Queste foto sono state scattate negli ospedali lombardi nei giorni peggiori della crisi
. Una foto presa col cellulare, come ne facciamo tutti, dopo averne fatte a decine di migliaia di professionali, come fotoreporter. Nel giorno in cui il suo reportage sugli ospedali lombardi assediati dal virus esce come storia di copertina del New York Times Magazine, Andrea Frazzetta guarda con struggimento la fotografia che gli rimarrà nel cuore: mamma Anna, dietro al vetro di una finestra, scosta la tendina ricamata e sopra ai vasi di gelsomini gli manda da lontano un sorriso assieme rassicurante e dolente. [ FOTO A SINISTRA ]
L’ultimo. Come decine di migliaia di italiani, Andrea non ha potuto starle vicino nell’estremo istante, né salutarla un’ultima volta in chiesa o al cimitero. Una fotografia, una fra le decine di migliaia della sua vita, è quel che gli resta. «Le ho fatto così pochi ritratti», rimpiange, «lei così orgogliosa del mio lavoro... Noi del mestiere facciamo così, nella vita privata fotografiamo poco». Questo tempo d’eccezione ha ribaltato anche questa cosa. Il fotoreporter non è solo un testimone, adesso. Entra nella sua storia. La favola parla anche di te, gli dice il virus. E il lupo cattivo bussa alla tua porta.
A 43 anni, Andrea è un fotoreporter stimato nel mondo. Si muove tra Africa, Giappone, Amazzonia, lavora per grandi testate, dal National Geographic allo Spiegel al Guardian all’Espresso, su temi planetari: l’uomo e la crisi ambientale. «A gennaio ero a New York, per progettare un servizio in Cina. Appena uscito dall’ufficio di Kathy Ryan, la photoeditor del Times, lessi sul cellulare dei primi contagi a Wuhan. Sull’aereo che mi riportava a Milano c’era già nervosismo». Ovviamente, saltano tutti i programmi. Quando il Covid aggredisce l’Italia, il magazine americano gli chiede un servizio. Ma che cosa si mostra di un Paese in quarantena? «Quel rito serale dei numeri non lo sopportavo più, 516 morti, no, di più, di meno, una lotteria senza cuore, non può rimanere solo questo, mi sono detto». Allora, cosa? «C’era un selfie, lo vidi sui social. Quello dell’infermiera di Grosseto che si toglieva la mascherina, con i lividi sul volto per lo sfregamento, e scriveva: non vanificate i nostri sforzi. Era il 10 marzo. L’Italia chiudeva. Ho capito cosa fare».
Ottiene i permessi. «Stare al sicuro, rispettare gli altri: ma anche documentare è un dovere, è il mio mestiere». Comincia il giro negli ospedali. Chiede a medici, infermieri, inservienti, di posare per un ritratto, a fine turno, nel momento in cui si tolgono la mascherina. «Volevo l’emotività di quelle persone, la loro stanchezza, la loro consapevolezza. Il medico con gli occhi lucidi. L’infermiera che mi ha detto ok, capisco, fammi la foto, ma non chiedermi nulla». Sono foto essenziali, veloci, fatte nei corridoi. Poche righe di testimonianza. «Volevo che quei volti dicessero: non siamo eroi, non abbiamo un nemico, abbiamo una comunità». Il 19 marzo, uscendo dall’ospedale di Brescia, gli arriva una chiamata da mamma Anna. Tossisce, ha la febbre. «Un tuffo al cuore». Lei ha 69 anni ma lavora ancora, in un luogo ad alta frequentazione sociale, la reception di un centro congressi. «La obbligo a chiamare il 118. Le dicono di stare in casa, le prescrivono tachipirina. La febbre scende. Mi dico, dai, forse non è il virus». Due giorni dopo le porta a casa la spesa: pane, latte, surgelati, disinfettanti. Gliela lascia sullo zerbino. Da fuori la chiama al telefono. Lei si fa vedere dalla finestra chiusa, sta al piano terra. «Parliamo da lontano, ci facciamo gesti, visto che ho il cellulare in mano le faccio una foto, più come messaggio che per l’immagine. Abbasso la mascherina per mimare un bacio. Per un microsecondo mi dico: e se fosse l’ultimo?».
Domenica 22 la febbre risale. All’alba un’ambulanza porta Anna in ospedale. «La sera del ricovero il rianimatore me la passa, sul suo telefono avvolto nella plastica. Mi dice sto bene, non ti preoccupare. Quella sera parla anche con mia sorella, con mio padre Vincenzo, ricoverato in un altro reparto. Credo che il medico abbia pensato che fosse giusto darci la possibilità di un’ultima telefonata d’amore. Tre giorni dopo la chiamata che nessuno vorrebbe mai ricevere». Dall’ospedale Sacco aveva già avvertito il New York Times: il servizio finisce qui. Adesso Andrea è in quarantena, con la moglie e il figlio di quattro anni. Papà sta meglio. Il lavoro fotografico è comunque uscito. Colpisce al cuore. «Non so se sia buono o no. Credo fosse necessario. Non so dire quali immagini resteranno di questo tempo. Credo debba restare il senso di umanità che ho sentito attorno a me. Una vicinanza di specie. Se le fotografie ce lo ricorderanno, dopo, forse ci aiuteranno a non dimenticare in quali condizioni viviamo su questo pianeta. Non so come sarà la vita dopo il virus, ma nulla dovrà essere come prima».
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