Triduo pasquale. È bello che cominci con un pasto, con una cena. In Oriente, oggi come allora, la convivialità è estremamente importante, rappresenta una forma d’intimità simile all’unione sessuale. Ed è bello che Gesù abbia conferito il mandato proprio in un’occasione come questa, che l’abbia condivisa coi suoi amici e le sue amiche. Con quelli e quelle a cui era più affezionato, anche se non, forse, i più affidabili; e lui lo sapeva.
Questa consapevolezza gli veniva dall’umanità, non dal suo essere Dio. Basta il discernimento, la discrezione. La semplice esperienza. Il realismo. Perché noi siamo così: irriconoscenti, fragili, dimentichi. Lo siamo; ma la carità – non l’elemosina, bensì l’amore incondizionato, totale – insiste, diremmo si ostina, a scommettere su di noi, sulla nostra parte buona, con la pertinacia d’un esploratore. Certo, il male è multiforme e spaventevole; fa chiasso; è vistoso. Si agita, sconvolge. Ma proprio questo denota la sua piccolezza, perché basta un grumo di bene per neutralizzarlo. E tutti noi possediamo, in qualche recesso dell’anima, questo grumo. Gesù scommette appunto su di esso, su questa origine di noi. Come se il resto fosse contorno, materia da dirozzare. La nostra forma, direbbe Michelangelo, è intrappolata nel marmo del male; ma all’interno, splende come diamante. Cristo vuol far emergere, sempre e comunque, questo splendore.
Mesi fa, cioè nell’altra vita, molti di noi si scagliavano talora retoricamente, contro i moderni mezzi di comunicazione di massa, rei di alimentare l’isolamento, di impoverire gli autentici rapporti umani, d’immeschinire il linguaggio e l’alfabeto dei sentimenti. Vero. Ma incompleto. Perché guardavamo “come quei c’ha mala luce”, focalizzando l’attenzione sullo strumento e non sul fine. Internet, televisione, giornali, denaro, persino libri, possono giovarci e distruggerci, a seconda della loro posizione nella scala valoriale. Al centro non può mai esserci lo strumento. Centro di ogni invenzione umana dev’essere l’umano. Ecco che allora i prodotti dell’ingegno diventano utili, anzi, indispensabili.
Oggi, i mass-media ci offrono una formidabile possibilità di raggiungere tutti, in particolare chi è solo. E in questo senso vanno potenziati e diffusi. Oggi, anche grazie a essi, celebriamo una Pasqua inusitata.
Una Pasqua di contraddizioni, come del resto dovrebbe essere sempre. Il cristianesimo non è “conferma” delle nostre certezze, dei nostri luoghi comuni e del nostro perbenismo. Irrompe nella quotidianità e la sconvolge, scuote un quieto vivere fatto di abitudini e riti. Ma questa volta, il paradosso è doppio. Celebriamo qualcosa di molto fisico, come un pasto, una sepoltura, un’attesa e, infine, un vitalismo sacro – la Resurrezione riguarda la carne, non l’anima: la Bibbia non menziona mai quest’ultima – stando materialmente distanti. E chissà che questa nostalgia del corpo, dei suoi odori, dei suoi abbracci e baci, non ci spinga a riflettere sulla sua dignità. Noi, siamo il corpo. Troppo spesso, invece, l’abbiamo considerato un oggetto estraneo, inanimato, da consumare in fretta – se bello, giovane, tonico –, smembrare, rinnegare, erotizzare, mercificare, addirittura affittare per desideri altrui. E quando non serviva più, quando la sua efficienza veniva meno, se era difettoso, lo abbiamo dichiarato inutile, e la sua eliminazione presentata come “supremo interesse”. Abbiamo invocato il diritto a morire, perché difendere la vita era diventato un concetto obsoleto.
Un corpo che veniva fatto esplodere per l’egoismo di tiranni autoproclamatisi dei in terra, un corpo martoriato da fame e guerre, un corpo prostituito per l’egoismo di pochi.
Adesso questo corpo reclama la sua sacertà, e ci ricorda: non sapete che siete tempio di Dio? E che lo spirito di Dio abita in voi?
In noi, ecco. E, nel momento in cui avvertiamo la nostalgia dei corpi, possiamo recuperarli “in spirito e verità”. Gesù pronuncia queste parole a una donna perché è l’unica a poterle capire. Gli uomini sono legati al tempio, al monte, a Gerusalemme. Le donne, sono donne dappertutto. Escluse dal sacro recinto. Ma proprio fuori, proprio lì, Cristo le accoglie.
L’ora è giunta. Siamo al tempo stesso fuori e dentro. Non nel tempio, ma nelle nostre case. Che erano le chiese dei primi cristiani, ricordi di pasti, preparati – e presieduti – dalle donne della famiglia. È giunta l’ora, ed è questa, dove l’unione si fa spirituale, non per disprezzo verso il corpo, come inculcato per troppo tempo da un catechismo sessuofobico incrostato di dualismo platonico, ma perché, partendo dal corpo, la potenzia; e la trasfigura.
Dio è tutto in tutti non equivale a un facile irenismo, né a una “protestantizzazione” del cattolicesimo, come pretende una vulgata che della Riforma presenta sempre un’immagine irrispettosa e caricaturale. Significa, piuttosto, ch’egli non si lascia circoscrivere in alcun perimetro, né mentale né materiale. Del tempio di Gerusalemme non è rimasta che pietra su pietra, ma il tempio del corpo è stato distrutto ed è risorto in tre giorni.
La casa di Dio non è l’edificio. Questo lo credevano i pagani; ma noi sappiamo che l’edificio ha la sua importanza simbolica, artistica, evocativa, galileiana. È accompagnamento, scuola. Ma la Chiesa è in uscita, come ricorda papa Francesco, la parola abbandona le porte chiuse, si fa glossolalia, e arriva agli estremi angoli, dove il Vangelo è perseguitato, dove l’unica voce che strepita è quella delle bombe, dove il sacerdote non entra, dove non c’è amico, non sguardo. Negli ospedali dove si muore soli. Lì giunge, anche quando tutto tace, anche quando si fa inesplicabile, perché anche lì è stata esperita, perché anche Cristo è morto solo.
C’è chi vorrebbe riaprire le Chiese per Pasqua, per celebrare “quel Corpo risorto mentre tutto parla di corpi morti”.
Quei “corpi morti” che sono il corpo di Cristo.
Quei “corpi morti” senza i quali non ci sarebbe resurrezione.
Quei “corpi morti” in cui Gesù si è talmente identificato da far esclamare al centurione pagano: “Veramente questi era figlio di Dio”. La sua regalità non si è manifestata nel fulgore abbagliante dell’arcobaleno, ma in un corpo agonizzante, piagato, irriconoscibile. Morto.
La Pasqua viene qui, in questo modo laico e samaritano, femminile e donativo. Nei “corpi morti” in cui solo può avvenire il balenio della Resurrezione. Nell’abnegazione di religiosi, medici, infermieri, volontari, amici, insegnanti e studenti, semplici conoscenti, in chi si prende cura degli anziani, in chi comprende che la pandemia, evento per noi eccezionale, ad altre latitudini è una triste quotidianità; ma quei corpi, nell’altra vita, ci sembravano remoti, di quei corpi non c’importava, fin quando abbiamo capito che no, al male non ci si abitua, non è il nostro destino, non può essere la nostra storia.
Buona Pasqua di intimità, dunque; siano le nostre case, le chiese antiche e nuove; partecipiamo ai riti grazie ai mezzi tecnologici che la mente umana ha saputo partorire; usiamoli per fare il bene, usiamoli anche per chi non potrà accedervi. Buona Pasqua in spirito e verità.
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
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