18.4.20

Le storie di chi ha vissuto, e superato, la malattia del coronavirus nei paesi della prima zona rossa, tra Codogno e Lodi

dedicato  a  chi   soffre (  e  gli capisco  )  a stare chiuso o a non oter  fare la vita  di prima  e vuole ritornare ala normalità  ma sopratutto  a chi    coltiva  teorie complottiste  e menate  varie  .  soprattutto la leggetevi la testimonianza di chi diceva  sono fake news  e poi  s'è ammalato  


da repubblica  del 17\4\2020


I racconti   "Noi, guariti dal virus ora abbiamo paura anche dell’aria"

                                    di Brunella Giovara


Allora, si guarisce. Il medico ti dice «sei negativo, vai a casa e non pensare a cose brutte». Ma non si guarisce mai, da queste parti serviranno molti psicologi perché le cose tornino al loro posto. Intanto si prende il sole in cortile, come fa Andrea Facchini, ufficialmente guarito, immune dal virus, donatore di plasma. Ma Andrea riceve in giardino. Dice «non so quando uscirò da qui. Non sono ancora tranquillo". Il fisioterapista Facchini vive a Chignolo Po, anche qui la grande malattia ha colpito duro, e andando da Milano a Pavia, ma anche verso Lodi, si vedono solo tir e furgoni impazziti che devono consegnare d’urgenza, i paesi sono sbarrati, le campane battono a morto a tutte le ore.
Nel caldo di questo cortile, Andrea racconta di essere stato dimesso il 19 marzo. Uno dei primi ad
ammalarsi - giocava a calcio con l’amico Mattia, - anche detto paziente numero 1 - uno dei primi guariti. Abbraccia il cane Neve «che mi ha tanto aiutato perché mi ha fatto giocare, e sorridere», anche la moglie Emanuela è speciale, gli ha tenuto la mano per giorni e notti, «le gambe mi tremavano, avevo gli occhi fuori dalle orbite, non dormivo». Prima c’è stata la quarantena, solo. Ma se dovesse dire quando è davvero guarito, questo è successo solo 10 giorni fa, finite le crisi di panico «sono tornato l’Andrea di prima».
E andando avanti verso Sant’Angelo Lodigiano, lungo la provinciale c’è silenzio e un caldo da estate, e si arriva alla villetta a schiera di Domenico Bellani, consulente finanziario di 57 anni. Una strada vuota, mascherine e guanti appesi al sole, un bucato normale. Bellani non esce e non apre la finestra: «Ho paura dell’aria, non si sa mai». All’inizio pensava «il virus è una bufala per fare crollare i mercati». Ieri stava dietro il vetro, con la mascherina «che non tolgo mai. Vivo al piano di sopra, la famiglia sotto. Non voglio rischiare, il vento mi fa paura. Sono anche diventato tachicardico ». I primi tre giorni «seduto su una poltrona in un atrio senza finestre, quanti eravamo in quei giorni? Non lo so, tanti. Era il Policlinico di Pavia, il telefono non prendeva, ero solo». Vive di brutti ricordi, «una donna anziana seduta accanto a me», poi spostata su una barella, poi morta, messa in un sacco nero, il braccialetto che aveva al polso staccato dal polso e attaccato al sacco. «Un signore di 63 anni, nudo a parte il pannolone, e con il casco in testa, poi sedato perché cercava di strapparselo ». Passerà? «Ho bisogno di tempo. Ma fino a metà maggio non esco, ho deciso così».
Al Policlinico di Pavia c’è Francesco Falaschi, 54 anni, dirigente medico di primo livello. Partito il 23 per Codogno con due colleghi, «il primario Scanzi era rimasto solo, bisognava aiutarlo». Dopo sei giorni è tornato nel suo reparto perché i pazienti dalla zona rossa venivano mandati qui «e ricordo una notte, un’ondata di malati, e ho ben presente il momento, non mi sono protetto abbastanza», era stanco anzi stravolto, basta poco, ci si infetta. In clausura a casa, «mia moglie mi lasciava il piatto fuori della porta. Solo con il mio saturimetro, pensavo, vabbè, non sono grave». Ma un medico ha altre risorse, «siamo abituati all’incertezza, diverso e per una persona che non ha mai avuto o visto una malattia grave», non ha mai visto morire qualcuno, il trauma è enorme. Falaschi sta seduto nel suo studio, ci si arriva dopo giri e ascensori per evitare i reparti Covid, poi si entra ma sembra un deposito, ci sono scatole di camici e di maschere Decathlon, «chiuso in casa, mi sono fatto venire delle idee, "facciamo un appello, se ci regalano delle maschere da sub per l’emergenza", ne sono arrivate fin troppe, adesso abbiamo costruito le valvole nel nostro laboratorio 3D», serviranno per l’ondata prevista a giugno, «Poi ho lanciato la sottoscrizione per i monitor, ho raccolto 120mila euro…». «La gente ti chiede garanzie, ma come dice Clint Eastwood, se vuoi una garanzia è meglio che ti compri un tostapane ». Non è cinismo, è che «loro sanno che il peggioramento porta alla morte, quasi sempre. Ti chiedono se gli esami vanno meglio, ma tra adulti ci si dice la verità» e così Falaschi è andato verso la guarigione, e poi verso il reparto Covid. E cosa si può dire a un anziano, quando anche lui si rende conto che «ogni battito cardiaco è regalato", dice Falaschi.
Michelangelo Scutellà, 97 anni, in quarantena «nella sua stanza, io nella mia», dice la figlia Grazia. L’ha scampata dopo due settimane all’ospedale di Asola. «Sta meglio, ma non sta ancora bene", e così Mario Scrigna, 84, contagiato in ospedale a Codogno. Il figlio Massimo dice «era un comunista, sempre stato di quella fede, ora ho trovato l’altra fede, prega molto, segue le messe in televisione».
«Io penso sempre ai morti, è la cosa che mi angoscia. Sono tornata a casa e ho chiesto dei vicini», l’elenco di infetti e morti era lungo, così Paola Pirillo ieri è tornata nella casa di riposo di Maleo dove fa l’impiegata, e «ho contato quelli che non ci sono più, una ventina su 120». Come si guarisce da tutto questo? «Io sono ancora incredula, come quando il medico di Cremona mi ha detto "la ricovero negli infettivi". Ero sbalordita. Non ho mai dormito, avevo paura», e quando il marito è andato a prenderla, non l’ha riconosciuta. «Avevo la maschera, ero stravolta, ho detto "sono io", mi ha fatto salire dietro e mi ha portata a casa», a Corno Giovine, provincia di Lodi, dove accoglie gli ospiti sotto il portico, In casa no.



Il diciottenne guarito Mattia: "Ora sono nato una seconda volta"

Ha superato la sua battaglia Mattia, 18 anni, dimesso ieri dall’ospedale di Cremona, dove è stato il malato di coronavirus più giovane. Al fianco mamma Ombretta, i medici e gli infermieri che lo hanno
"adottato".
«Vado avanti con la consapevolezza di essere maturato, sono nato per la seconda volta». Dopo 25 giorni tra terapia intensiva e reparto fino a diventare negativo, dice: «Dopo il risveglio, in rianimazione ho pensato: "dove sono? Cosa faccio qua?"

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