Serve ancora il giorno della memoria ?

 Dopo  quest fatti  
  da  Milano repubblica   del 2\II\2015

Milano, scritte antisemite contro il convegno sulla Brigata Ebraica: la denuncia del Pd

L'atto vandalico alla sede della Provincia denunciato dal Pd milanese. Bussolati: "Condanniamo ogni provocazione contro una pagina importante della guerra di Liberazione dai nazifascisti"


"Non ci fermano e non ci condizionano le scritte ingiuriose apparse nottetempo davanti a Palazzo Isimbardi, in vista della conferenza sulla Brigata Ebraica". Il Pd metropolitano milanese così prende posizione sulle scritte comparse ('Sionisti assassini') su palazzo Isimbardi, dove prende il via la serie di eventi del programma di 'Bella Ciao Milano!', l'iniziativa promossa dal Partito Democratico Area Metropolitana di Milano per ricordare, celebrare e narrare il 70° anniversario della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo. continua   qui

 Mi "  marzuullo  "  cioè mi faccio domanda e risposta   se    come   suggerisce  ,  questo articolo   di http://caratteriliberi.eu/   che trovate  sotto    di   cui ho ripreso  apposta    il titolo . 
N.B
 Ho riportato   integralmente  l'articolo in quanto   la risposta  che  do' alla mia domanda elucubrartoria  e  forse  ovvia  \ scontata   per  me  chje ricordo  a  360  la  giornata del 27  gennaio di  ogni anno  stessa     è alla fine  più  precisamentre  : << ( .....)   questa delega alla memoria ebraica mostra una sempre più scoperta vocazione a collocare l’intera storia della Shoah in una storia ebraica e solo ebraica. Quasi che anch’essa vada assegnata al dolore “privato” di ciascun popolo che la storia ha nel tempo percosso e offeso, non importa neppure in che misura.
Eppure, se non si prende coscienza del fatto che il carattere mostruosamente inedito di quello sterminio riguarda l’intera Europa, compresi soprattutto i non ebrei, la Shoah continuerà a restare inesplicata, macigno rimosso che continuerà a gravare sulla coscienza pubblica e privata d’Europa, ombra pesante al cui riparo altre ombre potranno di nuovo allungarsi. >>

                        Serve ancora il giorno della memoria  ?
                         di Marco Brunazzi

Da tempo alcuni intellettuali ebrei in Italia (David Bidussa, Alberto Cavaglion, Elena Loewenthal e non pochi altri) si interrogano su quella che a loro pare la progressiva irrilevanza culturale e sociale di quella commemorazione e la sua perdita di significato etico-civile.
Non si tratta soltanto dell’effetto saturazione o, peggio, di”business”, peraltro, in vario modo e peso presenti entrambi. Si tratta proprio della constatazione della distorsione che si sta determinando, pur con le migliori intenzioni delle istituzioni, delle finalità stesse dell’iniziativa e della sua legge istitutiva, ormai quindici anni fa.
In sostanza, si constata che per troppi quelle commemorazioni sono percepite ormai come risarcimenti simbolici agli ebrei vittime della Shoah e dunque come qualcosa che riguarda “loro” e non “noi” e quindi, tutto sommato, persino stucchevoli: dopo tutto, che ognuno pianga i suoi morti e non ci stia a importunare oltre. Ovviamente, le vittime non ne hanno alcun bisogno, in quanto tali, ma sono tutti gli altri, le non-vittime che ne avrebbero sempre più bisogno. Infatti, il nodo della memoria della Shoah è il nodo irrisolto della domanda su come sia potuta accadere quella mostruosità incrociata di “barbarie e modernità”. E tutto ciò nella “dotta e civile Germania”, come scriveva Thomas Mann, ma per estensione collaborativa anche da parte di tutti i”volenterosi carnefici” in tutta Europa, Italia compresa.
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 dalla rete  un estratto del film  Il bambino con il pigiama a righe di   Mark Herman Usa  2008        
 
Qui sta appunto il problema, il comandamento ebraico della memoria riguarda certamente un imperativo di sopravvivenza culturale di un popolo da duemila anni almeno esposto alla minaccia dell’annientamento (violento o per assimilazione più o meno pacifica). Ma per l’Europa tutta quel dovere di memoria non dovrebbe affatto essere soltanto un atto di dovuta solidarietà per “le povere vittime”. Al contrario, dovrebbe essere un serio tentativo di fare i conti, finalmente, con le radici oscure di un passato che si crede di demonizzare su qualcuno soltanto (i nazisti, in primis, certo) ma senza alcun serio sforzo di analisi sulle origini e natura di quel terreno fecondo (culturale, politico, sociale) che nutrì il nazismo e il razzismo omicida che ne scaturì. E poiché questa autocoscienza riguarda tutti, ma innanzitutto quei paesi che posero mano per tempo all’edificio ignobile del razzismo antisemita (tra cui l’Italia, con le sue leggi del 1938 e l’attivo concorso alle deportazioni verso i Lager da parte della Repubblica neofascista dopo l’8 settembre 1943), forse occorre che anche in Italia si cominci a ragionare senza più compiacenti indulgenze.
Da parecchi anni la letteratura storiografica ha affrontato il tema delle leggi antiebraiche del 1938 in Italia (le c.d. leggi razziali) e valga citare, tra le prime e più accurate, le ricerche di Michele Sarfatti. Così, il complesso lavorìo che portò a quella odiosa legislazione è oggi riscontrabile in tutti i suoi aspetti politici, giuridici e amministrativi.
Grazie a tali ricerche appaiono oggi ormai inadeguate e superate le spiegazioni che puntavano sulla occasionalità e superficialità di decisioni attribuite essenzialmente all’ondivago umore di Mussolini in materia.
E così pure smascherata si rivela l’infondatezza della opinione, presentata quasi come senso comune, per la quale quelle leggi sarebbero state in complesso blande e tali da non arrecare grave nocumento alla vita degli ebrei italiani, per i quali invece la sciagura della deportazione nei Lager e della persecuzione anche cruenta sarebbero iniziate soltanto con l’occupazione tedesca e soltanto per causa esclusiva dei Tedeschi stessi.
Al contrario, le gravi responsabilità del regime fascista, sia prima dell’8 settembre 1943 e soprattutto dopo, con l’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana, sono oggi chiaramente individuate e documentate.

Certo, ancora aperto resta il dibattito sulle ragioni decisive che indussero Mussolini a quella svolta, anche se qui oramai il problema non si pone più nei termini esclusivi e deterministici ancora presenti nella storiografia meno recente (come nel pur apprezzabile e originale lavoro di Meir Micaelis, per esempio).
In realtà, a quel passo concorsero, sia pure con intensità, tempistica e gradazioni diverse, una molteplicità di fattori che andavano dall’antisemitismo latente (ma non troppo) nella cultura fascista alle esigenze di politica estera non meno che di quella interna e di riposizionamento del partito fascista in vista di una guerra ormai ritenuta comunque imminente e, presumibilmente, da condursi a fianco della Germania nazista.
In questo quadro, finalmente preciso e documentato, hanno da tempo assunto crescente rilevanza le vicende dei “giusti” che si prodigarono, non di rado con grave rischio personale, per recare soccorso e salvezza agli ebrei perseguitati e ricercati per essere avviati alla deportazione. Tali vicende hanno spesso occupato e con larga risonanza l’informazione e la divulgazione pubblicistica.
Non infrequenti sono state anche le trasposizioni letterarie e cinematografiche (basti citare la storia di Perlasca o quella, in realtà tuttora controversa, di Palatucci). Anche la memorialistica ha apportato, in misura crescente, nuovi contributi, così come le stesse procedure avviate, da parte ebraica, per pervenire al riconoscimento ufficiale del ruolo di “giusto” nei confronti di personaggi prima sconosciuti anche se, per altre ragioni, di storica notorietà (basti citare il recente caso del campione del ciclismo Gino Bartali).
D’altra parte, che tali riconoscimenti siano oggi accolti molto favorevolmente dall’opinione pubblica italiana è facilmente comprensibile, ma non solo per l’ovvia soddisfazione di vedere così migliorata l’immagine della propria identità etico-civile in sede storica.
In realtà, questi riconoscimenti sembrano poter confermare e corroborare la vulgata da tempo presente nella memoria diffusa e nel senso comune. Che cioè gli italiani non sono mai stati antisemtiti, tranne frange estreme del fascismo più filonazista; che le leggi razziali vanno addebitate totalmente alla spregiudicatezza politica del Duce e ai suoi errati calcoli opportunistici per compiacere l’alleato tedesco; che sino all’occupazione tedesca “nessun ebreo perse la vita per causa di tali leggi”; che di fronte alla brutalità nazista all’opera nell’Italia occupata la stragrande maggioranza degli italiani, civili e religiosi, antifascisti e anche fascisti, si prodigarono per mettere in salvo quanti più ebrei poterono.
Queste semplificazioni storiche sono da tempo smascherate, dalla storiografia più attenta, per quelle che sono: mezze verità che sono anche, inevitabilmente, bugie intere, raccontate con finalità autoconsolatorie e di “giustificazionismo” per una storia altrimenti troppo imbarazzante.
In tali edificanti racconti non hanno quasi mai posto le numerose delazioni che, per denaro o qualsivoglia altra ragione, consegnarono invece non pochi ebrei ai loro carnefici; per non parlare dell’attivo ruolo svolto dalle istituzioni e dalle varie autorità civili e militari della RSI nella ricerca, cattura e consegna delle vittime al loro destino.
Si ha insomma l’impressione che in tutta la storia sciagurata e tragica delle persecuzioni contro gli ebrei italiani continuino a mancare alcuni tasselli fondamentali. Primo fra tutti quello di una indagine più capillare della rappresentazione dell’ebreo nell’immaginario italiano del 1938 e poi anche dopo.
Naturalmente, molto è stato finora indagato, anche a livello documentario, dalla storiografia più recente, ma molto deve essere ancora ricercato. Ad esempio in quelle minute notizie di cronaca locale nelle quali spesso si nasconde l’ombra del pregiudizio, pur se solo indirettamente richiamato. Né andrebbe trascurato il lessico corrente, specialmente là dove la natura del suo luogo di elezione (la comunicazione pubblicitaria, quella di intrattenimento, ecc.) potevano facilmente e subdolamente (persino inconsapevolmente) veicolare messaggi di sottinteso razzismo antiebraico.
Si vuole dire insomma che un fenomeno come quello dell’inaspettato irrompere di un antisemitismo istituzionale in una società apparentemente sino allora esente, complessa e articolata come quella italiana (e sia pure costretta nelle forme di un regime autoritario e tendenzialmente totalitario), richiede un supplemento di analisi che tenti di andare più a fondo nella comprensione della “dimensione “molecolare” di quell’evento stesso.
Come è potuto accadere tutto ciò, anzi, che cosa è accaduto davvero in una realtà di diffusa e profonda assimilazione della minoranza ebraica, di fronte all’ improvviso ribaltamento formale e sostanziale di quella stessa realtà? La memorialistica e la sua rielaborazione letteraria (pur di dignitosa qualità e onestà autocritica, si pensi ad esempio a “La parola ebreo” di Rosetta Loy) non paiono sufficienti a fornire un quadro adeguato.
Si consideri che, a tale scopo, assai più significativo e probante del punto di vista degli ebrei italiani e della loro memoria (necessariamente sofferta, oscillante, soprattutto nei primi anni dopo la fine della guerra, tra rimozione e minimizzazione) sarebbe stato fondamentale scandagliare il punto di vista degli italiani non ebrei. Qui le stesse fonti memorialistiche sono scarse e troppo spesso autoassolutorie rispetto alla diffusa passività con le quali quelle leggi infami furono accolte.
Oramai è troppo tardi, per le ovvie ragioni del venir meno fisiologico dell’era del testimone, ma si pensi quanto sarebbe stato interessante avviare una sorta di questionario diffuso, almeno tra gli “opinion makers”del tempo. Giornalisti, insegnanti, magistrati, avvocati, operatori sociali e culturali, che provassero onestamente a raccontare come vissero, pur nel silenzio e nella imperturbabilità delle forme esteriori del loro vivere civile e professionale, quella inaspettata “novità”. Novità che non era solo normativa, ma di sovversione di un costume, di una pratica di relazioni condivise, di un codice etico implicito oltre che esplicito. Oggi possiamo soltanto tentare di coglierne qualche riflesso nelle avare testimonianze documentarie e memorialistiche, ma con tutti i limiti prima ricordati.
E anche per il tempo dell’occupazione nazista, quanto effettivamente è rimasto di quelle delazioni, quali tracce, non soltanto nelle rare, sfuggenti e ambigue carte, ma nella memoria personale di chi seppe, di chi tacque, di chi rimosse una vicenda subito collocata nel generico contenitore dei “mali” della guerra?
Insomma, nonostante i reiterati “giorni della memoria”, continuiamo a sapere ben poco di ciò che realmente accadde nella coscienza degli italiani del tempo.
Eppure, l’antisemitismo (come altri pregiudizi, del resto) non è mai riducibile alla sua dimensione istituzionale e formale. Esso presuppone una ben più grande e profonda estensione sottostante, proprio come la scontata immagine dell’iceberg può utilmente suggerire.
Il fatto è che qui entra in gioco l’autorappresentazione storica di una società, prima ancora che di un popolo (termine di per sé già ambiguo e di scarsa maneggiabilità scientifica). Di fatto, tale autorappresentazione continua ad essere affidata alle fonti ristrette delle retoriche del discorso politico-culturale e delle sue finalità moralistiche e consolatorie, senza alcun vero tentativo di indagine sul campo.
Si badi che tale problema, di uno sforzo tuttora latitante per spiegare la realtà di una vicenda che ha segnato orribilmente la storia europea del ventesimo secolo, non riguarda solo l’Italia. Dalla Francia alla Polonia, tanto per citare due altri importanti paesi, pur con le loro distinte peculiarità, questo stesso sforzo è apparso tardivo e ancora incompleto.
E’ come se la coscienza pubblica e privata degli europei tutti cercasse di sottrarsi ancora, a quasi ottant’anni dagli eventi, a quel doloroso compito di elaborazione di un lutto che le generazioni di allora e di dopo non seppero e non vollero affrontare sino in fondo.
Così, ci si continua di fatto ad affidare all’imperativo ebraico della conservazione e trasmissione della memoria, per non lasciar cadere nell’oblio della banalizzazione e della insignificanza comparativa l’altrimenti inesplicabile e “aliena” Shoah.
Ma questa delega alla memoria ebraica mostra una sempre più scoperta vocazione a collocare l’intera storia della Shoah in una storia ebraica e solo ebraica. Quasi che anch’essa vada assegnata al dolore “privato” di ciascun popolo che la storia ha nel tempo percosso e offeso, non importa neppure in che misura.
Eppure, se non si prende coscienza del fatto che il carattere mostruosamente inedito di quello sterminio riguarda l’intera Europa, compresi soprattutto i non ebrei, la Shoah continuerà a restare inesplicata, macigno rimosso che continuerà a gravare sulla coscienza pubblica e privata d’Europa, ombra pesante al cui riparo altre ombre potranno di nuovo allungarsi.


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