzo di periferia resta tale, ma un palazzo con un murale sopra accoglie qualcosa di specifico, che crea identità. L’identità non contribuisce a riqualificare solo strutturalmente, è fondamentale perché riqualifica le coscienze, fa sentire le persone fiere di appartenere a un territorio».
In Italia spesso parla del futuro dei giovani chi giovane non è o non ha consapevolezza delle difficoltà vere. Lei come vede il futuro dei giovani italiani?
«A me sembra che il treno vada solo in direzione dello smantellamento dello stato sociale e del pubblico. Ne faccio sempre un discorso di giustizia sociale, un ragionamento che è fuori dall’orizzonte di qualsiasi politico. È scontato dire che una società dovrebbe essere fondata sulla parità di diritti e di opportunità, poi vediamo che non è così. Se non ho le stesse opportunità del figlio di o non ho la possibilità di costruirmi lo stesso futuro di chi viene da una condizione agiata, dov’è la parità di diritti? C’è una canzone di Enzo Avitabile che dice “Tutt’eguale song ‘e criature, nisciuno è figlio e nisciuno”. L’unica cosa che può cambiare il futuro dei giovani e realizzare un sogno di uguaglianza è la scuola pubblica».
Abbiamo assistito all’omicidio della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, da parte dei soldati israeliani. Lei in quei territori è stato, ed è stato anche arrestato dai militari israeliani nel 2018, quando ha realizzato il volto di Ahed Tamimi, giovane attivista palestinese. Cosa significa subire un arresto in una zona di guerra, ce lo racconta?
«Se penso alle immagini dei funerali della giornalista, nel momento in cui i soldati israeliani hanno caricato il corteo con la bara, mi vengono i brividi. Disumano. Quelle persone hanno resistito sotto le manganellate pur di non far cadere il corpo. Aggredire persone che portano in spalla una bara è una forma totale di razzismo e persecuzione. I palestinesi sono un popolo oppresso in ogni aspetto della loro vita. L’arresto è coinciso con l’ultimo giorno di lavoro, ero con uno dei miei collaboratori, Salvatore. Pensavo ci avrebbero sparato. Sono arrivati in macchina, ho pensato fosse un controllo, invece sono scesi puntandoci gli M-16 addosso. Il giorno prima avevano ammazzato un ragazzino di 16 anni e ho temuto saremmo stati i prossimi. Ci hanno trattenuto per 24 ore, durante le quali siamo stati interrogati e minacciati. Uno dei soldati mi ha puntato la canna del fucile sulla pancia per quasi un’ora giocando costantemente con il dito sul grilletto. Sono riuscito a fare un post sui social prima che ci sequestrassero il telefono e ci buttassero per terra. Quel gesto ci ha salvato e permesso di essere liberati. Non potrò tornare in Israele per i prossimi dieci anni».
Come sono nate le cicatrici sul volto? Che sono poi la firma delle sue opere. E ce n’è una per lei più significativa di altre?
«Ho trascorso un lungo periodo in Tanzania. Mi capitava spesso di vedere molti ragazzi africani portare questi piccoli sfregi sulla pelle che in realtà rappresentano dei simboli. Mi piaceva l’idea che rinunciassero a un pezzo di se stessi per senso di appartenenza alle proprie tribù, fa parte della cultura africana. Le cicatrici sono diventate la firma dei miei murales, prima di realizzarle sul mio volto, due anni fa. Realizzare Diego Maradona mi ha emozionato tanto, lui mi ha anche scritto per ringraziarmi. Per un ragazzino napoletano che cresce col suo mito, Diego è quasi un Dio».
L’ultima domanda è su questo lavoro che ha realizzato adesso a Scampia. E cosa può anticiparci riguardo al futuro?
«L’idea di realizzare Fabrizio De Andrè in questa zona è nata nell’ambito del progetto “Maggio dei Monumenti 2022”. Con la mia fondazione, la Fondazione Jorit, ci siamo proposti di dare vita a quest’opera, a cui sto lavorando insieme a Trisha, una giovane street artist di Scampia. Inoltre sempre nell’ambito del “Maggio dei monumenti” c’è un’altra opera in corso a Ponticelli a firma di un altro artista, Zeus, con cui stiamo collaborando. Il futuro? È quello che faccio oggi. E quello che faccio è tutta la mia vita, oltre ai miei affetti personali che ovviamente vengono prima di ogni cosa».

Commenti

Post popolari in questo blog

s-come-selen-sposa-s-come-sara-sex due destini che s'incrociano

"Meglio in cella che testimone senza scorta" Ex pentito della banda di Is Mirrionis ruba un furgone e si autodenuncia in questura

la canzone preghiera dei cugini di campagna racconta di Jole ed Ettore, i fidanzatini sassaresi lei morì di leucemia, lui si uccise